«Nuova evangelizzazione: orizzonti, problemi e responsabilità» è il tema del «Dies academicus» che si è svolto giovedì 8 marzo alla Pontificia università gregoriana, a Roma, annuale momento di riflessione proposto a tutte le unità accademiche. Riportiamo qui di seguito stralci dell’intervento dell’arcivescovo presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione.
Due espressioni possono caratterizzare le riflessioni che seguiranno sul tema della nuova evangelizzazione. La prima appartiene al filosofo il quale, rispondendo a una domanda sulla condizione attuale, si esprimeva in questi termini: “Il tempo della notte del mondo è il tempo della povertà, perché diventa sempre più povero. E’ già diventato tanto povero da non riconoscere l’assenza di Dio come assenza”. La seconda, è una provocazione che giunge da uno dei pensatori più fecondi dell’ ‘800: “Il punto cruciale della questione sta in questo: se un uomo, imbevuto della civiltà moderna, un europeo, può ancora credere; credere proprio nella divinità del Figlio di Dio Gesù Cristo. In questo infatti sta tutta la fede”. Mentre la prima espressione di M. Heidegger riporta al tema fondamentale dell’orizzonte culturale all’interno del quale si pone l’esigenza della nuova evangelizzazione; la seconda, di Dostoewskij, obbliga a focalizzare il cuore del suo contenuto. L’una e l’altra, comunque, permettono di delineare un scenario su cui tratteggiare alcune considerazioni soprattutto in prospettiva del prossimo Sinodo dei Vescovi dedicato per l’appunto alla Nuova evangelizzazione e trasmissione della fede.
Uno dei primi dati che emerge dall’analisi culturale del nostro tempo è il tentativo spasmodico di ottenere la piena autonomia. Il nostro contemporaneo è fortemente caratterizzato dalla gelosia per la propria indipendenza e la responsabilità del suo vivere personale. Dimenticata spesso la relazione con la trascendenza, è diventato allergico a ogni forma di pensiero speculativo e si limita al semplice momento storico, illudendosi che è vero solo ciò che è frutto della verifica scientifica. E’ precipitato, tra l’altro, in una sorta di empirismo pragmatico che lo porta a supervalutare i fatti sulle idee. Senza alcuna resistenza cambia velocemente il suo modo di pensare e di vivere, diventando sempre più un soggetto cinetico, pronto cioè a sperimentare; desideroso di essere coinvolto in ogni gioco anche se più grande di lui, soprattutto se lo rapisce in quel narcisismo non più neppure velato che lo illude sull’essenza della vita. Siamo all’interno di un’esplosione di rivendicazioni di libertà individuali che toccano la sfera della vita sessuale, delle relazioni interpersonali e familiari, delle attività del tempo libero come di quelle lavorative. Lo spazio dell’insegnamento e della comunicazione ne sono state fatalmente coinvolte e l’intero ambito della vita è modificato. Insomma, si è venuta a creare una situazione completamente nuova in cui si vogliono sostituire gli antichi valori, soprattutto quelli espressi dal cristianesimo. In un orizzonte come questo, in cui l’uomo viene a occupare il posto centrale, baricentro di ogni forma di esistenza, Dio diventa un’ipotesi inutile e un concorrente da evitare, se non da eliminare. Questa svolta si è attuata in maniera relativamente facile; complice spesso una teologia debole e una religiosità fondata più sul sentimento e incapace di mostrare il più vasto orizzonte della fede. In questo contesto Dio viene a perdere il suo posto centrale. La conseguenza che ne deriva, tuttavia, è che l’uomo stesso perde il suo posto. L’ “eclissi” del senso della vita riduce l’uomo a non sapersi più collocare, a non trovare più un posto all’interno del creato e della società. In qualche modo cade nella tentazione prometeica e si illude di impadronirsi della vita e della morte, perché ne decide il quando, il come e dove. Una cultura, infine, tesa a idolatrare la perfezione del corpo, a rendere selettivo il rapporto interpersonale sulla base della bellezza fisica, finisce per dimenticare l’essenziale. Si cade così in una sorta di narcisismo costante che impedisce di fondare la vita su valori permanenti e solidi per limitarsi all’effimero. Qui, alla fine, si pone la grande sfida che attende il futuro. Chi vuole la libertà di vivere come se Dio non esistesse lo può fare, ma deve sapere a cosa va incontro. Deve avere coscienza che questa scelta non è premessa di libertà né di autonomia. Limitarsi a disporre della propria vita non potrà soddisfare l’esigenza di libertà. Costringere al silenzio il desiderio di Dio che è radicato nell’intimo, non potrà far approdare all’autonomia. L’enigma dell’esistenza personale non si risolve rifiutando il mistero, ma scegliendo di immettersi in esso. Questo è il sentiero da percorrere; ogni scorciatoia rischia di far perdere nei meandri di una boscaglia, da cui è impossibile vedere sia l’uscita sia la meta da raggiungere.Come si può notare, la crisi, anzitutto, è di ordine culturale e antropologica. L’uomo è in crisi. Non è più capace di ritrovare se stesso dopo le lusinghe a cui aveva dato retta, soprattutto quando aveva creduto di aver raggiunto l’età adulta e di essere pienamente padrone di sé e indipendente da ogni autorità. In effetti, questa voce delle sirene era allettante. A un uomo sempre più al centro di tutto, sostenuto da un recuperato narcisismo, incapace di raggiungere la verità perché privo di ogni fondamento, si doveva solo aggiungere l’ultimo tassello per renderlo pienamente autonomo: l’allontanamento da Dio.
E’ strano dover verificare questa condizione in Paesi che sono stati plasmati e formati dalla fede cristiana. La scelta che molti stanno compiendo di rimanere neutrali dinanzi alla religione è niente di più dannoso che si possa immaginare. Le religioni per l’occidente non possono essere tutte uguali. Non siamo in una notte oscura dove tutto è incolore. Il primato della ragione, conquistato nel corso dei secoli, non può appiattirsi proprio ora con un egualitarismo da sabbie mobili che impedisce di dare voce alla forza critica. Questa è chiamata a discernere tra le religioni e a scegliere di riconoscere le proprie origini e l’apporto ricevuto. Vivere di indifferenza, agnosticismo e ateismo non solo non consentirà mai di giungere a una risposta sul tema fondamentale del senso della vita, ma non permetterà di raggiungere l’obiettivo dell’unità di queste terre. Non si dovrebbe ripetere, quindi, lo sbaglio di altri momenti storici nel concepire il nuovo che si prepara come una rottura con il passato. Non è così che la storia progredisce. Non è emarginando né esorcizzando il cristianesimo che si potrà avere una società migliore. Non potrà avvenire. Una lettura come questa non solo è miope, ma è sbagliata nelle sue stesse premesse. Non ci sarà una formazione di identità matura né per i singoli né per i popoli se si prescinde dal cristianesimo. Certo, la nostra storia è costellata di luci e ombre, ma il messaggio che portiamo è di genuina liberazione per l’uomo e di coerente progresso per i popoli. In questi ultimi decenni questi valori si sono ossidati e rischiano di essere sottoposti a uno struggente logorio non per il passare degli anni, ma per la corrosione di fenomeni culturali e legislativi che minano il tessuto sociale. Avere spalancato le porte a presunti diritti non ha portato a maggior coesione né tanto meno a un crescente senso di responsabilità. Ciò che è dato verificare, piuttosto, è il preoccupante rinchiudersi in un individualismo senza sbocco che, presto o tardi, porterà all’asfissia dei singoli e della società. La strada che siamo chiamati a percorrere non è semplice. Le sfide che si pongono sul nostro cammino richiedono di essere affrontate, analizzate e studiate in modo tale da creare una progettualità che possa corrispondere ad un vero progresso per tutti. Un compito peculiare, comunque, ci è chiesto: evitare di camminare da soli. Noi, comunque, non potremmo farlo, non ne siamo capaci, per natura siamo cattolici, cioè aperti a tutti e desiderosi di accompagnarci ad ognuno per offrire la compagnia della fede. E’ necessario, pertanto, uscire da una forma di neutralità in cui molti Paesi si sono rinchiusi pur di non prendere posizione a favore della propria storia. Se l’Occidente si vergogna di ciò che è stato, delle radici che lo sostengono e dell’identità cristiana che ancora lo plasma allora non avrà futuro. La conclusione potrà essere solo quella di un declino irreversibile. Mettere di nuovo al centro dell’impegno culturale e politico alcuni principi valoriali non potrà che essere efficace per il futuro. In primo piano, la famiglia che rappresenta il soggetto determinante del tessuto sociale. Il primato della vita umana, dal suo primo istante fino alla sua conclusione naturale, appare come l’urgente presa di consapevolezza davanti a una generalizzata forma di denatalità e di spregio per la vita che pone in crisi la stessa sopravvivenza della civiltà. La china dell’invecchiamento, verso cui l’Occidente si sta dirigendo, mostra la stagione invernale di questi Paesi che hanno scelto il declino pur di imporre un discusso diritto del più forte nei confronti della vita innocente. A un uomo rinchiuso nella paura e sempre più solo ciò che gli si propone, è una morte veloce e beffardamente felice. L’ultima illusione è, eufemisticamente, una “dolce morte”, come se la morte non portasse con sé il dramma del limite ultimo di una domanda esistenziale perenne che chiede di essere vinta e non subita. Questa slippery slope intrapresa con ingenuità da molti convinti assertori, è troppo scivolosa per essere difesa come un diritto; essa al contrario, nasconde la paura e la sopraffazione del nulla, per non saper dare senso completo all’esistenza.
Come si può osservare, l’esemplificazione provoca a riflettere sulla nostra capacità di poter creare un processo di trasmissione di valori e contenuti che formano l’identità dei nostri popoli, così da radicarsi per consentire un significativo senso di appartenenza a una realtà nuova eppure antica. Noi cattolici non indietreggeremo in questa assunzione di responsabilità e non accetteremo di essere emarginati. La nostra opera di nuova evangelizzazione comporta anche questo passaggio. Siamo convinti, infatti, che la nostra presenza sia essenziale. Nessun altro potrebbe sostituirci nel portare quel contributo peculiare che appartiene a noi e che ha segnato nel corso dei millenni una storia di umanizzazione senza confronti. Privi della presenza significativa dei cattolici, comunque, i nostri Paesi sarebbero in ogni caso più poveri, più isolati e meno attraenti. Non vogliamo che questo avvenga per questo chiediamo di essere ascoltati e messi alla prova per verificare ancora una volta la ricchezza della nostra fede per il genuino progresso della società. La speranza che noi portiamo ha qualcosa di straordinariamente grande, perché consente di guardare al presente, pur con le sue difficoltà, con uno sguardo carico di fiducia e di serenità. E’ la speranza che non delude perché forte di una promessa di vita che supera ogni limite e punta a fissare lo sguardo sull’unico necessario: un Dio che ama e che ha condiviso la nostra esistenza umana.
In una parola, abbiamo il compito di produrre pensiero che sia capace di gettare le fondamenta per un’epoca che darà cultura alle future generazioni, permettendo loro di vivere nella genuina libertà perché proiettati verso la verità. E’ questo pensiero che ancora non è propriamente elaborato, anche se qualcosa si può intravedere all’orizzonte. A chi compete la progettualità, soprattutto di una nuova antropologia capace di proiettare un nuovo modello di società? Certamente non a una sola istituzione. Questo è il momento di una sinergia in grado di fare sintesi del patrimonio del passato per interpretarlo alla luce delle conquiste che caratterizzano la nostra epoca in modo da trasmetterlo alle generazioni che verranno dopo di noi. In questo senso, Benedetto XVI ha più volte formulato alcuni interrogativi, proprio riguardo la nuova evangelizzazione, che meritano di essere accolti per tentare di dare una risposta che sia carica di intelligenza e di progettualità non solo per la nuova evangelizzazione, ma perché con essa si può esprimere un pensiero che ancora può plasmare e formare le generazioni. Parlando in Germania ai Rappresentanti del Consiglio della Chiesa Evangelica, ha detto: “L’assenza di Dio nella nostra società si fa più pesante, la storia della sua rivelazione, di cui ci parla la Scrittura, sembra collocata in un passato che si allontana sempre di più. Occorre forse cedere alla pressione della secolarizzazione, diventare moderni mediante un annacquamento della fede? Naturalmente, la fede deve essere ripensata e soprattutto rivissuta oggi in modo nuovo per diventare una cosa che appartiene al presente. Ma non è l’annacquamento della fede che aiuta, bensì solo il viverla interamente nel nostro oggi. Questo è un compito ecumenico centrale nel quale dobbiamo aiutarci a vicenda: a credere in modo più profondo e più vivo. Non saranno le tattiche a salvarci, a salvare il cristianesimo, ma una fede ripensata e rivissuta in modo nuovo, mediante la quale Cristo, e con Lui il Dio vivente, entri in questo nostro mondo” (23 settembre 2011). In un’altra circostanza, seguendo lo stesso ragionamento, ha detto: “Vediamo che nel nostro mondo ricco occidentale c’è carenza: Tante persone sono carenti dell’esperienza della bontà di Dio. Non trovano alcun punto di contatto con le Chiese istituzionali e le loro strutture tradizionali. Ma perché? … Hanno bisogno di luoghi, dove possano parlare della loro nostalgia interiore. E qui siamo chiamati a cercare nuove vie dell’evangelizzazione. Una di queste vie potrebbe essere costituita dalle piccole comunità, dove si vivono amicizie, che sono approfondite nella frequente adorazione comunitaria di Dio” (Consiglio Comitato Cattolici Tedeschi, 24 settembre 2011).
Come si nota, questi e altri interrogativi pongono in primo piano la responsabilità per porre in essere una nuova apologia della fede. Un momento che non è estraneo al credere, al contrario; essa appartiene a pieno titolo all’atto con cui si entra nella logica della fede. Dare ragione della fede non sembra aver appassionato molto i credenti negli ultimi decenni. Forse, anche per questo la convinzione è venuta meno, perché la scelta non era tale. Il ricorso alle tradizioni di sempre o alle esperienze più svariate, prive della forza della ragione, non hanno avuto la possibilità di essere trainanti, specialmente dinanzi a una cultura che si imponeva sempre più con le certezze della scienza. La situazione, per alcuni versi, è andata sclerotizzandosi, si è ritenuto da parte di alcuni che una stanca ripetizione di forme passate potesse costituire un bastione a difesa senza accorgersi che diventavano piuttosto delle sabbie mobili. Pensare che la nuova evangelizzazione possa realizzarsi con un mero rinnovamento di forme passate è un’illusione da cui restare lontani. Certo, la soluzione non è neppure la stravaganza di inventare novità solo per soddisfare un contemporaneo sempre in movimento e pronto a ogni esperienza, senza neppure il gusto di averne una visione critica. La strada da percorrere, lo sappiamo, non è per nulla semplice; essa richiede di saper rimanere fedeli al fondamento e proprio per questo capaci di costruire qualcosa che sia ad esso coerente, in grado anche di essere recepito e compreso da un uomo diverso dal passato. Siamo chiamati, quindi, a ribadire con convinzione la necessità di “dare ragione” della fede (1 Pt 3,15), sapendo che questo deve essere fatto con “dolcezza, rispetto e retta coscienza” (1 Pt 3,16). Il richiamo a questi tre termini ha un suo valore programmatico. La presentazione e l’annuncio fatto dai credenti della speranza che è in noi non può ricorrere all’arroganza e all’orgoglio per un certo senso di superiorità nei confronti di altre dottrine. E’ necessario, per questo, che la nuova evangelizzazione si faccia sostenere da una nuova riflessione antropologica in chiave apologetica, come presentazione dell’evento cristiano in grado di comunicare con il nostro contemporaneo. La fede ha una sua propria forza di credibilità che le deriva dall’essere, anzitutto, in relazione con la Rivelazione e, non primariamente con la ragione. E anche quando essa si relaziona, giustamente e obbligatoriamente alla ragione per mostrare la sua ragionevolezza, anche in questo caso essa afferma che l’atto con cui si crede va oltre, perché va esteso all’azione liturgica, dove il mistero viene evocato e celebrato, e alla testimonianza dove la carità diventa forma suprema del credere. E’ importante, pertanto, che una nuova apologetica riprendendo il primato del mistero che trasforma e converte, si presenti al nostro contemporaneo non per dimostrare primariamente l’esistenza di Dio e la veridicità della sua Rivelazione, ma anzitutto per mostrare come senza la sua presenza e vicinanza l’uomo diventa estraneo a se stesso. L’amore come il dolore diventano privi di senso e ognuno rimane rinchiuso in una crescente solitudine, perdendo perfino la gioia di vivere.
Finché il cuore del cristianesimo è Gesù Cristo l’incontro con lui richiede un impatto che consenta di vedere con coerenza il contenuto che si annuncia. La strada nella nuova evangelizzazione è segnata; noi siamo chiamati a rinnovare l’annuncio di Gesù Cristo, del mistero della sua morte e risurrezione, per provocare di nuovo la fede in lui mediante la conversione della vita. Se i nostri occhi fossero ancora capaci di osservare in profondità gli eventi che segnano la vita del nostro contemporaneo, sarebbe facile mostrare quanto questo annuncio abbia ancora un suo spazio privilegiato. Ciò su cui dovremmo provocare la riflessione, infatti, è il senso della vita e della morte, di una vita oltre la morte; intorno a queste questioni che segnano l’esistenza e determinano l’identità personale, Gesù Cristo non può essere un estraneo. Se l’annuncio della nuova evangelizzazione non si fa forte della componente di mistero che avvolge la vita e che relaziona al mistero infinito del Dio di Gesù Cristo, non potrà avere l’efficacia necessaria per chiedere la risposta di fede. Da questa prospettiva, Gaudium et spes indica una strada che merita di essere percorsa: “In realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo… Cristo, che è il nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore svela anche pienamente l’uomo a se stesso e gli manifesta la sua altissima vocazione… Con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo. Ha lavorato con mani d’uomo, ha pensato con intelligenza d’uomo, ha agito con volontà d’uomo, ha amato con cuore d’uomo. Nascendo da Maria vergine, egli si è fatto veramente uno di noi, in tutto simile a noi fuorché il peccato” (GS 22). Alla luce di questo testo che, per alcuni versi, disegna il percorso di una nuova antropologia per il nostro tempo, posta sotto il primato del mistero, si aprono nuovi orizzonti per l’azione pastorale della Chiesa. La nuova evangelizzazione, comunque, in prima istanza non è chiamata ad affrontare la problematica circa l’esistenza di Dio come risposta all’ateismo. Essa, piuttosto, deve rinnovare la presentazione della persona di Gesù Cristo e la sua consapevolezza di essere Figlio e rivelatore definitivo del mistero di Dio. In questo contesto, nella logica di un dinamico percorso formativo non si potrà dimenticare di presentare in modo rinnovato il cristianesimo come culmine del fenomeno religioso e, quindi, la tematica connessa con la vera religione. Lasciare in sospeso questi contenuti per una fraintesa forma di tolleranza, oppure rimanere passivi dinanzi a una sempre più crescente forma di controllo del linguaggio per quanto concerne l’espressività del cristianesimo, non sarebbe un buon servizio reso a quanti hanno il diritto di ascoltare la verità della rivelazione.
In primo luogo, quindi, non abbiamo come primo scopo quello di entrare nell’areopago dei dibattiti teorici o dei conflitti interpretativi; ciò a cui dobbiamo indirizzare la nostra azione è, piuttosto, l’annuncio che Dio si è rivelato in Gesù Cristo e in lui si ha il compimento del senso della vita. Dio tocca in primo luogo il cammino personale di quanti sono alla ricerca per dare un senso alla propria esistenza. Dio, pertanto, va ritrovato oltre l’orizzonte della scienza e fuori di essa, come esigenza di senso compiuto e di esperienza personalmente vissuta. Non credo spetti alla nuova evangelizzazione porsi, primariamente, sulla scia delle “prove dell’esistenza di Dio”, tradizionali o nuove che siano. L’orizzonte dovrebbe essere un altro. D’altronde, se si vuole prendere a modello quanto la Chiesa ha fatto nei suoi inizi, è facile verificare un percorso differente. Il discorso di Pietro nel giorno di pentecoste diventa per alcuni versi normativo: “Gesù di Nazaret – uomo accreditato da Dio presso di voi per mezzo di miracoli, prodigi e segni, che Dio stesso operò fra di voi per opera sua, come voi ben sapete -, dopo che, secondo il prestabilito disegno e la prescienza di Dio, fu consegnato a voi, voi l’avete inchiodato sulla croce per mano di empi e l’avete ucciso. Ma Dio lo ha risuscitato, sciogliendolo dalle angosce della morte, perché non era possibile che questa lo tenesse in suo potere… Questo Gesù Dio l’ha risuscitato e noi tutti ne siamo testimoni. Innalzato pertanto alla destra di Dio e dopo aver ricevuto dal Padre lo Spirito Santo che egli aveva promesso, lo ha effuso, come voi stessi potete vedere e udire… Sappia dunque con certezza tutta la casa di Israele che Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso!”. All’udir tutto questo si sentirono trafiggere il cuore e dissero a Pietro e agli altri apostoli: “Che cosa dobbiamo fare, fratelli?”. E Pietro disse: “Pentitevi e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo, per la remissione dei vostri peccati; dopo riceverete il dono dello Spirito Santo. Per voi infatti è la promessa e per i vostri figli e per tutti quelli che sono lontani, quanti ne chiamerà il Signore Dio nostro”. Con molte altre parole li scongiurava e li esortava: “Salvatevi da questa generazione perversa” (At 2, 22-24.33.37-40). Questa pagina della nostra storia è indicazione di un percorso normativo che, con modalità diverse, richiede di essere intrapreso dalla Chiesa come una sempre nuova e attuale pentecoste. La nuova evangelizzazione, dunque, richiede la capacità di saper dare ragione della propria fede, mostrando Gesù Cristo il Figlio di Dio, unico salvatore dell’umanità. Nella misura in cui saremo capaci di questo, potremo offrire al nostro contemporaneo la risposta che attende. La nuova evangelizzazione riparte da qui: dalla convinzione che la grazia agisce e trasforma fino al punto da convertire il cuore, e dalla credibilità della nostra testimonianza. Guardare al futuro con la certezza della speranza è ciò che ci consente di non rimanere rinchiusi né in una sorta di romanticismo che guarda solo al passato, né di cedere all’utopia perché ammaliati da ipotesi che non possono avere riscontro. La fede impegna nell’oggi che viviamo, per questo non corrispondervi sarebbe ignoranza e paura; a noi cristiani, tuttavia, questo non è consentito. Rimanere rinchiusi nelle nostre chiese potrebbe darci qualche consolazione, ma renderebbe vana la Pentecoste. È tempo di spalancare le porte e ritornare ad annunciare la risurrezione di Cristo di cui siamo testimoni.
La nostra attenzione, deve essere ora focalizzata per evitare che la nuova evangelizzazione diventi una semplice formula, dove tutto e il contrario di tutto trova spazio. Non può essere così. L’espressione richiede di essere compresa e spiegata nel suo coerente senso, perché si colloca a fondamento dell’azione stessa della Chiesa. Pur con tutte le incertezze e ambiguità che possiede, essa appare come la più adeguata per indicare l’esigenza che la Chiesa sente in questo particolare frangente della sua storia, soprattutto nell’Occidente. L’espressione, comunque, non deve dare l’impressione che si tratti di qualcosa di alternativo o di parallelo a ciò che la Chiesa ha sempre fatto nei venti secoli della sua storia. Nuova evangelizzazione, quindi, indica una modalità differente dello stesso, identico e immutabile comando di Gesù alla Chiesa di portare a tutti il suo Vangelo. Il contenuto della nuova evangelizzazione, quindi, non è alternativo a quello di sempre; al contrario, esso è lo stesso perché è l’annuncio della persona di Gesù Cristo, il Figlio di Dio che nel mistero della sua morte e risurrezione ha redento il mondo, aprendo a quanti credono in lui la porta per la vita eterna. Ciò che si modifica, invece, è la modalità espressiva con la quale lo stesso messaggio viene partecipato, per il mutato contesto sociale e culturale. In questo caso specifico, l’espressione punta a identificare i cristiani che vivono in contesti culturali dove il secolarismo ha creato una situazione di profonda crisi della fede, con comportamenti in netto contrasto con essa e che hanno bisogno di riscoprire le fondamenta del loro credere. L’azione della nuova evangelizzazione, pertanto, è indirizzata anzitutto ai cattolici che vivono in Paesi di antica tradizione cristiana dove la cultura è stata plasmata dalla fede e che in questo momento subiscono la seduzione dell’effimero con atteggiamenti di indifferenza se non di ostilità nei confronti del cristianesimo.
Un legame del tutto peculiare, inoltre, relaziona la nuova evangelizzazione con la liturgia. Questa rappresenta l’azione principale mediante la quale la Chiesa esprime il suo essere nel mondo mediazione della rivelazione di Gesù Cristo. Fin dalle sue origini la vita della Chiesa è stata caratterizzata dall’azione liturgica. Quanto la comunità predicava, annunciando il vangelo della salvezza, lo rendeva poi presente e vivo nella preghiera liturgica, che diventava segno visibile ed efficace della salvezza. Separare questi due momenti equivarrebbe a non comprendere la Chiesa. Essa vive dell’azione liturgica come linfa vitale per il suo annuncio e questo, una volta compiuto, ritorna alla liturgia come suo completamento efficace. La lex credendi e la lex orandi formano un tutt’uno dove diventa difficile perfino vedere l’inizio dell’uno e il termine dell’altro. La nuova evangelizzazione, quindi, dovrà essere capace di fare della liturgia il suo spazio vitale perché abbia pieno significato l’annuncio che viene compiuto. La pluralità delle modalità e prospettive con cui la nuova evangelizzazione si realizza trova riscontro nella ricchezza della liturgia. La multiformità dell’azione liturgica, infatti, e la pluralità dei riti che la compongono mostrano con evidenza quanto la centralità e unicità del mistero possa poi esprimersi in forme differenti senza mai far venir meno nel suo legame con l’unica fede professata.
Un altro spazio peculiare della nuova evangelizzazione è certamente l’ambito della carità. Entrare in questo orizzonte equivale a focalizzare i molteplici segni concreti che instancabilmente la Chiesa continua a presentare al mondo. Obbedienti all’azione dello Spirito Santo, uomini e donne nel corso di questi duemila anni hanno individuato differenti luoghi con l’intento di rendere visibile e attuale la parola del Signore: “I poveri li avete sempre con voi” (Gv 12,8). In un periodo come il nostro, spesso caratterizzato dalla chiusura dell’individuo in se stesso senza possibilità alcuna di relazione, e dove la delega sembra avere la meglio sulla forma diretta di partecipazione, il richiamo alla responsabilità impegna a una testimonianza che sa farsi carico del fratello in maggior necessità di aiuto. Nessuna novità; questa, dopotutto, è la nostra storia. Sulla parola del Signore ci siamo intestarditi nel privilegiare tutto ciò che il mondo ha rifiutato, considerandolo inutile e poco efficiente. Il malato cronico, il moribondo, l’emarginato, il portatore di handicap e quanto altro esprime agli occhi del mondo la mancanza di futuro e di speranza trovano l’impegno dei cristiani. Possediamo esempi che richiamano con forza alla santità di uomini e donne che hanno fatto di questo programma il concreto annuncio del vangelo di Gesù Cristo e con esso l’inizio di una autentica rivoluzione culturale. Dinanzi a questa santità crolla ogni possibile alibi; l’utopia cede il passo alla credibilità e la passione per la verità e la libertà trovano sintesi nell’amore offerto senza nulla chiedere in cambio.
E’ urgente, quindi, costruire un progetto che si faccia carico di restituire ai cristiani un’identità credente forte per i contenuti che la sostengono, e ricca per un profondo senso di appartenenza alla Chiesa, in grado di recuperare il valore della comunità. Vorrei, comunque che fosse chiaro un principio di alto valore epistemologico. La Chiesa non evangelizza perché è posta dinanzi alla grande sfida della secolarizzazione, ma primariamente perché deve essere obbediente al comando del Signore di portare il suo Vangelo a ogni creatura. In questo semplice pensiero si condensa un progetto per i prossimi decenni che dovranno trovarci in grado di comprendere a pieno la responsabilità che incombe sulla Chiesa di Cristo in questo particolare frangente della storia. La Chiesa esiste per portare in ogni tempo il Vangelo a ogni persona, dovunque si trovi. Il comando di Gesù è talmente cristallino da non consentire fraintendimenti di sorta né alibi alcuno. Quanti credono nella sua parola sono inviati nelle strade del mondo per annunciare che la salvezza promessa è divenuta realtà. L’annuncio deve coniugarsi con uno stile di vita che permette di riconoscere i discepoli del Signore dovunque si trovino. Per alcuni versi, l’evangelizzazione si riassume nello stile di vita che contraddistingue quanti si pongono alla sequela di Cristo. Si potrà discutere a lungo sul senso dell’espressione “nuova evangelizzazione”. Chiedersi se l’aggettivo determini il termine ha una sua ragionevolezza, ma non intacca la realtà. Il fatto che la si chiami “nuova” non intende qualificare i contenuti, ma la condizione e le modalità in cui essa viene fatta.
Può servire come conclusione un pensiero di Benedetto XVI nella Lettera apostolica Ubicumque et semper, dove si sottolinea con ragione che è urgente “offrire delle risposte adeguate perché la Chiesa intera si presenti al mondo contemporaneo con uno slancio missionario in grado di promuovere una nuova evangelizzazione”. Nel suo Discorso, alla prima Plenaria del nostro Dicastero, il Papa aggiungeva: “Annunciare Gesù Cristo unico Salvatore del mondo, oggi appare più complesso che nel passato; ma il nostro compito permane identico come agli albori della nostra storia. La missione non è mutata, così come non devono mutare l’entusiasmo e il coraggio che mossero gli Apostoli e i primi discepoli. Lo Spirito Santo che li spinse ad aprire le porte del cenacolo, costituendoli evangelizzatori (cfr At 2,1-4), è lo stesso Spirito che muove oggi la Chiesa per un rinnovato annuncio di speranza agli uomini del nostro tempo. Sant’Agostino afferma che non si deve pensare che la grazia dell’evangelizzazione si sia estesa fino agli Apostoli e con loro quella sorgente di grazia si sia esaurita, ma “questa sorgente si palesa quando fluisce, non quando cessa di versare. E fu in tal modo che la grazia tramite gli Apostoli raggiunse anche altri, che vennero inviati ad annunciare il Vangelo… anzi, ha continuato a chiamare fino a questi ultimi giorni l’intero corpo del suo Figlio Unigenito, cioè la sua Chiesa diffusa su tutta la terra” (Sermo 239,1)”. E’ proprio così. La sorgente di grazia continua a fluire dalla stessa fonte, perché anche oggi in un’ininterrotta assunzione di responsabilità la trasmissione della fede possa raggiungere le generazioni che seguiranno.
SALVATORE FISICHELLA
9 marzo 2012
Fonte: www.osservatoreromano.va
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