Quei pittori-fulmine con invidia dei «lenti»

Il Robusti come Caravaggio, Giordano, Rubens, Tiepolo: un’abilità spesso criticata.
Era stata dura, un percorso lungo secoli, affrancare l’arte dal lavoro meccanico artigianale per conquistarle un posto fra le professioni «liberali» e intellettuali. Alla fine, nel Rinascimento, alcuni artisti erano riusciti a sedersi a tavola con i nobili e Tiziano aveva persino rimediato un titolo, quello di conte palatino, conferitogli niente meno che dall’imperatore Carlo V. E adesso, a rovinare quel lavoro, ci si metteva un Tintoretto qualsiasi, un giovane ambizioso, figlio di un tintore, venuto su dal nulla, senza maestri né appoggi. A Venezia Jacopo Robusti (il suo vero nome) lavorava praticando il dumping (diremmo oggi nel linguaggio nell’Europa finanziaria) cioè a basso costo, persino gratis, per accaparrarsi le commissioni trascinando così verso il basso le tariffe di tutti gli altri. Ma non solo; lavorava anche con una velocità che non aveva rivali. Insomma, come un cinese. Nessuno, nella Serenissima, glielo perdonò. Ma nemmeno il fiorentino Giorgio Vasari che a Tintoretto dedicò tre striminzite paginette delle «Vite dei più eccellenti scultori, pittori e architetti», da cercare all’interno della biografia di Battista Franco. Già così, una perfidia. Ma poi Vasari andò giù ancora più pesante: gli riconosceva un gran talento nel creare storie ma le chiamava «capricciose invenzioni e strani ghiribizzi del suo intelletto che ha lavorato a caso e senza disegno, quasi mostrando che quest’arte è una baia», ossia un’inezia, una bagatella. E aggiungeva che se non avesse avuto quel difettaccio di «tirar via di pratica» sarebbe stato uno dei maggiori pittori.

Da Vasari in poi, il pregiudizio sulla sciatteria della velocità non ha più abbandonato Tintoretto che se l’è tirato dietro fino al Novecento, quando persino Roberto Longhi, dopo aver definito la sua maniera «metodo levantino del pratico maestro», supponendo una formazione dell’artista nella zona marginale di cultura levantina dei «madonneri», lo liquidò come «genio soffocato dalla facilità, né mai realizzatosi per difetto di quella meditazione morale che ha da intervenire tra la prima idea e il lungo e pratico fare». Del resto Longhi se la prese anche con un altro «praticon di man» (così anche il Boschini definiva Tintoretto) veneto che risponde al nome di Giovan Battista Tiepolo, «sempre pronto, con un poco di spiegazione, a dipingere da un giorno all’altro persino “Le Api Panacridi in Alvisopoli”».

La convinzione secondo cui per creare un’opera d’arte ci voglia meditazione e tempo va di pari passo con il valore che le si attribuisce: se una cosa costa molto, deve anche richiedere tanto tempo. Ma questa equazione non tiene conto del fatto che certi artisti possedevano la facilità come un dono naturale e non potevano dipingere diversamente. Luca Giordano, soprannominato «Luca fa’ presto», si portava dietro il nomignolo da quando, ragazzino, soggiornava a Roma con il padre il quale, racconta il De Dominici, pressato dalla necessità di vendere ai forestieri le copie delle antichità che Luca disegnava, lo sollecitava «dicendogli a ogni tratto: Luca fa’ presto!». Un altro veloce per natura era il fiammingo Rubens: dove non riusciva ad arrivare lui, c’erano i suoi numerosi allievi che potevano impostare tutto il quadro fino ai tocchi finali che venivano dati in fretta dal maestro.

Caravaggio, al contrario, correva da solo. Non amava lavorare molto ma aveva un gran bisogno di soldi per cui era sempre velocissimo e puntuale nelle consegne. «Non si consacra di continuo allo studio ma quando ha lavorato un paio di settimane, se ne va a spasso per un mese o due», scriveva il biografo Karel van Mander. Nel periodo che trascorse in fuga da Roma e da Malta dopo l’omicidio, passò il tempo a dipingere un quadro dietro l’altro, pressato dal bisogno e a Messina, quando il pubblico osò fare innocui commenti alla sua Resurrezione di Lazzaro, ormai con i nervi a pezzi, prese il pugnale e squarciò la tela. «E dopo aver in tal guisa sfogata la colera su quell’innocente lavoro, coll’animo all’apparenza sedato, rincorò que’ smarriti galantuomini che non si attristassero mentre fra brieve tempo gliene darebbe un’altra secondo il loro gusto e più perfettamente compiuta». E infatti, a giudicare dall’enorme spazio vuoto che incombe sulle figure, dalla loro fattura approssimativa e dal pigmento ridotto al minimo, quel quadro fu davvero buttato giù in fretta e nonostante tutto ne uscì un capolavoro pagato mille scudi, più del doppio di qualsiasi altro compenso mai ricevuto dal Caravaggio.

Per certi «praticon di man», il tempo continua a giocare a favore.

Francesca Bonazzoli

24 febbraio 2012

Fonte: www.corriere.it

 

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