Beata Elia di San Clemente

Il 19 dicembre 2005, il Santo Padre Benedetto XVI ha ricevuto in Udienza privata Sua Eminenza Rev.ma il Sig. Card. José Saraiva Martins, Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi. Nel corso dell’Udienza il Santo Padre ha autorizzato la Congregazione a promulgare il Decreto riguardante un miracolo, attribuito all’intercessione della Venerabile Serva di Dio ELIA DI SAN CLEMENTE, Monaca professa dell’Ordine dei Carmelitani Scalzi. L’ultimo Decreto della Congregazione delle Cause dei Santi, riguardante Suor Elia di S. Clemente, era stato l’11 Dicembre 1987. In quella data, la Chiesa riconosceva l’eroicità delle virtù di Suor Elia. Mons. Mariano Magrassi, Arcivescovo di venerata memoria della Chiesa di Bari – Bitonto, già riconosceva, in quell’atto ecclesiale, un evento eccezionale per la Chiesa locale, ne proclamava l’efficacia e tesseva l’elogio della testimonianza di fede di questa Sorella, “piccolo sorriso del buon Dio”, e della profondità della sua esperienza. La vita di Suor Elia si può narrare in poche battute, crea quasi un certo imbarazzo per la sua essenzialità ma, dentro questo frammento, si scorge la profonda esperienza di Dio, la sua pienezza d’umanità. Il nome di battesimo era Teodora Fracasso. Nacque a Bari, da Giuseppe Fracasso e da Pasqua Cianci, il 17 gennaio 1901. Visse nella sua famiglia fino a diciannove anni manifestando un carattere vivace ed intelligente, una sensibilità capace di manifestarsi come tenerezza commossa e tradursi come amicizia sincera, sensibile alle bellezze della natura e affascinata dall’amore di Dio. Entrò nel Monastero delle Carmelitane Scalze di S. Giuseppe, in Bari, l’8 Aprile 1920, emise la professione semplice il 4 Dicembre 1921 e l’11 Febbraio 1925 emise la Professione solenne. Verso la fine del 1926 cominciò a soffrire un continuo e forte mal di testa, che lei chiamava il suo caro “fratellino” : «Il mio fratellino – scriveva a colui che dirigeva la sua anima – non mi permette di fare lunghi discorsi, tanto meno ascoltarli. Come vede, tutto coopera ad isolarmi sempre di più da ogni cosa e a vivere unicamente in Dio. Niente turba la pace dell’anima mia. Tutto mi serve di leva per sollevarmi a Lui. No, Padre venerato, non mi pento di essermi consacrata vittima al Signore ». In realtà, era l’inizio dell’encefalite, che doveva portarla alla morte. La sua malattia decisiva fu brevissima, pressoché inosservata, curata come semplice influenza. Così avvenne perché tutto si svolgesse nel nascondimento secondo il suo anelito. La comunità fu avvertita quando la piccola sorella era in coma. Il sole del Natale splendeva in un cielo di primavera anticipato allorché la dolce « tortorella », come si era tante volte autodefinita, spiccava il suo volo incontro al Sole di tutte le galassie. Era il mezzogiorno del 25 dicembre 1927.

Biografia

Una vecchia casa in piazza San Marco, n. 24, nella Bari Vecchia; al secondo piano abitano Giuseppe Fracasso e Pasqua Cianci, «genitori veramente santi» (scriverà suor Elia). Qui, il 17 gennaio 1901 vede la luce la nostra Teodora (Dora). Era la terza di ben nove fra sorelle e fratelli: Prudenza, la più grande, Anna (morta a sei anni), Teodora, Domenichina (che si farà monaca come la sorella, col nome di sr. Celina), ultimo, l’unico maschio, Nicola; gli altri quattro morirono prematuramente nella prima infanzia. La famiglia di suor Elia era seriamente cristiana. Il padre gestiva una piccola azienda artigianale di pittore edile; di modesta istruzione (aveva lasciato presto gli studi per aiutare la famiglia) – a differenza del fratello Carlo sacerdote – ; cattolico praticante, come la moglie, fu sacrista maggiore della Confraternita “Santa Maria del Pozzo” della vicina chiesetta di San Marco. Tutti, la sera, riuniti insieme, recitavano il rosario. La mamma sapeva parlare ai suoi bambini di Dio, della Madonna, del cielo, della vita eterna, dell’anima. A soli due anni, secondo la consuetudine del tempo, Dora riceve la cresima dall’arcivescovo di Bari, mons. Giulio Vaccaro. La grazia di Dio opera in quell’anima innocente che depone ogni sera ai piedi della Madonna «il fiorellino di qualche mortificazione praticata in suo onore». A cinque anni – Dora – ha un sogno che le si imprime profondamente nell’ anima. Vede un giardino di gigli in cui avanza una donna con una falce d’oro, che miete gigli ed, infine, strappa un piccolo giglio e se lo stringe al cuore, poi scompare. Il mattino dopo, la piccina narra, tutta eccitata, il sogno alla mamma, e le chiede chi potrebbe essere quella signora del sogno, e mamma le spiega che ha visto la Madonna. In quello stesso giorno, in giardino (la famiglia, a maggio, si trasferiva in una casa di campagna con un giardino), contempla Maria in una rosa sbocciata e che le predice il suo futuro di monaca: è il primo seme della sua vocazione religiosa. Quale che sia il senso di quel sogno, esso dovette essere la prima esperienza religiosa della bambina, se ripensandoci più tardi, scriverà: «Da quel giorno sentivo un non so che nell’intimo dell’anima che mi faceva cercare qualcosa. Il mio piccolo cuore provava un’ardente sete del suo Dio, e da quel giorno il desiderio di Dio e il continuo pensiero di essere monaca non si partirono più dalla mia mente». La bimbetta si sente come un’umile erbetta nascosta, che dice al suo cuore come «il Signore nostro Dio abita nell’alto, ma si china a guardare ciò che è umile in cielo e sulla terra»; ed offre a Dio il suo cuore. “Sogni” e “visioni” hanno accompagnato un’ infanzia già vissuta in una grande sensibilità verso le realtà dello spirito, che non può non essere se non dono della grazia divina, come il voler sapere a tre anni cosa fosse l’anima e quale fosse la sua destinazione. Alla richiesta di Dora: «Mamma, le bimbe buone vedono l’anima loro? E tu hai mai visto la tua?». «Piccina mia, il velo di questo corpo ce la nasconde. Essa è dentro di noi e solo dopo la morte potremo vederla. È tanto bella». Si tratta, tuttavia, di sogni e visioni per nulla straordinari, cui si può credere tranquillamente, perché lo straordinario non è tanto in quella che Dora “sogna” o “vede”, ma nell’intensità con cui ella vive particolari come quello, appunto, del filo d’erba nascosto…, «l’ umile fogliolina di una erbetta ignorata che io coltivavo gelosamente, essa mi simboleggiava il nascondimento e la dimenticanza di tutti» un filo d’erba nascosto cui nessuno darebbe peso, ma lei «a tal vista tutta mi sentii attratta e piegando anch’ io le ginocchia grandemente commossa, sollevando lo sguardo al cielo, sentivo all’invito, della terra, congiungersi anche quello degli eletti». Di lei è stato tracciato questo piccolo ritratto: «Una bambina di buona salute, intelligente, ricca di sentimento. Amava le cose belle e quelle che amava le voleva; godeva d’essere amata, non voleva dispiacere a nessuno. Le piaceva giocare con i giocattoli che la mamma le comprava e soprattutto con la sorella più piccola, Domenichina; ma preferiva l’aria aperta del giardino dì casa, le passeggiate col babbo lungo il mare, sotto il sole forte di Bari e il cielo stellato delle sere estive». «Ancora molto piccina» – come scrive – entra nel 1906 nell’Istituto delle suore Stimmatine (le «Figlie d’Assisi»). Per i primi due anni è convittrice interna; negli anni successivi rimane semiconvittrice (tale resta anche quando termina gli studi col diploma di terza elementare), ma praticamente vi trascorre tutto il giorno frequentando il laboratorio di cucito e ricamo, crescendo e progredendo e finendo col diventare una collaboratrice delle istitutrici. Intanto, nella vicina chiesa di san Francesco da Paola, tenuta dai padri Domenicani, frequenta le associazioni parrocchiali per i fanciulli ed i giovani: associazioni mariane, che educavano alla devozione a Maria, cui i bambini si affidavano per crescere in purezza. A dieci anni (1911) riceve la Prima Comunione, preceduta da una lunga e scrupolosa preparazione alla prima confessione. Nei dieci giorni d’esercizi spirituali (presso le Suore Stimmatine) che precedono immediatamente il giorno della Prima Comunione passa lunghe ore da sola davanti al Tabernacolo. Furono giornate di primavera: «Gesù, come tutta mi sentii perduta in Voi quale atomo lanciato in un braciere di fuoco». La notte prima, fa un sogno misterioso che però non rivela (si saprà in seguito che ha sognato s. Teresina che le aveva detto: «Sarai monaca come me»). L’ardore con cui s’accosta alla Comunione attira l’attenzione dell’Arcivescovo, che dopo la celebrazione vuole incontrarla e la bacia in fronte. Dora vive questo giorno come un consacrarsi totale e definitivo al Signore. Gesù le «comunica» che «avrebbe molto sofferto, quaggiù». Da quel giorno fino alla sua morte Dora, in seguito suor Elia, non trascurò mai comunicarsi ogni giorno, tranne nei giorni di malattia e per due mesi d’incursioni aeree, in cui la famiglia era sfollata in campagna. A quindici anni lavora ancora presso le Stimmatine ricavandone qualche guadagno per la famiglia: erano gli anni della guerra 1915-18, e suo papà s’affaticava forte per la famiglia che cresceva. Dora lavorava anche di notte al lume di una candela per risparmiare la corrente elettrica. Lavorava e pregava. Si forma attorno a lei un gruppetto di amiche che, affascinate dalla spiritualità di Dora, sono con lei “un cuor solo e un’anima sola”, soprattutto nella preghiera (oltre la sorella Domenichina, due ragazze su quattro si faranno, come lei, carmelitane). La sorella maggiore, Prudenza, le chiede consigli e Dora non lo fa pesare. Domenichina condivide con lei l’amore per il Signore: è un po’ come Celina per Teresina (e Domenichina entra nel Carmelo dopo la sorella e si chiamerà proprio Celina). Al fratellino Nicola insegna preghiere e fioretti. È attenta agli operai del laboratorio gestito dal padre ed alle loro famiglie, con pensieri, lavoretti per i neonati; assiste un operaio inabile per causa del lavoro; va a pregare con costanza sulla tomba di un operaio defunto; si preoccupa che vadano a Messa la domenica (si fa dire il colore dei paramenti o si fa ripetere la spiegazione del Vangelo), e che offrano a Dio il loro lavoro, che le mamme facciano la comunione prima del parto, che battezzino i neonati entro gli otto giorni. Mette parole di pace fra tutti. È preoccupata della salvezza delle anime. Il suo pensiero s’allarga a tutte le anime da condurre a Dio. Come Santa Tersina pensa alle missioni “nelle terre dei barbari, nelle lontane Americhe”; come Teresina comprende che non sono necessarie opere grandi, ma l’amore e la completa immolazione di sé. Con la guerra iniziò un brutto periodo; tra l’altro esplose un certo anticlericalismo rimasto sino allora in parte sotto la cenere. Prima fu chiuso il convento dei Domenicani di S. Francesco, col pretesto di spionaggio in favore dell’Austria. Poi vennero bandite anche le Stimmatine. Lo spirito degli avversari si manifestava in tutte le forme e c’erano anche bestemmiatori che dappertutto si permettevano d’offendere Dio. Una sera ne capitò uno anche in casa Fracasso. Dora, alle spicce: “Signore, in casa nostra bestemmie non se ne dicono; se vuol farlo, vada fuori”. “Grazie, signorina!”, ed il malcapitato smise; ma, andando via, disse all’amico don Peppino: “Quel rimprovero mi è valso più di una predica”. In quello stesso tempo ne capitò un’altra. Una sera un mangiapreti andò a prelevare sua moglie che di giorno lavorava in casa Fracasso per guadagnare qualche cosa. “Mamma – fece notare Dora – quell’ uomo è senza la grazia di Dio”, e ne sentiva perfino la puzza dei peccati che portava addosso. Poco dopo quell’uomo s’ammalò. Il gesuita p. Angelo Maresca fu invitato a portargli i Sacramenti. L’infermo, al solo vederlo, prese un bicchiere per tirarlo al prete, ma non ci riuscì. Il Padre, vista la cattiva disposizione, se ne andò. Dora stando in fondo alla porta della camera dell’ammalato, fu vista piangere e, soprattutto pregare. Quando s’accorse che l’ammalato, aggravatosi, cercava qualche cosa, lei s’avvicinò, prese di tasca il crocefisso che portava sempre con sé e lo porse al moribondo. Questi lo baciò. Si rinnovava il gesto del condannato Pranzini per il quale aveva pregato santa Teresina. Nella bottega del padre c’era un povero operaio paralizzato agli arti superiori. All’ora del pranzo, Dora gli portava una scodella di minestra e lo imboccava con carità. Altra volta l’amica Prudenzina s’accorse che Dora non aveva più gli orecchini datile dalla mamma. “Che ne hai fatto?” Le chiese. “Li ho dati a una povera ragazza che doveva sposarsi. Tanto a me non servono più, vado in monastero”. A volte capitava in casa una vecchina che viveva sola e priva d’ogni igiene. Dora l’invitava in giardino e si metteva pettinarla. Ce n’erano di inquilini tra quei poveri capelli! Un giorno la vecchietta non si vide più. La trovarono morta, sola sola in casa. Dora, prima provvide a far venire un ecclesiastico per farne benedire la salma, poi la lavò, la vestì e così la preparò per l’umile sepoltura. Dora era una bella adolescente e non poteva non attirare l’attenzione di qualche giovanotto. Uno di questi osò farlo con molta garbatezza. Lei gli rispose: “Domani ci vedremo alla chiesa di san Gaetano; lì confessati e comunicati”. Il giovanotto lo fece, e stette in attesa della conclusione, che fu singolare: “Non pensare a me. Io sono tutta del Signore. Io potrò aiutarti con la preghiera”. Ma lo fece così bene che, qualche tempo dopo, quando Domenichina che aveva assistito all’incontro ed ora andava con la famiglia a salutare quella del giovane pretendente, perchè la figlia entrava al Carmelo, il giovane le disse: «Dì a tua sorella che il suo aiuto e le sue preghiere mi hanno fatto più bene che la sua mancata compagnia». Dora era stata di parola. Ma il suo sogno era il Carmelo: venne a sapere che ne esisteva uno a Bari, quello di San Giuseppe, di recente costruzione. Dora non ne aveva parlato con nessuno, ma con sua sorpresa un padre domenicano, al termine di una conferenza a cui Dora aveva assistito, le profetizzò: “Signorina, lei sarà carmelitana scalza!”. «Come lo sa, Padre?». «È negli occhi che vedo la vocazione. Si dia tutta, buona figliola, al Signore». In realtà Dora aveva già sognato da fanciulla s. Teresa di Gesù Bambino, che l’aveva chiamata “suor Elia” e le aveva predetto che sarebbe morta giovane come lei. La giovane carmelitana di Lisieux – non ancora proclamata santa – l’invitava a seguire la sua “piccola via”. Il 24 novembre 1921, terminato il primo anno di noviziato, Suor Elia comincia i santi esercizi spirituali in preparazione alla Prima Professione religiosa, quella dei voti temporanei. Suor Elia medita soprattutto sulla sofferenza: «chiamerò vuoto quel giorno che non abbia sofferto qualcosa per te». E nei giorni di ritiro tra l’altro annota: Gesù mi ha tenuta stretta con Lui oggi inebriandomi del suo amore, non delle sue consolazioni. Meglio così, giacché l’ebbrezza delle consolazioni cessa, ma l’ebbrezza dell’amore non cessa che per eternarsi in paradiso… Prima di chiudere gli occhi al riposo, voglio, o Vita mia, imprimerti un affettuoso bacio sulla piaga del tuo costato, oasi di pace e di salute, ove scaturisce a torrenti il puro sangue dell’Immacolato Agnello, che vivifica e ristora l’anima mia arsa del suo amore infinito… (S 199). Suor Elia comprende bene che è dal costato di Cristo aperto dalla lancia del soldato, dal suo cuore trafitto, che è ‘sgorgata’, come dice S. Giovanni («sgorgò sangue e acqua», Gv 19), l’Eucaristia, e a quel ‘torrente’ si inebria d’amore. Ed è la croce il costante riferimento della sua vita, del suo spirito. Si sente una bimba che deve salire un monte (che è insieme il Carmelo e il Calvario): Ai piedi di questo monte, io scorgo una bimba sorridente in volto, e cogli occhietti, guarda meravigliata, l’alto monte che le convien salire. Per bastone ha una croce… Le spine che i piccoli piedini insanguinati calpestano non le arrestano il cammino, la tempesta a cui va incontro non la spaventa, più ella si stringe alla sua croce qual porto di salvezza… (S 203). La croce è la sua vita e la sua luce: La tua croce mi sarà di conforto nel breve pellegrinaggio della vita; crocifissa con te voglio amarti fino alla morte; mi addormento stretta alla croce del mio Gesù, baciata dai candidi raggi della luna che da piccole fessure della finestra penetrano nella cella per illuminarla… (S 206). Così abbandonata alla croce, si lascia andare totalmente alla volontà di Dio, che faccia di lei quello che vuole; lo dice con il suo linguaggio della piccolezza: Fate di me, o mio piccolo Gesù, una pallina oggetto dei Vostri trastulli, calpestatela sotto i Vostri Adorabili piedini, lasciatela ove vi piace, essa ritornerà sempre al suo centro. Ma è incredibile come Suor Elia riesca a cogliere nel suo stile di inconfondibile semplicità e poeticità la grande verità teologica del “forte” che si è fatto “debole”, del divino che “annientò se stesso” (Fil 2,7), della “grandezza” e della “piccolezza” di Dio. È davvero un “perdersi in Dio”. “Perduta in Dio” è una delle definizioni che più frequentemente Suor Elia dà di sé nei suoi scritti. Padre Magrassi, commentando questa espressione, scriveva: «Una vita ‘sprecata’. Un po’ come l’unguento sparso dalla Maddalena sui piedi di Gesù. Giuda interviene a deprecare quello ‘spreco’. Gesù lo esalta e dice che il suo ricordo sfiderà i secoli». La logica della croce e dell’affidarsi a Dio in tutto le fa vedere positivamente anche vicende e momenti di grave difficoltà e sofferenza, come quando l’incarico assegnatole all’Educandato annesso al Monastero suscita pesanti incomprensioni e giudizi nei suoi confronti. Davvero santamente Sr. Elia vede nella prova la misericordia del Signore; così scrive al suo Padre spirituale: La prova che il Signore si è compiaciuto inviarmi durante la dimora all’Educandato è uno di quei dolori difficili a ridirsi, ma glielo confesso che il buon Dio vedendo la mia piccolezza sempre mi ha sostenuta nelle Sue braccia e, nelle ore le più oscure, quando l’esilio potente si faceva sentire all’anima mia, dal buon Dio ho attinto la forza di sempre tacere nascondendo tutto sotto il velo di un sorriso… Padre Nostro, non posso nasconderle però che molte verità ho conosciute, e posso accettarle, ché in questi due anni ho compreso la vita… La scossa, non glielo nego, è stata grandissima che ho ricevuto, ma posso asserirle in verità che nessuna creatura ha colpa; ma bisogna che in tutto io veda la mano dolcissima del mio Signore che se si è posata sul mio capo è stato unicamente per beneficarmi… Veda un po’ V. R. quanto è mai buono il Signore e quanto amore mi porta pur non meritandolo?… Ora il mio cuore è circondato da una vasta solitudine, un po’ stanco per la lotta sostenuta, ma capace però di sollevarsi al Cielo e ringraziare il buon Dio… In questa dolcissima prova il mio cuore ha conosciuto assai bene gli abissi dell’amore e di misericordia del Cuore di Gesù… (L 133). Suor Elia vede nelle prove la “mano dolcissima del Signore che si posa sul suo capo”, la prova è “dolcissima”, conosce in essa “gli abissi dell’amore e di misericordia del cuore di Gesù”. Ed è così che la croce si ricopre di fiori e di gemme preziose: Oggi la piccola celletta mi sembra cambiata in un mistico giardino, i fiori che adornano la croce, adagiata sul povero letticciuolo, silenziosi si elevano, e nel loro muto linguaggio m’invitano alla preghiera. Girando lo sguardo d’intorno, sollevandolo al cielo, mi pare di veder scendere da quell’infinito azzurro, una pioggia di perle preziose, di celeste rugiada, che vivifica l’anima mia. Questa pioggia sono le immense grazie, i lumi, i favori divini che come tanti gioielli, adornano l’anima mia preparandola per quel giorno fortunato, che dovrà unirsi in mistiche nozze al Re dei re (S 201). In una lettera del 31-12-1923 Suor Elia scrive al suo direttore spirituale, P. Elia: “Padre veneratissimo, preghi molto per me, affinché non sia di ostacolo all’intimo lavoro della grazia che incessantemente opera in questa piccola infima creatura. Bisogna che pur confessi con sincerità a V. R., Padre dell’anima mia, che alle volte nel profondo silenzio della cella verso alcune lacrime di riconoscenza al mio buon Dio, per tante finezze d’amore largitemi fin dai più teneri anni… ma quello che mi strappa le lacrime è il pensiero di avermi così bene celata alle creature… Sì il mio cuore ha gustato appieno le gioie sconosciute riposte nell’oblio…”. Grazia, gioia, gratitudine… Sono parole continuamente ricorrenti nel vocabolario spirituale della Venerabile Suor Elia di S. Clemente. Tutto è grazia, dono di Dio: la famiglia, la comunità monastica, il direttore spirituale, l’amicizia, ogni giorno di vita, soprattutto la sua chiamata e la sua vita al Carmelo, ma anche le amarezze e le incomprensioni, la malattia. E poiché tutto è dono di Dio, tutto è anche fonte di gioia… Suor Elia realizza pienamente l’invito dell’apostolo Paolo: “Siate sempre lieti, pregate incessantemente, in ogni cosa rendete grazie” (1 Ts 5, 16-17). E questa è beatitudine già sulla terra, è santità vissuta già come totale appartenenza a Dio. E quanto più scopre il dono di Dio, tanto più Suor Elia si sente piccola e si fa piccola, vittima d’amore sulla croce, vittima eucaristica sull’altare di Gesù; scrive nel suo Diario: “Le piccole vittime d’amore non raccolgono mai spine, ma sempre rose, perché esse ben sanno che tutto viene dall’amore. La loro vita è soave, gioconda, di tutto ne godono; la loro croce è coperta di fiori e vedendosi piccolissime anime ne sono grandemente felici, sprigionando dai loro cuori quella delicata e silenziosa nota dell’amore… La vittima d’amore non coglie spine, ma sempre rose… Essa va ripetendo fra se stessa: “dentro di me vi è il cielo, in me vi è la vita, io posseggo l’amore”. E difatti proprio così, per la sua vita immolata ben si può chiamare anima Eucaristica…” (Scritti, p. 270). Scrive al suo padre spirituale: “In questa dolcissima prova (e si riferisce così a un periodo terribile da lei attraversato…) il mio cuore ha conosciuto assai bene gli abissi dell’amore e di misericordia del Cuore di Gesù, e quante cose vorrei dirle… quaggiù la parola è impotente a ridire i misteri che un giorno ci saranno svelati in Cielo” (lett. 15-10-1925). C’è una strettissima affinità tra lei e S. Teresina del Bambino Gesù: il messaggio della «piccola via», nella semplicità e nell’amore. Semplicissime le loro vite. Vivono in ambienti familiari caratterizzati da grande affetto e fede. Entrano giovanissime nel Carmelo grazie alla passione per Dio in cui vogliono «perdersi», per ritrovarsi pienamente a servizio completo dei fratelli. Vi trascorrono brevissime stagioni – il tempo di un’infanzia conclusa -; si sentono allieve alla scuola permanente dell’amore, ma l’intensità del loro apprendistato le rende subito maestre dell’arte suprema dell’amore. Teresa diventa modello di Elia come fanno fede gli espliciti richiami dei suoi diari. Dio è per loro tenerezza paterna; anzi, come tante indicazioni bibliche suggeriscono, di tipo materno. «Il buon Dio è per me una tenerissima madre», scriverà Suor Elia quattro giorni prima della morte al suo direttore spirituale. Il processo di somiglianza – pur nell’ originalità di ciascuna – culmina nella scelta dell’unica metodologia spirituale: amare fino a offrirsi vittime d’amore e camminare nella fiducia senza riserve nell’amore di Dio, ascensore dell’anima. Il clima di quest’ascesa è soffuso della tenerezza discendente e della sicurezza ascendente. Il senso della duplice piccolezza (qui la cronologia di natura – sono così giovani – si coniuga con la metodologia evangelica – farsi piccole) caratterizza i due itinerari. E proprio in questa percezione abituale di fragilità e di infanzia maturano i progetti ardimentosi di olocausto vittimale e di collaborazione alla salvezza universale. «La mia missione – scrive Suor Elia – è immolarmi gioiosamente affinché il mio Dio sia conosciuto e amato da tutto il mondo». Il sacrificio di sé che arriva in entrambe al livello dell’immolazione di sé, si intesse di silenzio, nascondimento, desiderio di oblio. Così Suor Elia si rivolge al suo Signore: «Fate, o mio Dio, che il lavoro dell’anima mia si compia nell’ombra, lungi dagli sguardi; si compia nel silenzio, lungi dagli applausi; si compia anche nell’oblio della mia povera persona, purché l’accettiate voi, o mio Dio ». E aggiunge: «Se una sete ardente sente l’anima mia è quella di immolarmi in ogni istante della mia vita nel silenzio di tutto il creato ed anche nell’oblio di me stess». “Compresi che per condurre anime a Dio non era necessario compiere opere grandi; anzi, era proprio l’immolazione completa di tutta me stessa che mi chiedeva il buon Gesù: compiuta nel silenzio d’ogni cosa… Nella solitudine del mio cuore potevo salvare anch’io un numero infinito d’anime… Con la preghiera intima, continua e col distacco da ogni cosa”. Una vita inabissata nel Cielo della Trinità che scopre a portata di mano: “Mio Dio, io vi contemplo nel cielo dell’anima mia, e m’inabisso in Voi… Tutto mi parla di Te, Dio mio”. Discepole di Cristo, alla scuola del silenzio di pienezza e della vita diventata offertorio permanente, le due piccole Carmelitane diventano grandi maestre di sapienza. Un magistero non attinto a teorie accademiche ma intinto nell’esperienza del quotidiano anche monotono, trasfigurato nell’amore, come « sacramento dell’eterno». Ed è subito luce. Scrive nel ’22, mentre attorno, nella società nazionale, serpeggia tanto disorientamento: «Gesù mi è sempre vicino, mi conosce bene e sa che io lo amo anche senza che glielo dica; mi segue ovunque io vada senza stancarsi; mi pensa sempre, mi ama. E questo immenso amore che mi porta me lo dice tutto il creato e tutto ciò che mi circonda». Insomma Suor Elia insegna: Dio ci ama. E questo ci basta. Lui solo l’unico necessario. Lui, il vero sufficiente.. «Ho sete di Dio, di quell’Essere infinito che solo può saziare l’anima immortale. Sento viva in me la brevità della vita e le mie speranze sono riposte in Dio, che è la stessa verità immutabile ed eterna. Il tempo passa veloce dicendo (all’anima): tesoreggia, io passo e non ritorno più». E ancora, scrivendo più tardi alla mamma, dice: «Facciamo tesoro del tempo. Se tutto passa, Egli solo resta all’anima che gli è stata fedele. Lasciamo che gli altri si affatichino nell’accumulare beni fugaci, noi attacchiamoci all’eterno che non finisce mai». «Due martìri io sogno di subire – scrive nel ’23 – quello dell’amore e quello del dolore. La mia anima si slancia nelle fiamme del Misericordioso Amore e il mio corpo in quello del dolore». E ancora più precisamente focalizza il suo desiderio ormai assimilato a quello dello Sposo Crocifisso, il Sitio. «Sfogliate – così annota nel ’25 – la mia giovane vita, stritolate nel dolore le più intime fibre del mio cuore, sfarinate le mie ossa, affinché dall’abisso del mio totale annientamento, si levi al cielo l’incessante grido “Sitio”. Ho sete, o Gesù, di anime; per pietà refrigerate la mia ardente sete». E si sente la più ricca ragazza del mondo perché nella sua celletta carmelitana abita lei, tabernacolo vivente di Dio. «Come è vero che darsi tutta al Signore è possedere tutto». Sapienza è perseverare nell’imperturbabile pace, anche nel buio della prova. È il consiglio che offre alla sorella mentre si prepara a seguirla nel Carmelo. Questa dolce sorellina della Serva di Dio Suor Elia, è a tutt’oggi vivente nel Carmelo di Bari e da allora tiene fede gioiosamente alle indicazioni della sua grande Sorella e modello. Non a caso si chiama Suor Celina come una delle sorelle di S. Teresina di Lisieux carmelitana insieme alla Santa. «Voglio confidarti un segreto – Scrive Suor Elia alla futura Suor Celina – per serbare sempre la pace nel tuo cuore. Se ci assale qualche pena, o qualche nube nasconde il sereno della nostra anima, lasciamo per qualche minuto ogni nostra occupazione, posiamoci sul Cuore di Gesù con gli occhi chiusi alle cose di questa misera terra, diciamogli in segreto che nulla potrà strapparci al suo amore, poi riprendiamo con più lena il nostro lavoro e, sereni, amiamo ancora di più il buon Dio. Ti piace? Mettiamoci all’opera». «È un mare tempestoso la vita – scrive ad una sua amica – Non temere naufragio. Sulla tua vela sta scritto: “Fiducia!”. I remi li affidasti ad una Sorellina potente, S. Teresa del Bambino Gesù! Non hai che da stringerti all’ancora della speranza e sarai salva. Ama il buon Dio alla follia e non sarai delusa!». Sapienza è tradurre nel concreto feriale lo slancio del cuore. È portarsi sui monti, affrontando impervii sentieri, dopo aver avuto il colloquio con l’Angelo della propria annunciazione. Come Maria. Il mistico che si è incontrato sull’Oreb con Dio si fa compagno delle gioie e delle pene che si incontrano sui sentieri degli uomini. Come Mosè. Un maestro della mistica tedesca medievale ammoniva i suoi discepoli: se sei arrivato al terzo cielo e, mentre stai gustando le delizie della contemplazione, un povero infermo ti chiede una tazza di brodo, scendi subito da quelle altezze e cingiti i fianchi per servire il fratello nel bisogno. Suor Elia, proprio perché mistica, era umanissima. Tutta di Dio. E perciò tutta degli uomini. Ancilla Domini come Maria si definisce nel Vangelo. Ancilla humanitatis come la Chiesa si definisce nel Concilio. Sia in famiglia che nella società, sia nel Carmelo fa suo il programma di Paolo: «farsi tutto, a tutti, a tutti i costi». Suor Elia con S. Teresina beve di frequente al calice amaro del martirio del cuore e del martirio del corpo. Quello del cuore è affrontato con amabilità ed energia: dolce con gli altri, esigente con sé, senza mai condannare nessuno e come nota in una lettera al suo direttore spirituale – «senza mai perdere la bussola». Suor Elia è come il suo modello un’esperta del patire. E la sua gioia paradossale nella sofferenza le deriva dalla fedeltà sponsale alla consacrazione, come vittima, all’Amore Misericordioso. Tante sue poesie – si esprimeva così come il suo modello di Lisieux – sono un unico anelito alla «Casa», alla «patria», alla «luce». Prevede e pregusta il passaggio della morte come lo spezzarsi del vaso per l’incontenibile gioia dell’incontro. Un giorno, quando ancora non si prevedeva neppure da lontano la fine, si rivolgeva ad una sua consorella: «Quando saprai che io sto per morire, dimmelo, sai; così non morrò per malattia, ma per la gioia eccessiva di dover vedere presto il mio Gesù». E progettava il suo compito a partire dal suo ingresso nel Regno, come Teresa di Lisieux che prometteva di voler «passare l’eternità» a sfogliare rose di grazie e di amore sulla terra. «Quando la piccola Elia – scrive di sé la Carmelitana di Bari – sarà immersa nell’oceano dell’Eternità, allora comincerà ad esplicare la sua missione». «Il pensiero che io vivo per Te, mio Dio, deve rendermi felice in tutti gli eventi. Ti chiedo, o mio buon Gesù, di tutto cuore la grazia di distaccarmi da tutte le cose di questa terra e di vivere unicamente per te, di non desiderare mai nulla per me, ma vivere come se fossi sola al mondo. Dammi grazia, o mio Dio, di penetrare negli intimi segreti del tuo ardente cuore, e qui vivere sconosciuta a ogni sguardo umano e anche a me stessa: fa ‘che io operi diretta da Te, parli ispirata da Te, viva del tuo respiro, i palpiti del mio cuore si fondano con i tuoi palpiti divini».

Preghiera

O dolce nascondimento, amo passare i miei giorni alla tua ombra e consumare così la mia esistenza, per amore del mio dolce Signore….. Talvolta, pensando a quelle eterne ricompense, così sproporzionate ai leggeri sacrifici di questa vita, la mia anima ne resta meravigliata e, presa da un’ ardente brama, si slancia verso Dio, esclamando: “O mio buon Gesù, a qualunque costo voglio raggiungere la meta, il porto di salvezza. Non mi negare nulla, dammi da soffrire. Sia questo il martirio più intimo del mio povero cuore, occulto ad ogni sguardo umano: una croce nuda io ti chiedo. Adagiata su questa, voglio passare i miei giorni quaggiù” Quando si soffre con Gesù, il patire è gioire; soffrire amando io bramo, fuori di questo non voglio più nulla. Mio Diletto, chi mai potrà separarmi da Te? Chi sarà capace di spezzare queste forti catene che tengono stretto il mio cuore al Tuo? Forse l’abbandono delle creature? E’ proprio questo che unisce l’anima al suo Creatore… Forse le tribolazioni, le pene, le croci? E’ in queste spine che il canto dell’anima che t’ama è più libero e più leggero. Forse la morte? Ma questa non sarà altro che il principio della vera felicità per l’anima…. Nulla, nulla potrà separare, neppure per brevi istanti, quest’ anima da Te. Essa fu creata per Te ed è fuori centro se non vive abbandonata in Te. La mia vita è amore: questo nettare soave mi circonda, questo amore misericordioso mi penetra, mi purifica, mi rinnova e sento che mi consuma. Il grido di questo mio cuore è: “Amor del mio Dio, Te solo cerca l’anima mia. Anima mia, soffri e taci; ama e spera; immolati e nascondi la tua immolazione sotto un sorriso, e sempre avanti… Voglio passare la mia vita in un profondo silenzio per ascoltare nell’intimo dell’anima la delicata voce del mio dolce Gesù. Anime io cercherò per lanciarle nel mare dell’Amore Misericordioso: anime di peccatori, ma soprattutto anime di sacerdoti e religiosi. A questo scopo la mia esistenza si spegnerà lentamente, consumandosi come l’olio della lampada che veglia presso il Tabernacolo”. Sento la vastità de!la mia anima, la sua infinita grandezza, che non basta l’immensità di questo mondo a contenere: essa fu creata per perdersi in Te, mio Dio, perché tu solo sei grande, infinito e perciò tu solo puoi renderla pienamente felice.

Suor Elia di San Clemente