Biografia
Juan de Yepes, nacque a Fontiveros, tra Salamanca e Avila, nella vecchia Castiglia, nel 1542. Il padre, Gonzalo de Yepes, era un nobile di origine toledana, diseredato dai ricchi genitori per aver voluto sposare Caterina Alvarez, orfana e povera. La famiglia nacque nella povera casetta della donna, tessitrice, dove il padre apprese l’umile mestiere della moglie per tirare avanti. Ultimo di tre figli, Juan perderà il padre, dopo lunga e penosa malattia, appena dopo due anni dalla nascita. Il piccolo venne così subito colpito dalla durezza della vita e, ancora bambino, imparò a fare il tessitore per aiutare la madre, seguendola di città in città nella ricerca di lavoro. La madre, una donna laboriosa e intraprendente, per far fronte alla fame, andò ad elemosinare dai ricchi parenti del marito, ma fu respinta. Quando il fratello più grande di Giovanni, Francesco, cominciò a lavorare, il secondogenito morì di stenti. Poveri, appena potevano, aiutavano gli altri. Un bimbo in necessità entrò a far parte della loro famiglia. Juan tentò di impegnarsi in alcune occupazioni manuali, ma con scarsi risultati; fu mandato in un collegio per orfani, studiava e, contemporaneamente, per mantenersi agli studi cui si sentiva portato, faceva l’inserviente in un ospedale a Medina del Campo. Per il suo impegno nello studio, fu ammesso al Collegio della Dottrina, dei Padri della Compagnia di Gesù, «facendovi molto progresso in poco tempo». Quando Giovanni ebbe 21 anni, tutta l’esperienza d’amore, di povertà e di intelligenza di cui s’era nutrito si concretizzò per lui nella vocazione carmelitana. Nel 1563, in un’epoca in cui la vita regolare dell’Ordine era molto rilassata, entrò nel Carmelo di Medina, prendendo il nome di fra Giovanni di San Mattia; scelse questo antico Ordine perché attratto dal suo stile contemplativo e dalla sua particolare devozione alla Vergine Maria. Dopo la professione (1564), iniziò gli studi teologici e filosofici alla splendida Università di Salamanca, presto riconosciuto come il miglior studente della scuola, per talento e serietà. Scelse per sé una cella piccola e buia, solo perché godeva di una finestrella che guardava sul presbiterio della chiesa e vi passava lunghe ore assorto nella contemplazione del tabernacolo. Alla fine del terzo anno di studi, venne ordinato sacerdote e, di ritorno a Medina per la celebrazione della prima Messa, incontrò S. Teresa di Gesù, la quale da poco aveva ottenuto dal Priore Generale Rossi il permesso per la fondazione di due conventi di Carmelitani contemplativi (poi detti Scalzi), perché fossero di aiuto alle monache da lei istituite. L’incontro avvenne mentre Giovanni, desideroso di una più totale contemplazione, stava pensando di passare tra i certosini e Teresa stava pensando a come riformare anche il Carmelo maschile. Era il 1567. Ecco come la santa di Avila raccontò quel provvidenziale incontro: «Parlandogli ne rimasi molto soddisfatta e seppi da lui che desiderava andare tra i certosini… gli dissi che se voleva migliorare avrebbe reso ancor più servizio al Signore rimanendo nel suo Ordine. Egli mi diede la sua parola di aspettare, a patto che non si tardasse molto». S.Teresa di Gesù aveva trent’anni più di lui. Anch’ella aveva sofferto tormenti interiori con la ricerca di una nuova vocazione. Ma ormai da alcuni anni si era calmata cominciando a riformare i Carmeli femminili. Stava creando dei piccoli “paradisi in terra” dove le sorelle si aiutavano reciprocamente a “vedere Dio” fin da questa terra con gli occhi limpidi della fede e col fuoco della carità. Teresa considerava l’impresa di estendere la sua “riforma” al ramo maschile dell’Ordine molto importante perché gli uomini avrebbero potuto legare assieme la contemplazione e la missione: uniti con Dio per seguire Cristo e darlo agli altri, dove la Chiesa aveva più bisogno d’essere aiutata e sorretta.Giovanni accettò di condividere l’ideale e il destino di lei: tornò a Salamanca per completare gli studi prima di essere ordinato prete, e intanto Teresa cercò il modo di poter avere un conventino per i primi carmelitani riformati. Fu lei stessa che tagliò e cucì per Giovanni il povero abito di lana grezza. Il 28 novembre 1568, Giovanni della Croce (questo il suo nuovo nome) si trasferì prima a Valladolid e poi a Duruelo, tra un gruppetto di case coloniche, sperduto nella campagna, dove iniziò la Riforma del Carmelo maschile, secondo lo stile di Teresa di Gesù. Avevano adattato un vecchio edificio: il coro era nel solaio dove si poteva entrare e restare solo chinati, il portale era stato trasformato in cappella, due cellette erano agli angoli del coro, così basse che si toccava il tetto con la testa. Una cucinetta divisa a metà serviva anche per refettorio. Dovunque alle pareti c’erano croci di legno e qualche immagine di carta. Qui gli “eremiti” vivevano in una incredibile austerità. Si nutrivano di lunghe preghiere, così intense che quasi non s’accorgevano nemmeno di pregare; da lì andavano poi a predicare e a confessare presso i contadini delle borgate vicine. Quando Teresa andò per la prima volta a trovarli, si commosse. Per un certo periodo Giovanni chiamò i suoi parenti a vivere con loro: mentre i frati erano a predicare, mamma Caterina preparava il povero cibo della comunità, il fratello Francesco rassettava le camere e i letti, e sua moglie Anna lavava i panni. Fu, in senso proprio, una nascita per il Carmelo immaginato e voluto da santa Teresa, e gli “eremiti” vi fecero un’esperienza tanto ricca e profonda quanto era necessario per sostenere per sempre la nuova vita. Giovanni dovette subito assumersi il compito di maestro dei novizi, carica che ricoprì fino al trasferimento in un luogo più idoneo ad una vita di comunità, nel 1572. Santa Teresa che era stata nominata a forza Priora di un grande monastero di suore carmelitane non riformate, lo chiamò per farsi aiutare in una vera opera di rieducazione spirituale. Dal 1572 al 1577 fu, quindi, nominato confessore del monastero dell’Incarnazione in Avila. I due lavorarono assieme e il turbolento monastero, dove vivevano più di 130 suore, divenne pian piano quello che doveva essere: una casa di preghiera e di carità. Teresa chiamava Giovanni il suo «piccolo Seneca», scherzava amabilmente sulla sua esile figura definendolo «mezzo uomo», ma non esitava a considerarlo il padre della sua anima, affermando anche che non era possibile discorrere con lui di Dio senza vederlo rapito in estasi. Ma una parte dei frati, tra cui anche alcuni superiori non guardavano di buon occhio la riforma e considerarono i riformati degli avventurieri inquieti e disobbedienti. I cosiddetti «mitigati», definirono Santa Teresa «donna inquieta e vagabonda» e San Giovanni della Croce «religioso disobbediente, ribelle e contumace». Così il rappresentante del Generale dell’Ordine comandò che Giovanni della Croce fosse arrestato. In quel tempo i conventi avevano una cella-prigione per i frati-ribelli. Il 2 dicembre 1577 Giovanni venne «incarcerato» dai confratelli carmelitani: considerato un ribelle, fu letteralmente rinchiuso in uno stanzino angusto e maleodorante e, verso di lui, si accanirono con inusitata ferocia. Bendato e maltrattato lo portarono fino a Toledo, dove un convento possente si ergeva sulle sponde del Tago. Lo rinchiusero in un bugigattolo incavato nel muro: serviva a volte da latrina ed era quasi del tutto privo di luce. Aveva solo una feritoia larga tre dita che dava su un’altra stanza. Solo a mezzogiorno Giovanni riusciva a leggere il breviario, l’unica cosa che gli avevano lasciato. Vi restò quasi nove mesi: tempo che ebbe un’importanza centrale e risolutiva nella sua vita. Ma fu in quelle tenebre esteriori che si accese la grande fiamma della sua poesia spirituale. «Patire e poi morire» era il suo motto preferito. Scrisse più tardi: «Una sola grazia di quelle che Dio mi fece in quel luogo non si può pagare con una piccola prigione, anche se fosse durata anni». Trattato a pane e acqua, con una sola tonaca che gli marciva addosso senza che egli la potesse mai lavare, ogni venerdì sulle spalle riceveva nel grande refettorio una flagellazione così violenta che, anni dopo, avrebbe avuto ancora delle cicatrici non rimarginate. Gli dissero che si era “riformato” soltanto per voglia di comandare e per essere considerato un santo. I pidocchi lo divoravano, la febbre lo consumava. In una poesia di commento al salmo 137 (Super flumina), identificandosi con il popolo d’Israele prigioniero, disse di quel tempo: «Allì me hirio el amor» (là mi ferì l’amore). Ferito dall’amore di Dio, scrisse in carcere alcune poesie che resteranno tra i versi più sublimi della letteratura spagnola, certamente tra le più elevate composizioni mistiche di tutti i tempi: dieci Romanze trinitarie; il poemetto “La fonte”. Lì, in quella inconsueta prigione, il suo cuore si aprì a Dio nel commento vivo al Cantico dei Cantici. Nel profondo dell’abisso, nel buio terribile che l’avvolgeva ancora fisicamente, nel centro oscuro della notte, dal suo cuore nacquero le più calde e luminose poesie d’amore costruite con materiale biblico, ma anche secondo lo stile e le forme in uso al suo tempo. Egli le compose a memoria e creò un mondo incredibile di immagini, simboli, sentimenti: un mondo dove la bellezza si fa grido dell’anima che cerca Cristo come la Sposa cerca il suo Sposo e si fa attrazione inesorabile di Dio che in Cristo cerca la sua creatura. La notte, quella vera e terribile del carcere che cercò di sommergere anche l’anima del povero fraticello perseguitato, divenne la condizione ineliminabile per incamminarsi verso il mondo della rivelazione di Dio, lasciandosi alle spalle ogni cosa che potesse distrarre da questa “avventura”. Quando, dopo nove mesi, trascorsa la festa dell’Assunta, di notte, riuscì a fuggire dal carcere, rischiando di sfracellarsi sulle sponde rocciose del Tago, Giovanni si rifugiò nel monastero delle Carmelitane di Toledo, e poi in quello di Beas. Quando egli giunse nel loro parlatorio, le monache lo guardarono smarrite. “Era – dissero – come un morto, tutto pelle e ossa, e così sfinito che quasi non poteva parlare, magrissimo e di colore cadaverico”. Dopo il carcere di Toledo gli restarono ancora solo quattordici anni di vita: ed egli li passò interamente come superiore di molti conventi, generalmente amato e stimato, anche se tenuto un po’ sempre in secondo piano, ricercato soprattutto da coloro che gli chiedevano di guidarli nel cammino verso Dio. A tutti Giovanni insegnò che morire può anche significare vivere, mentre a volte si chiama vita ciò che è soltanto morire. I monasteri fondati da Teresa – e che vivevano del suo spirito e del suo stile – si protendevano naturalmente ad accogliere e desiderare la guida di Giovanni della Croce. E fu per loro che egli accettò di manifestare la straordinaria e strana sua esperienza spirituale. Poiché glielo chiedevano le persone che egli più amava, egli compì, per tutta la vita che gli restò, la fatica di riprendere la sua “parola poetica” e di tentarne una spiegazione, un commento, utilizzando tutto quello che sapeva, tutta la teologia che aveva studiato, tutte le analisi teologiche, filosofiche, psicologiche di cui era capace, nel tentativo di spiegare l’indicibile. Vennero così composti i più noti trattati ascetici, i quattro grandi commenti alle sue poesie: Salita del Monte Carmelo; Notte oscura; Cantico spirituale; Fiamma viva d’amore; lasciandone alcuni incompleti. Come all’inizio della sua vita e come nel suo culmine, così verso la fine dei suoi giorni, Giovanni della Croce si trovò nuovamente di fronte a quel mistero di morte e risurrezione, al quale si era consacrato. Per una serie di malevoli incomprensioni, alcuni dei suoi confratelli (questa volta non i frati che rifiutavano la “riforma”, ma i suoi stessi “scalzi”, quelli che egli aveva formati, che egli amava come figli, quelli di cui era così fiero che diceva che era “la più bella gente che c’era nella Chiesa”), alcuni dunque gli si rivoltarono contro. Molti gli si strinsero attorno a difenderlo, ma i pochi che gli volevano male avevano in mano il potere, e qualcuno di essi cercò perfino di togliergli l’abito e di cacciarlo dall’Ordine. Ma durante quei giorni penosissimi nessuno riuscì a sentire da Giovanni una critica o un’autodifesa. Dopo la vicenda di Toledo, esercitò di nuovo vari incarichi di superiore, sino a che il Vicario Generale (nel frattempo la riforma aveva ottenuto una certa autonomia) Nicola Doria fece a meno di lui nel 1591. Venne esonerato da ogni incarico di responsabilità ed «esiliato» in Andalusia, a Ubeda (Jaen), dove visse momenti terribili, di quasi totale abbandono, con tranquillità, lavorando ogni giorno con gioia e umiltà come aveva sempre fatto. A 49 anni egli si ammalò gravemente: nel collo del piede gli si aprì una piaga tumorale che non volle guarire. Sotto operazioni chirurgiche che avevano del supplizio diceva tra gli spasimi: «Non è niente, conviene che sia così». Gli offrirono di scegliersi un convento dove farsi curare, ed egli scelse l’unico in cui dominava un Priore che gli voleva male: costui gli assegnò la cella più povera e stretta, trascurò di procurargli i rimedi necessari, gli rinfacciò volentieri il misero costo delle cure, e impedì agli amici di rendergli sollievo. Il male si estese e le piaghe gli distrussero il corpo. Al medico che lo doveva ripetutamente medicare raschiando l’osso vivo, sembrò impossibile che si potesse soffrire tanto e con tanta pace. Giovanni percepì totalmente il dolore: l’essere così strettamente unito a Dio, “trasformato in amore”, non poteva né doveva togliere nulla alla sua realistica imitazione di Cristo Crocifisso. Intanto la morte si avvicinava. Era il venerdì 13 dicembre 1591. Giovanni era convinto che sarebbe morto al sorgere del sabato, giorno dedicato alla Vergine Santa del Carmelo. La sera prima egli si era “riconciliato” col suo Priore: con una “verità” che per noi è difficile perfino immaginare, lo fece chiamare e gli disse: “Padre, l’abito della Vergine che ho portato e del quale mi sono servito – dato che io sono povero e mendicante e non ho nulla con cui essere sepolto -, per l’amore di Dio io supplico Vostra Reverenza di darmelo per carità”. Il Priore sconvolto lo benedisse ed uscì dalla cella. Poi lo videro piangere. Solo allora si ricredette e riconobbe di avere sbagliato. Nel tardo pomeriggio si fece portare l’Eucaristia, pronunciando parole tenerissime, e prima che portassero via l’Ostia Santa, disse: “Signore, ormai non vi vedrò più con gli occhi del corpo”. La notte si avvicinava e Giovanni assicurava che egli “sarebbe andato a cantare il mattutino in cielo”. Verso le undici e mezzo i religiosi del convento erano attorno al suo letto e Giovanni chiese di recitare il De profundis: egli lo intonò e i frati risposero versetto per versetto. Poi si continuò con i salmi penitenziali. Accanto a lui era giunto il Padre provinciale, il vecchio padre Antonio, di 81 anni, col quale aveva iniziato la prima fondazione di Duruelo e costui credette di dargli conforto rammentandogli quanto aveva dovuto faticare per la Riforma dell’Ordine. «Padre – gli disse Giovanni – non è il momento di parlarne; solo per i meriti del Sangue di Nostro Signore Gesù Cristo io spero di salvarmi». Iniziarono le preghiere per gli agonizzanti. Giovanni le interruppe. Disse: «Non ho bisogno di questo, Padre, mi legga qualcosa del Cantico dei Cantici». E mentre quei versetti d’amore risuonavano nella cella del morente, Giovanni sembrò incantato e sospirò: «Che perle preziose!». A mezzanotte suonarono le campane di mattutino e appena il morente le udì esclamò per la gioia: «Gloria a Dio, andrò a cantarlo in cielo». Poi guardò fissamente i presenti come per salutarli, baciò il crocifisso e disse in latino: «Signore, nelle tue mani affido il mio spirito». Così, morì a Ubeda il 14 dicembre 1591, facendo sue le parole del Cantico dei cantici, in un trasporto d’amore. Aveva scritto in una sua celebre poesia: “Rompi la tela ormai al dolce incontro!”. I presenti raccontarono di una luce dolce e di un intenso profumo che riempì la stanza. Giovanni della Croce aveva così compiuto la sua missione. Canonizzato da Benedetto XIII il 27 dicembre 1726, venne proclamato Dottore della Chiesa da Pio XI il 24 agosto 1926. Nel 1993 Giovanni Paolo II lo ha nominato patrono dei poeti di lingua spagnola. Il suo magistero fu fondamentalmente orale; se scrisse, fu perché ripetutamente richiesto. Tema centrale del suo insegnamento che lo ha reso celebre fuori e dentro la chiesa cattolica è l’unione per grazia dell’uomo con Dio, per mezzo di Gesù Cristo: dal grado più umile al più sublime, in un itinerario che prevede la tappa della via purgativa, illuminativa e unitiva, altrimenti detta dei principianti, proficienti e perfetti. Cristo è «presente e operoso» sempre nella Chiesa. Per arrivare al tutto, che è Dio, occorre che l’uomo dia tutto di sé, non con spirito di schiavitù, bensì di amore. Celebri i suoi aforismi: “Nella sera della tua vita sarai esaminato sull’amore”, e “dove non c’è amore, metti amore e ne ricaverai amore”. “Non far cosa, né dir parola importante, tale che Cristo non farebbe e non direbbe, se si trovasse nello stato in cui sei tu, e avesse l’età e la salute che tu hai”; “Non chiedere altro che la croce, e precisamente senza consolazione, perché questo è, perfetto”; “Rinnega i tuoi desideri e troverai ciò che il tuo cuore desidera”. San Giovanni della Croce non chiedeva che sofferenza e umiliazione: «Signore – pregava – non chiedo che di patire con voi. E che sia considerato nulla ». Le sofferenze che subì gli insegnarono a scoprire il mistero della croce e ad avanzare sulla strada della più alta contemplazione e della vita mistica. Come per S.Teresa d’Avila, i suoi scritti vennero raccolti in un libro col nome di “OPERE”, poemi e trattati che sprigionano la sua sapienza mistica, quella che non viene dai libri e dagli studi, ma che si “sa per amore”. La salita del “Monte” Carmelo, dei vertici della spiritualità ove si compie il mistero amoroso dell’unione con Dio, certo, non è una via facile. Ha i passaggi obbligati delle purificazioni e delle prove ed è attraverso la nudità e l’oscurità della fede, attraverso la dura e meravigliosa ventura della Notte oscura, che l’anima può giungere alle pure esperienze in cui svolge il dialogo con l’Amato, come la Sposa del Cantico dei Cantici, come l’Amante Amata del Cantico Spirituale. Ma allora l’anima non vuole altro che ardere dell’unione consumante della Fiamma Viva d’Amore.. Le Opere minori, Poesie, Cautele, Avvisi, Massime e le Lettere, mettono in luce una ricchissima serie di dettagli molto preziosi per la conoscenza personale del Santo ed anche per la retta interpretazione della sua dottrina.