Nota in margine alle Romanze 3-6
Nel trattare il tema della creazione, nelle Romanze 3 e 4, nella prospettiva teologico trinitaria di Giovanni della Croce non vi è cenno al tema del peccato originale.
La Terza Romanza coglie la parola del Padre e la risposta del Figlio nel momento in cui essi si scambiano il dono di far esistere la creazione. Nella poesia di Giovanni della Croce, la Creazione è pensata, decisa, e predestinata all’interno di un eterno dialogo tra Padre e Figlio. Il Padre spiega l’origine e lo scopo del suo disegno creativo e redentivo, con immagini sponsali: donare al Figlio una Sposa che veda come l’Essere del Padre si comunica al Figlio, veda un Amore ardente e infinito e si senta chiamata a bruciare di questo stesso amore.
La Quarta Romanza si apre col Fiat della Creazione, e si ricongiunge così alle prime pagine della Genesi. L’universo sorge, alla Parola di Dio, come un palazzo sapientemente edificato per ospitare la Sposa. Con una visione originale San Giovanni della Croce considera tutte le creature spirituali come un’unica Sposa amata e un solo Corpo di Cristo, loro unico Sposo. L’Incarnazione del verbo non sarà una superficiale convivenza, ma un prendere il corpo della Sposa tra le proprie braccia in una fusione d’amore che renda possibile condurla fino al Padre celeste. Così, nel cuore di questo progetto divino, Dio sarà uomo, e l’uomo sarà Dio.
Anche in riferimento al tempo dell’attesa del compimento, della incarnazione del verbo, a determinare il clima è il desiderio. Scopo delle romanze 5 e 6 è sviluppare il tema dell’attesa: tutto l’Antico testamento è ripercorso e considerato come “lunga speranza e crescente desiderio” di poter abbracciare lo Sposo e godere con Lui. Anzi l’attesa dei profeti diventa, nella poesia di Giovanni della Croce, la precisa attesa di poter vedere Dio con i propri occhi, toccarlo con le proprie mani e camminare in sua compagnia. In tutto questo non vi è praticamente traccia del tema del peccato originale.
La questione non può certo essere taciuta e va spiegata. Essa potrebbe essere sintetizzata nella formula classica: Cur deus Homo? Perché Dio si è fatto uomo? Per salvarci dal peccato o per renderci partecipi della sua stessa vita divina? I termini della questione non sono alternativi l’uno all’altro e non si escludono a vicenda, c’è piuttosto un prima, un principio, che regge tutto l’agire di Dio e questo non può che essere che il principio dell’Amore, che è Dio stesso, da qui il dono della creazione, e il destino della creatura umana a divenire partecipe, nel verbo fatto carne, della vita divina.
Quando ci si accinge a parlare del motivo e del fine dell’incarnazione di Gesù Cristo, uno dei riferimenti principali è l’inno cristologico paolino nella sua epistola agli Efesini, nel quale Paolo dichiara che in Cristo il Padre «ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità, predestinandoci a essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo» (Ef 1,4-5).
La causa principale dell’Incarnazione risiede nel sapientissimo progetto d’amore del Padre, ancor prima della creazione e del Peccato: l’azione amorevole di Dio non può essere subordinata al peccato dell’uomo. Il sapiente disegno di ricapitolare in Cristo tutte le cose, infatti, precede la creazione stessa e, quindi, il peccato stesso, e non può essere ad esso subordinato.
Può essere utile alla comprensione della questione quanto scrive padre Raniero Cantalamessa, ne Il mistero del Natale, Milano Ancora, (2003, pp. 46-51). «Nella sua brevità e semplicità, il cantico degli angeli Gloria a Dio e pace agli uomini ci permette di dare una risposta, fondata sulla parola di Dio, all’antica questione del perché Dio si è fatto uomo: Cur Deus homo? A questa domanda sono state date, lungo i secoli cristiani, due risposte fondamentali: una che mette in primo piano la salvezza dell’uomo e un’altra che mette in primo piano la Gloria di Dio; una che accentua – per esprimerci con le parole del nostro cantico – la pace agli uomini, e una che accentua la Gloria a Dio.
La prima a essere formulata fu la risposta che accentua la salvezza: Per noi uomini e per la nostra salvezza – dice il simbolo di fede – discese dal cielo, si è incarnato per opera dello Spirito Santo da Maria Vergine e si è fatto uomo.
Ma a un certo punto dello sviluppo della fede, nel medioevo, si fa strada un’altra risposta, che sposta l’accento, dall’uomo e dal suo peccato, a Dio e alla sua Gloria. Si tratta di un approfondimento, in sé quanto mai legittimo e sano, della fede, di un caso di sviluppo coerente del dogma. Su questa nuova linea, Duns Scoto (sec. XIII) fa il passo decisivo, sciogliendo l’Incarnazione dal suo legame essenziale con il peccato dell’uomo e assegnandole, come motivo primario, la Gloria di Dio. Il motivo dell’Incarnazione sta nel fatto che Dio vuole avere, fuori di sé, qualcuno che lo ami in modo sommo e degno di sé. l’Incarnazione è per la Gloria di Dio, ma questa Gloria non consiste in altro che nell’amare l’uomo.
La Gloria di Dio – diceva sant’Ireneo – è l’uomo vivente, cioè che l’uomo viva, che sia salvato. La Gloria di Dio sta nel dare quello che, per l’uomo è salvezza ricevere. Anche Giovanni, nel suo Vangelo, mette in luce questa concezione nuova e sconvolgente della Gloria di Dio. Egli vede nella morte in croce di Cristo la suprema Gloria di Dio, perché in essa si rivela l’amore supremo di Dio. Per un Dio che è amore, la sua Gloria non può consistere in altro che nell’amare. L’amore è il perché ultimo dell’Incarnazione, non la redenzione dal peccato. Lo vediamo
nell’interpretazione della morte di Cristo. Dapprima la fede afferma il fatto: è morto, è risorto; poi, in un secondo momento, si scopre il perché è morto ed è risorto: per noi, per i nostri peccati, per la nostra giustificazione (cf 1 Cor 15,3-4; Rm 4,25); infine si scopre perché è morto per i nostri peccati: perché ci amava! Mi ha amato e ha dato se stesso per me (Gal 2,20); Cristo ci ama e (per questo) ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue (Ap 1,5).
Quello che si dice della morte, si deve dire anche della nascita: Dio ci ama e per questo si è fatto uomo per la nostra salvezza. Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio Unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia (Gv 3,16). Ha tanto amato il mondo, per questo ha dato il suo Figlio».
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