San Raffaele Kalinowski

Biografia

Padre Raffaele di San Giuseppe Kalinowski nacque il 1 settembre 1835 a Wilno, capitale di Lituania, da Andrea e Giuseppina Potonska, entrambi polacchi di nobili origini. Primo di nove fratelli, al battesimo ricevette il nome di Giuseppe. Come tutti i nobili ebbe un precettore per i primi anni di studio. In casa assorbì i valori dell’educazione cristiana e degli ideali patriottici. Questi stessi valori furono inculcati a Giuseppe nell’Istituto dei Nobili, a Vilna, dove a 9 anni iniziò la scuola e dove suo padre era direttore e professore di matematica. “All’interno del collegio – raccontò il Kalinowski – vigeva una severa disciplina. L’amministrazione dell’istituto era nelle mani di professori polacchi, che nei rapporti con noi si comportavano esemplarmente”. Di fronte all’Istituto si trovava l’antico convento dei Domenicani che i russi avevano trasformato in carcere per quei polacchi non disposti ad accettare l’occupazione e la sottomissione della patria. Così il giovane Kalinowski assistette alla deportazione in Siberia di numerosi suoi connazionali e alle frequenti esecuzioni capitali fatte sulla piazza del mercato. Giuseppe terminò gli studi nel 1850 con esito brillante; frequentò poi per due anni (1851-1852) la scuola di Agronomia a Hory-Horki, ma per intraprendere gli studi superiori non gli rimase che recarsi all’estero o iscriversi ad una Università russa, perché gli Zar avevano fatto chiudere le Università polacche e lituane. Così la spiccata inclinazione alla matematica, portò Giuseppe, negli anni 1853-1857, a iscriversi all’Accademia del Genio Militare di Pietroburgo, fondata dallo Zar Nicola, ambiente costituito in prevalenza da Russi e in cui vigeva la disciplina militare. Da un punto di vista spirituale la permanenza a Pietroburgo fu segnata da un solco di pesante crisi. La sua fede, senza l’appoggio dell’ambiente familiare, cominciò a cedere: l’indifferentismo religioso delle sfere intellettuali della capitale russa influì sul giovane studente. Abbandonò i Sacramenti e assistette raramente alla Messa domenicale. Disse in seguito che la coscienza lo rimproverava, ma che non fu fedele neppure a questa voce. Scrisse nelle “Memorie”, riferendosi a questo difficile momento: “Passando per la prima volta presso la chiesa di Santo Stanislao, mi è venuta l’idea di fermarmi un po’. Mi sono inginocchiato presso il confessionale, ma purtroppo era vuoto e nella chiesa non c’era nessuno. Cominciai a piangere. Una profonda nostalgia pervase tutto il mio essere”. Questo momento segnò la sua “conversione”. Dagli anni dello studio a Pietroburgo nacque il pensiero sulla scelta del suo stato di vita. Fu propenso al matrimonio. Nutrì infatti amore per una ragazza, ma la fiamma di questo primo amore venne mortificata e spenta dalla madre di questa che non acconsentì. Giuseppe non si turbò più di tanto. Più passava il tempo e più si sentiva attratto dalla sete di valori spirituali. Vedeva che corpo e spirito, sessualità, rapporti, la stessa vita erano più affascinanti se spesi in modo esclusivo e diretto per l’umanità e per Dio. Forse era un barlume di vocazione religiosa che cominciava a far breccia nel suo animo. All’Accademia del Genio Militare ottenne il titolo d’ingegnere e il grado di tenente. Subito dopo fu nominato assistente di matematica alla medesima Accademia, ma rifiutò la nomina di professore accettando invece di trasferirsi a Kursk per tracciare il progetto della linea ferroviaria strategica Kursk – Kiev – Odessa. Per sei mesi viaggiò fra paludi e luoghi deserti, in villaggi con poche e povere capanne di contadini. Qualche libro a carattere religioso, come “Le confessioni” di Sant’Agostino, determinarono una svolta al suo dramma interiore. Tornò alla pratica religiosa anche sull’esempio di un disegnatore, suo compatriota e aiutante nella costruzione della ferrovia. Approfittò del tempo libero per darsi al silenzio e stare solo con i suoi pensieri davanti a Dio. “In questa solitudine (delle regioni paludose dell’Ucraina e della Russia) – scrisse in una lettera – sono riuscito a formare dentro di me la pace interiore… ho conosciuto il valore dei ben noti concetti religiosi, finalmente mi sono rivolto ad essi”. Si risvegliò in lui un sentimento di fiducia nell’intercessione di Maria Santissima. Nel 1860, a causa del rinvio della costruzione della ferrovia, ed anche per motivi di salute, Kalinowski si trasferì a Brest al comando di ingegneria, come ingegnere sovraintendente alla manutenzione e fortificazione della fortezza di Brest-Litowski, dove rimase fino al 1863. Fu promosso Capitano di Stato Maggiore. Da qui dovette recarsi spesso a Varsavia, dove si rese conto del movimento patriottico, di religione cattolica, che organizzava l’insurrezione contro la Russia, di religione ortodossa. Intanto la sua vita religiosa si andava intensificando. Il bisogno di quella povera popolazione lo struggeva profondamente. La dolorosa sorte dei cattolici perseguitati dal governo zarista e la situazione della gioventù, impossibilitata a studiare, lo sollecitarono profondamente. Per i giovani fondò una scuola domenicale in cui si fece insegnante ed educatore. La tormentosa domanda se gli era lecito rimanere passivo mentre tanti suoi connazionali sacrificavano se stessi per una causa così giusta, benché perdente, Giuseppe se l’era posta più volte; e aveva concluso che non poteva tirarsi indietro, a costo della vita. I principi cristiani assorbiti dai genitori stavano alla base di questo disinteresse di sé. Così, nel gennaio 1863, allo scoppio dell’insurrezione polacca contro la dominazione zarista, Kalinowski capì di non potere rimanere con i Russi. Con il pretesto della poca salute chiese ed ottenne il congedo dal servizio militare, ricevendo un riconoscimento pieno di elogi da parte di Alessandro II di Russia. Libero da questi obblighi si mise a disposizione del governo nazionale polacco clandestino e, casualmente, incontrò a Varsavia un colonnello dell’insurrezione, che lo invitò ad assumere l’incarico di Ministro della guerra in Lituania. Egli accettò con la riserva però di non pronunciare mai sentenze di morte. Pur sognando come ogni polacco la libertà per la sua patria, Giuseppe – da soldato quel era – non si era mai illuso sulle possibilità di riuscita dell’insurrezione, e l’aveva sconsigliata prima ancora che scoppiasse: “Non di sangue, ma di lavoro la Polonia aveva bisogno in quel momento, giacché troppo chiara stava dinanzi allo sguardo dell’anima la lotta del popolo disarmato contro la forza del governo russo, che disponeva di un’enorme e potente armata”. Ma: “Gli occhi si chiudevano per riguardo a coloro che avevano portato l’incendio, si volgevano invece anzitutto verso quelli che si buttavano in quel fuoco trepidante e quest’ultimo ebbe il sopravvento”. Il Ministro Kalinowski salvò molti insorti dalla morte e convinse il comandante in capo R. Traugutt a terminare le ostilità. Purtroppo, però, come si prevedeva, l’insurrezione non raggiunse i risultati attesi e fu stroncata con una ferocia inaudita in tutto il territorio. Si fece piazza pulita con condanne a morte e deportazioni in Siberia. Kalinowski era rimasto l’unico dirigente. Pedinato e spiato da tempo, la notte del 24 marzo 1864, venne arrestato e rinchiuso nel vicino convento dei domenicani, requisito e trasformato in prigione. «A mezzanotte dal 24 al 25 marzo del 1864 una voce mi svegliò: era il capo della polizia della città. “Abita qui l’ingegnere in ritiro, il capitano Kalinowski?”. “Sì, abita qui”, risposi. “La prego di vestirsi”. Mi chiese di aprire la scrivania e si accontentò solo delle prime carte che gli vennero sottomano (…). Dopo quel primo esame mi disse con una certa difficoltà: “Scusi, la debbo arrestare”. Mi inchinai senza dire parola. Il Signore Iddio, nella sua bontà, non mi privò della calma di spirito…». Al processo, Kalinowski si addossò anche le colpe altrui, con la generosità che gli era propria. Venne perciò condannato alla fucilazione, ma sia per le pressioni di familiari e amici, sia per la grande stima che godeva presso gli stessi russi, il governatore di Vilna, Muravjev (il famigerato “Impiccatore”), fu costretto a commutare la sentenza capitale nella condanna a dieci anni di lavori forzati in Siberia. Soprattutto, si voleva evitare il “disturbo” di un nuovo martire, perché il popolo quasi lo considerava un santo. In carcere organizzò la sua vita sul modello di quella dei religiosi. Raccontò nelle sue memorie: “Mi ero fatto un orario preciso per tutte le ore; mi alzavo alle cinque del mattino. Il mio primo pensiero era quello della preghiera, poi la meditazione e, quando ottenni i libri di devozione, ebbi una grande consolazione. Potevo sentire la Messa ogni giorno, ma da lontano, però in modo distinto. La finestra della mia cella dava sul cortile del convento… Aprivo uno sportellino della finestra e così potevo godermi la santa Messa fino alla fine”. Era uscito dal tunnel della notte interiore ed aveva ripreso la pratica dei Sacramenti e della vita di preghiera. Infine fu deportato in Siberia: carcere e miniera, fame e freddo. Egli portò con sé il Nuovo Testamento, Giobbe, i Salmi, l’Imitazione di Cristo e un Crocifisso. Ai suoi scrisse: “Possono togliermi tutto, ma non la preghiera”. La terribile marcia iniziò il 29 giugno 1864. “Nella solennità dei santi Pietro e Paolo verso il mezzogiorno, la nostra lunga fila si snodò per le strade di Vilna verso la stazione ferroviaria … Prendemmo posto sui vagoni dove ci ammucchiarono gli uni sugli altri. Quando il treno partì la gente vi gettava fiori come al cimitero sulle tombe dei morti”. Il viaggio fu disastroso: imbarcazioni, marce forzate, carri trainati da cavalli. Molti caddero sfiniti o assiderati. Dieci mesi di marcia, tra indicibili sofferenze, su un percorso di ottomila chilometri, passando per Toblosk, Tomsk, Krasnojarsk, Irkutsk; poi, il 15 aprile 1865, la meta: Usole, un misero villaggio nei pressi del lago Bajkal. I deportati furono sistemati su un’isoletta, in un grande stanzone, dove tutto si doveva svolgere in comune, e mandati a lavorare nella salina esistente nell’isola. Lavoro ingrato a motivo dei vapori salini che toglievano il respiro, e reso oltremodo penoso dalle temperature invernali di 30-45ø sotto zero, dalle bufere di neve, dalle malattie. Giuseppe si dimostrò sempre grande altruista, non si lamentò mai, sopportò eroicamente sofferenze e disagi e condivise con gli altri il poco che aveva. La possibilità di accostarsi ai Sacramenti era minima, qualche volta nulla ma, con eroica costanza, mantenne l’impegno dell’esercizio della preghiera, della meditazione e del raccoglimento interiore. “Al di fuori della preghiera non ho nulla da offrire al mio Dio. Non posso digiunare, non ho quasi nulla da dare in elemosina, mi mancano le forze per il lavoro, mi resta solo pregare e soffrire. Però non ho mai avuto tesori più grandi e non voglio altro”. Così si espresse in una lettera ai suoi familiari. Dal punto di vista religioso il decennio di esilio in Russia divenne un tempo di grazia straordinaria. Fu di esempio e conforto per i suoi compagni di prigionia e seppe infondere loro lo spirito di preghiera, serenità e speranza con l’aiuto materiale, unitamente alla buona parola. Ed essi, con commozione e stupore, spiavano l’ex capitano del Genio che con atteggiamento umile dimostrava di essere in comunione con Dio. Lo vedevano a lungo anche nelle notti gelide, raccolto in ginocchio davanti al suo piccolo crocifisso, e ciò li rendeva buoni, pazienti, coraggiosi. Quanto furono preziose per i compagni di sventura la presenza, la carità e la preghiera del Kalinowski lo dice, senza bisogno di altro commento, l’invocazione che i prigionieri aggiungevano alle loro preghiere: “per le preghiere di Giuseppe Kalinowski liberaci, o Signore!”. Le stesse sentinelle russe gli portavano rispetto e a volte gli permettevano di percorrere, libero da catene, i dintorni, dove portava aiuto agli ammalati e ai sofferenti, senza distinzione di nazionalità. Con l’amnistia del 1866 al Kalinowski fu permesso di abitare nel villaggio di Usolè, e con quella del 1868 di vivere a Irkutsk. Entrò in contatto col parroco – esiliato pure lui -, divenne suo apprezzato collaboratore nell’istruzione dei figli dei deportati, e a contatto con questo sacerdote approfondì la sua cultura religiosa e studiò la storia della chiesa e la teologia, “perché – come scrisse lui stesso – se un giorno piacerà al Signore chiamarmi allo stato clericale, mi presenterò almeno preparato”. Egli si donò con generosità ai bisognosi prodigandosi in ogni occasione per consolare e aiutare tutti, senza distinzione di religione o di nazione, soccorse malati, si adoperò per incrementare la cultura religiosa preferendo soprattutto piccoli e giovani. Fu da tutti considerato un angelo inviato dal cielo. Nella primavera del 1874 fu liberato. Allorché con l’amnistia gli fu concesso di ritornare a proprie spese dalla Siberia, i 150 rubli mandatigli dalla famiglia li destinò ad un giovane semi-demente perché potesse essere restituito alla madre. Quanto a lui, dovette rimanere in Siberia ancora un anno – il decimo – per guadagnarsi il mezzi necessari al suo rientro definitivo. Non poté però rientrare in Lituania, ma fu obbligato a trasferirsi a Varsavia. Dall’esilio siberiano tornò con la fama di un uomo di profonda fede e di un buon educatore di giovani. Fu così che accettò, anche se non se ne sentiva all’altezza, un incarico di grande fiducia: curare la formazione del giovane principe Augusto (il possibile pretendente al trono nel caso di una restaurazione della monarchia in Polonia), figlio di Ladislao Czatoryski, capo degli emigrati polacchi in Francia e residente a Parigi. Lo scopo di Kalinowski era quello di giungere a realizzare all’estero la sua vocazione religiosa, che sentiva sempre più distinta. Infatti, anche dopo il suo ritorno dall’esilio, gli sarebbe stato impossibile attuarla in Polonia, perché i conventi religiosi erano stati soppressi dagli occupanti, e nessun Ordine poteva accettare novizi. Pur stando continuamente a fianco del suo allievo, preoccupato di tutto, sia dei suoi bisogni materiali che di quelli spirituali, Kalinowski coltivava una profonda vita spirituale. Partecipava ogni giorno alla S. Messa, ma si dedicava anche alla meditazione e alla lettura di buoni libri (fra cui S. Teresa e S. Giovanni della Croce). Trascorse tre anni con Augusto a Parigi e in diverse località d’Europa (verrà anche in Italia), poiché il principino era di salute malferma, e questo lo obbligò ad accompagnarlo nelle migliori località climatiche d’Europa. Maestro e discepolo erano ambedue misteriosamente incamminati verso la santità. Anche del ragazzo, infatti, è stato firmato il decreto delle eroicità delle virtù; dopo un incontro con San Giovanni Bosco, divenne salesiano, e giovanissimo volò al cielo. Fu proprio questo giovane a far nascere l’occasione al nostro Santo di conoscere il Carmelo. Si incontrarono con una sua zia carmelitana scalza. In Polonia l’Ordine Carmelitano, dopo ripetute soppressioni, sopravviveva in un solo convento di frati e in un solo monastero di suore. Le monache sognavano e pregavano perché sorgesse una guida forte e geniale a restaurare il Carmelo e, quando conobbero Kalinowski, pensarono d’aver trovato l’uomo giusto. Gli fecero pervenire quegli aforismi in cui Santa Teresa d’Avila sintetizzò la sua dottrina: “Niente ti turbi – Niente ti sgomenti – Tutto passa – Dio non cambia – Con la pazienza – Tutto si acquista – Chi possiede Dio – Non manca di nulla – Solo Dio basta”. Il Santo li ricevette come una ispirazione e rispose: “Ogni giorno prendo forza da queste parole”. Approfondì gli aspetti della vita religiosa di questo Ordine, attratto soprattutto dall’austerità, e decise di lasciare il mondo. Il 15 luglio 1877, festa della Madonna del Carmine, si presentò al noviziato dei Carmelitani Scalzi di Graz, in Austria. La “Cronaca” di questa comunità in quel giorno annotò: «Giuseppe Kalinowski, polacco, istruttore del figlio del principe Czartoryski, è arrivato tra noi; è un uomo alto, con la barba, ha 42 anni. Giuseppe riceve l’abito dell’ordine carmelitano e il nuovo nome di Raffaele di S. Giuseppe. A Gyor in Ungheria completa gli studi filosofici e teologici e, nel 1881, emette la professione solenne. Viene inviato in Polonia, a Czerna, l’unico convento carmelitano superstite, dove, il 15 gennaio ’82, a 46 anni viene ordinato sacerdote a Czerna (Cracovia). Quando celebrò la sua prima messa nella chiesa della Carmelitane Scalze di Cracovia, disse: “Sono l’uomo più felice del mondo”». In questo periodo nel convento vivevano otto padri (4 polacchi, e 4 stranieri, mandati dai superiori dell’Ordine perché la comunità potesse sostenere la vita regolare), 3 novizi studenti, e 6 fratelli. Da questa comunità si svilupperà la rinascita del Carmelo maschile in Polonia. Da religioso il Kalinowski distribuì il suo tempo tra l’educazione dei religiosi e dei seminaristi, la guida spirituale dei monasteri, la cura di nuove fondazioni, il recupero del patrimonio archivistico dell’Ordine, la pubblicazione di testi spirituali. Acceso da zelo apostolico, non risparmiò fatiche per salvare i fedeli, ed aiutò i fratelli e le sorelle carmelitane nell’ascesa al monte della perfezione. I contemporanei notarono come e quanto sin dall’inizio sembrasse perduto in Dio quest’uomo che già aveva passato la quarantina e veniva da un’esperienza di martirio, e compresero che la sua fortezza, unita alla sua straordinaria dolcezza e umiltà, avevano la sorgente nella preghiera. Lo ricordarono così: pallido, emaciato, gli occhi sfavillanti per un fuoco interiore, quanto più provato nello spirito tanto più affabile e dolce, quasi “materno”, soprattutto verso chi si piegava sotto il peso della sofferenza e del peccato: un uomo che non apparteneva più a sé, una “preghiera vivente”. Padre Raffaele, da superiore, volle infatti che l’atmosfera del Carmelo fosse tale da favorire lo spirito d’orazione (“Il nostro impegno principale al Carmelo è di conversare con Dio in tutte le nostre azioni”); non ammise concessione per quanto riguardava il silenzio, il raccoglimento, il distacco, sia per i frati che per le monache. Ma per Padre Raffaele il vivere in intimità con Dio non era un ritirarsi dal mondo, ma un avvertire profondamente le esigenze di una dedizione senza confini al Suo servizio, nella carità fraterna, nel ministero apostolico: egli fu preghiera e lavoro, uomo di preghiera e di intensa attività. Nelle cariche continue che gli vennero man mano affidate, Padre Raffaele restò sempre un “leader”, un uomo di iniziative coraggiose portate a compimento a servizio della Chiesa e dell’Ordine. Subito dopo l’ordinazione fu nominato vice-maestro dei novizi e poco dopo superiore a Czerna. Ma l’Ordine lo chiamò a fondare nuove comunità (due a Cracovia, una a Przemysl, una a Leopoli in Ucraina), e a orientarne altre. Così lui si rimise in cammino con autorità crescente e con energie declinanti; ma sempre con la “gioiosa accettazione della sofferenza” che tanto spesso raccomandava. Riorganizzò il monastero della Carmelitane Scalze di Cracovia e riservò sempre per le religiose dell’Ordine cure sollecite come Visitatore e Vicario provinciale per le monache, perché “nella linea della più pura tradizione teresiana, fossero autentiche sentinelle oranti nella Chiesa, a bene di tutto il Popolo di Dio”. La tappa finale fu Wadowice – la cittadina natale di Papa Woytila -, dove con il generale dell’Ordine, padre Gotti, creò nel 1892 il florido vivaio carmelitano detto “Collina di san Giuseppe”. Per assicurare alla Provincia una fioritura di vocazioni religiose, aprì una casetta dove riceveva giovani desiderosi di consacrarsi a Dio. In pochi anni sorse un nuovo convento con la chiesa dedicata a S. Giuseppe; le vocazioni aumentarono e la Provincia carmelitana polacca riprese vita. Organizzò, sia a Czerna che a Wadowice, il Terz’Ordine Secolare e la Confraternita del Carmine. Nonostante i molti affari esterni a cui doveva provvedere, essendo superiore, P. Raffaele si dedicò alla direzione spirituale, non solo delle monache ma anche dei fedeli che venivano a Czerna persino dalla lontana Slesia. Egli fu una rivelazione come confessore, impegnato per ore e ore con i penitenti; sollevò molti dal fango del peccato, anche le prostitute andavano a confessarsi da lui. Il suo confessionale, a Czerna, era assiepato fin dalle prime ore del mattino. Era la sua “oblazione”, come egli stesso diceva. Per anni, specialmente in certi periodi e feste, ci passò ore e ore, padre e fratello di quanti venivano a lui anche da molto lontano. Lo chiamarono “il martire del confessionale”. Era comprensivo, prudente e buono. Spiccava in lui anche un altissimo senso di umanità. Dovette ricredersi sull’aspetto severo e austero inculcatogli nel periodo della formazione. A ciò contribuì la lettura della Storia di un’Anima di Santa Teresa di Gesù Bambino, da poco resa pubblica. All’inizio, proprio per la rigidità dell’educazione ricevuta, stentò ad accettarla. Poi ne rimase avvinto, e convinto si sforzò di trasformarla in vita. Scrisse al monastero di Lisieux questa sua nuova esperienza. Alle monache e ai religiosi era solito dire: “Chi più di noi, doppiamente figli di Maria, dovrebbe imitarla?”. Padre Raffaele era infatti innamorato di Maria: a lei si abbandonava pienamente con amore di figlio devoto che cercava lo sguardo della Madre, che ne contemplava la grazia, che ne seguiva le direttive e gli insegnamenti: “Maria, sempre e in tutto!”, era il suo motto. L’arresto da parte dei russi, la condanna, l’esilio non lo fecero crescere nell’odio, ma nel desiderio di convertire la Russia e di lavorare per l’unità della chiesa ortodossa con quella di Roma. L’appartenere ad un Ordine nato in Oriente e trapiantato in Occidente lo confermò nel desiderio di unificazione delle Chiese, che tradusse in preghiera e predicazione. Con zelo ecumenico si adoperò in quest’ opera e lasciò questa missione come testamento ai fratelli e sorelle carmelitane. Scrisse: “L’unità sacra! L’unità santa! Questa parola riempie già il cuore di dolore, ma accende anche il fuoco della speranza”. Era convinto che questa unione sarebbe stata possibile solo in Maria. Egli, apostolo instancabile dell’unione tra le Chiese, vide nel culto alla Vergine Santissima, culto tanto sviluppato anche nella chiesa ortodossa russa, una realtà che poteva contribuire a facilitare la soluzione di questo problema. Sul letto di morte ripeteva continuamente: “Padre, che tutti siano una cosa sola!” Desiderando davvero di ricostruire il Carmelo Polacco, fu infine, convinto che non bastava fondare nuovi conventi, accogliere e formare le vocazioni, ma che bisognava anche ricuperare le ricchezze del passato: se non si poteva tornare negli antichi conventi della Provincia, si doveva ereditarne almeno lo spirito. Così con grande zelo si impegnò alla ricerca storica e teologica degli archivi conventuali, dispersi a causa delle soppressioni, al fine di rafforzare la vita religiosa in Polonia. In tal modo ricuperò moltissimi documenti riguardanti la storia dei singoli conventi e monasteri e, aiutato dalle monache, potette pubblicare le “Cronache Carmelitane” dei monasteri di Vilna, Leopoli, Varsavia, e la storia dei due conventi maschili di Cracovia. Negli ultime mesi soffrì molto, esaurito dalla malattia e dal lavoro, ma fu instancabile mentre attendeva l’incontro definitivo con il suo Signore. A settantadue anni, venerato da tutto il popolo, con gli occhi rivolti alla Madonna del Perpetuo Soccorso, invocando umilmente Dio: “Abbi misericordia, dammi pazienza!”, baciando il crocifisso, terminò la sua vita terrena a Wadowice, mentre era priore del convento. Era il 15 novembre 1907. Aveva sognato di morire il 2 Novembre, ma spirò il 15 novembre, giorno in cui l’Ordine del Carmelo ricorda i confratelli e le consorelle defunti, pregando il Padre che li facesse concittadini dei Santi con Maria nella Gerusalemme del cielo. Fu sepolto nel cimitero del convento di Czerna presso Cracovia. Fu beatificato a Cracovia dal Santo Padre Giovanni Paolo II il 22 giugno 1983 e canonizzato a Roma nella basilica di S. Pietro, il 17 novembre 1991 a conclusione del IV Centenario della morte di S. Giovanni della Croce. Durante la vita e dopo la morte godette di grandissima fama di santità, da parte anche di uomini nobilissimi ed illustrissimi, come i cardinali Dunajewski, Puzyna, Kakowski, Gotti.