Il fronte è a meno di trecento metri dalla scuola di Mashhad. Un paio di isolati. L’eco degli spari e dei mortai entra nelle stanze dalle finestre socchiuse. Ma i bimbi non battono ciglio. Ormai ci hanno fatto l’abitudine. Al contrario, si divertono a riconoscere e a imitare il suono delle armi. Il kalashnikov, il mortaio, i dushka (mitragliatrici pesanti), gli Rpg (anticarro), l’antiaerea, i grad (lanciarazzi). Come se fosse un gioco, una specie di «Vecchia fattoria» ai tempi della guerra.
Mariam è seduta in prima fila. Fissa le frasi in inglese scritte sulla lavagna e le ripete con le altre bambine della terza. «The man who is there is my father. People that eat a lot get fat».
Dopo quattro mesi di combattimenti, nei quartieri di Aleppo controllati dall’Esercito libero, le scuole stanno finalmente riaprendo. Ma non nei vecchi istituti: alcune scuole, infatti, sono diventate basi dei militari ribelli e questo espone tutte le scuole al rischio di essere bombardate dal regime. Così hanno traslocato banchi e sedie in una serie di appartamenti in città. Ogni stanza fa da aula per una trentina di bambini. Mancano libri, quaderni ed elettricità. Ma non l’entusiasmo. Ce n’è a volontà. È quello degli insegnanti, tutti volontari, che ogni mattina rischiano di morire sotto il tiro dei cecchini per andare a fare lezione.
Sulle macerie di Aleppo, oltre alle scuole si stanno lentamente riattivando tutta una serie di servizi: ospedali, tribunali, pulizia delle strade, ripristino delle linee elettriche. E dietro a questo attivismo c’è la grande partita per il potere. Perché chi si guadagna il consenso oggi, domani sarà il favorito per governare. Lo scontro è tra due soggetti: da un lato gli islamisti moderati, dall’altro i radicali salafiti.
In mezzo c’è il grande assente, che è la Coalizione nazionale dell’opposizione siriana di Moaz Khatib, che pure ha recentemente stanziato un milione di dollari per il nuovo Consiglio civile locale di Aleppo, una sorta di giunta che dovrebbe amministrare la città. Finora però di quei fondi non si è vista traccia.
La realtà sul terreno è un’altra: le uniche iniziative civili concrete sono quelle finanziate dai movimenti islamisti moderati.
Assistenza e mezzaluna
Nel quartiere Masakin Hananu, una volta alla settimana distribuiscono aiuti alle famiglie degli sfollati che hanno perso la casa sotto i bombardamenti del regime. Nelle buste nere c’è olio, zucchero, riso, sale e farina. Centinaia di donne si accalcano di fronte a una cancellata in attesa del proprio turno. Dall’altro lato, un signore di mezza età parla loro in tono rassicurante. Ha i capelli brizzolati e la barba curata. Si chiama Yousef ’Abboud. È un comandante dell’Esercito libero, ma oggi non indossa la divisa militare. Perché è venuto in veste di presidente del Comitato per la diffusione del bene (Hayat Amr bil Ma’ruf), il braccio civile del Fronte islamico per la liberazione della Siria (Jabhat Tahrir Suriya al Islamiya), la nuova coalizione islamista dell’Esercito libero. La più importante per numero di combattenti e per peso politico.
«Ci siamo appena costituiti – ci spiega ’Abboud – e contiamo già più di 125 battaglioni tra i più importanti: Liwa al Tawhid, Liwa al Fateh, Kataib al Faruq, Liwa al Nasr. Più di 30mila combattenti, praticamente tutta la corrente islamica moderata dell’Esercito libero. La nostra unione è il primo passo verso la costruzione di uno Stato islamico moderato».
I finanziamenti di questa nuova formazione giungono sia da uomini d’affari siriani vicini ai Fratelli musulmani, sia dai governi di Qatar e Turchia. E da una organizzazione caritatevole islamica turca arrivano gli aiuti alimentari che ’Abbud sta distribuendo alle donne.
«Lavoriamo su tre fronti – prosegue -. Il primo è il jihad, la guerra contro le forze del regime. Il secondo è la sicurezza delle zone liberate: abbiamo formato una Polizia rivoluzionaria islamica e Tribunali islamici. Il terzo sono gli aiuti. Assistiamo migliaia di sfollati ad Aleppo che hanno perso la casa sotto le bombe. Stiamo ripulendo le piazze dalle montagne di spazzatura, presto ripareremo la rete elettrica, stiamo riaprendo le scuole e rifornendo gli ospedali di medicine».
Resistenza armata, sicurezza e servizi sociali. Così gli islamisti provano a costruire il consenso nelle aree liberate dal regime. Prima però hanno dovuto riportare un po’ di calma ad Aleppo, cambiando strategia militare. Meno guerriglia urbana e più attacchi mirati a posti di blocco, convogli, basi e aeroporti militari del regime. In questo modo, negli ultimi tre mesi sono cadute le principali basi da cui il regime bombardava Aleppo. Basi da cui i combattenti dell’Esercito libero hanno saccheggiato armi e munizioni in gran quantità. Comprese le armi che gli Stati Uniti avevano vietato di inviare all’opposizione siriana: carri armati, lanciamissili, mortai, antiaerea.
L’aviazione del regime continua a bombardare la città, ma con meno intensità. Da un lato perché gli aerei devono decollare da Homs e Hama visto che il regime non ha più aeroporti né ad Aleppo né a Idlib. Dall’altro perché ormai il grosso dei combattimenti si è spostato a Damasco.
Bandiere nere
Se la nuova coalizione degli islamisti moderati, forte degli aiuti finanziari esteri, controlla gran parte delle attività civili nelle zone controllate dall’Esercito libero, ha però perso il controllo su uno dei poteri principali, quello della giustizia. I tribunali, infatti, sono in mano agli islamisti più radicali, aderenti al Jabhat al Nusra.
A spiegarci come funziona è il generale Mohammad Khalil El ’Ali, un alto ufficiale dell’esercito del regime che ha disertato nel luglio 2012 e che oggi è a capo del Consiglio militare curdo dell’esercito libero. «Il Nusra ha due corti islamiche ad Aleppo. In ogni udienza siede un uomo di religione e un uomo di diritto. Uno sheikh e un avvocato. Il capo del tribunale però è uno sheikh. E la legge che viene applicata è la shari’a».
In pratica chiunque può sporgere denuncia e dopo un processo la corte condanna il colpevole a un periodo di detenzione o una multa. «La pena di morte è prevista soltanto in caso di omicidio – continua Khalil -. Per esempio hanno giustiziato molti shabbiha, milizie paramilitari del regime. Per gli altri c’è il carcere. Durante la detenzione fanno studiare loro il Corano e fanno uscire prima per buona condotta gli studenti migliori».
Jabhat al Nusra, il Fronte della Vittoria è una formazione militare islamista e internazionalista, formatasi in Siria nel 2012 e – secondo il Dipartimento di Stato Usa – vicina ad Al Qa’ida. Secondo il generale Khalil, il Nusra conta non più di quattromila combattenti in tutta la Siria, di cui solo il 15% sarebbero stranieri, giovani religiosi accorsi in Siria per difendere con le armi la comunità musulmana sunnita oppressa.
I sentimenti dei siriani verso il Nusra sono un misto di timore e rispetto. Timore perché l’islam radicale e l’idea di un califfato islamico sono lontani dal comune sentire. Rispetto, perché proprio per la loro devozione religiosa, gli uomini del Nusra si stanno rivelando non soltanto i migliori in battaglia ma anche i più onesti in città nei rapporti con i cittadini.
Infatti ad Aleppo, oltre ai tribunali, il Nusra controlla anche i rifornimenti dei forni del pane e del carburante. Questo dopo che per mesi l’Esercito libero aveva praticato pesanti estorsioni sul prezzo della farina e del gasolio per fare cassa. Nel vuoto creato dalla guerra, infatti, nelle fila dell’Esercito libero si sono infiltrate vere e proprie bande di ladri. Pur essendo una sparuta minoranza, hanno fatto molto parlare di sé per le rapine, i sequestri di persona e i veri e propri saccheggi che hanno messo a segno ad Aleppo e provincia. Sia per arricchirsi personalmente sia per avere contante con cui acquistare nuove armi per guadagnare peso politico sul fronte.
Tuttavia, nonostante il potere e il consenso che il Nusra si è guadagnato ad Aleppo in pochi mesi, il generale Khalil è sicuro che la Siria prenderà un’altra strada. E non soltanto perché i radicali del Nusra sono una sparuta minoranza dell’Esercito libero. «La società siriana è plurale. Siamo fatti per il 40% da minoranze. Non possiamo fare uno Stato islamico. Dove mettiamo i cristiani? L’unica soluzione è uno Stato democratico. Sarà il voto a decidere. Ma la Siria deve continuare a essere un esempio di convivenza. È la nostra storia e ne siamo fieri».
Quale società domani?
A sostegno di ciò che dice il generale Khalil, ci sono le piazze vuote del Nusra. Da mesi ad Aleppo, ogni settimana, organizzano manifestazioni all’uscita dalla preghiera del venerdì nelle moschee. Di bandiere siriane praticamente non se ne vedono. Sventolano soltanto bandiere nere. Sopra c’è scritta la professione di fede: «Non c’è altro Dio all’infuori di Dio e Mohammad è il suo profeta». Gli slogan vanno da «Dio protegga Jabhat al Nusra» a «Il popolo vuole un califfato islamico». Sul furgoncino in testa al corteo, un gruppo di bimbi e bimbe si alternano al microfono per cantare gli slogan, sotto lo sguardo affettuoso di un giovane barbuto in divisa militare. Li seguono un centinaio di manifestanti, tutti adolescenti. Non c’è un adulto, non ci sono donne. Sembrano più i curiosi del venerdì mattina che altro.
Niente a che vedere con i moti della primavera del 2011, quando nelle piazze delle principali città siriane si riversarono centinaia di migliaia di manifestanti pacifici, sull’onda dei movimenti popolari che avevano portato alla caduta delle dittature in Tunisia ed Egitto. Per sei mesi la protesta rimase nonviolenta, nonostante centinaia di morti ogni settimana: nelle manifestazioni sotto gli spari della polizia o nelle galere sotto tortura. Fino a quando, sconfortati dall’immobilismo della comunità internazionale e corteggiati dai paesi del Golfo nemici di Assad, un gruppo di ufficiali disertori diede vita all’Esercito libero siriano. Era l’agosto del 2011. All’inizio si limitavano a proteggere le manifestazioni dagli attacchi delle forze di sicurezza. Quindi, sostenuti dal Qatar, dalla Turchia, dall’Arabia Saudita e dagli Usa, scelsero di attaccare il regime per rovesciarlo con le armi.
Da allora la guerra non conosce fine. Forte dell’appoggio di Russia e Iran, il regime ha finora rifiutato qualsiasi negoziato, trascinando il Paese in un bagno di sangue. Da più di un anno l’aviazione bombarda ininterrottamente le città insorte. Interi quartieri di Aleppo sono stati rasi al suolo. Le stragi si susseguono quotidianamente. E ormai i morti accertati sono più di 70mila, perlopiù civili. Nelle principali città è guerra aperta. Da Aleppo a Hama, da Homs a Deir Al Zor, e sempre di più nella capitale Damasco, dove si deciderà l’esito militare della guerra. Ma non quello politico.
Gabriele Del Grande
http://www.popoli.info/EasyNe2/Primo_piano/Aleppo_libera_e_poi.aspx
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