Papa Francesco, testimone di laicità

L’11 settembre scorso papa Francesco ha nuovamente fatto scalpore inviando a la Repubblica la risposta alle domande che Eugenio Scalfari, fondatore del quotidiano romano, gli aveva pubblicamente rivolto in due interventi sul medesimo giornale (7 luglio e 7 agosto 2013), a partire dalla pubblicazione dell’enciclica Lumen fidei. Si tratta di una modalità comunicativa piuttosto inusitata per un pontefice, in particolare tenendo conto dell’orientamento della testata, e questo non ha mancato di fare notizia, in Italia e nel mondo. Scalfari aveva interpellato Francesco su una serie di temi vari ma fondamentali, dando voce ai sentimenti e ai dubbi che si affacciano alla mente di molti, non credenti ma anche credenti, che si trovano a fare quotidianamente i conti con la secolarizzazione e lo scetticismo di una società postmoderna: l’esistenza di una verità assoluta, il rapporto fra la piena umanità di Gesù di Nazareth e la sua divinità, il ruolo di una Chiesa istituzionale (non sempre adamantina) e il suo rapporto con il potere, la possibilità di essere perdonati e salvati se non si appartiene alla Chiesa.

 

Queste domande poggiano sullo sfondo di un dibattito sociale, intellettuale e politico su cui anche questa Rivista spesso interviene: quale rapporto intercorre tra fede cristiana e ragione? Come la Chiesa cattolica – con tutte le specificità di quella italiana – può dialogare con la società e soprattutto quale contributo può recare alla sua costruzione? E ancora: quale laicità per il nostro Paese? A questi quesiti non si può dare una risposta “assoluta” e univoca, che rimarrebbe necessariamente teorica e astratta e che neppure gli stessi credenti sarebbero in grado di formulare; essi richiedono piuttosto di essere ricompresi ogni volta che si ripresentano all’interno di un contesto specifico, tenendo conto delle peculiarità del momento storico concreto nella vita del Paese, dell’Europa di cui fa parte e dell’intero mondo globalizzato. Le parole scritte da papa Francesco a Scalfari possono illuminare, rispetto ai contenuti e ancora di più al metodo, il percorso con cui affrontare tale compito: le riflessioni che seguono intendono rileggerle, proprio cercando di comprenderne il valore, la ricchezza e la profondità.

 

L’imprescindibile dialogo

Prima ancora che il contenuto della lettera del Papa, a suscitare stupore ed emozione è stato il fatto di assistere a una esperienza di autentico dialogo. Per esplicita intenzione dei due protagonisti, lo scambio non è infatti rimasto confinato in uno spazio personale e privato, come accade nel caso delle persone alle cui lettere Francesco risponde personalmente, magari per telefono. Come pubbliche erano le lettere di Scalfari, così è stata la risposta di Francesco, che ha rimarcato: «Mi pare dunque sia senz’altro positivo, non solo per noi singolarmente ma anche per la società in cui viviamo, soffermarci a dialogare su di una realtà così importante come la fede». In questo modo sono entrate in dialogo due tradizioni culturali che, negli ultimi secoli, sono state fondamento della costruzione dell’Occidente: quella cristiano-cattolica e quella liberale-illuminista, che le vicende storiche hanno visto talvolta “l’una contro l’altra armate”, in un conflitto prospettato spesso come insanabile, magari in modo pretestuoso a fini politici. Lungo la storia ciascuna delle due si è presentata attraverso il simbolo della luce: quella della fede e quella della ragione, talvolta pretendendone il monopolio e accusando l’altra di oscurantismo. Ma i significativi passi mossi da entrambe le direzioni, in particolare con il superamento della filosofia razionalista da una parte e la novità del Concilio Vaticano II dall’altra, hanno condotto, anche con momenti di confronto serrato, a una situazione in cui va certamente riconosciuta la fatica di comunicare – perciò questo dialogo è tanto significativo –, ma nondimeno emergono radici comuni o punti di convergenza.

 

Senza voler archiviare frettolosamente un passato faticoso, i protagonisti di questo dialogo sono animati dal desiderio autentico di «fare un tratto di strada insieme». Si tratta di un punto di partenza fondamentale, senza il quale nessun dialogo potrebbe neppure cominciare, e che riposa su una vera e propria petitio principii: la fiducia nell’interlocutore e nella sua onestà intellettuale, la disposizione a prendere sul serio quanto afferma e a mettere in discussione le proprie convinzioni, senza assumere a priori una posizione di superiorità. Infatti, quando si parte convinti di conoscere già chi si ha di fronte – in questo caso rispettivamente un oscurantista superstizioso rappresentante di un’istituzione affamata di denaro o un cinico relativista senza Dio – e non si lascia alcuno spazio alla possibilità di rimanere stupiti dall’altro, il dialogo non può nemmeno iniziare. Per molto tempo la critica mossa alla Chiesa cattolica, a torto o a ragione, è stata proprio di assumere questa posizione, che d’altro canto caratterizza molte persone che non cercano un dialogo perché ritengono di sapere con certezza incrollabile che cosa sia la Chiesa e che cosa animi i suoi membri. Il dialogo è portato avanti «con fraterna vicinanza»: un atteggiamento tutt’altro che scontato, visto che tradizionalmente al Santo Padre si addirebbe piuttosto la “paterna sollecitudine”. Anche questo è segno di un nuovo modo di essere papa e di credere a un sincero dialogo in cui nessuno si pone al di sopra dell’altro.

Il valore del dialogo e il rifiuto del fondamentalismo sono, almeno a parole, istanze largamente condivise da ampi strati della società. Papa Francesco, in continuità con gli insegnamenti del Vaticano II, si assume però l’onere di fare un passo in più, ribadendo cheper il credente il dialogo è una espressione intima e indispensabile della fede, non un accessorio secondario. Vengono in mente le parole del card. Martini: «Ciascuno di noi ha in sé un credente e un non credente, che si interrogano a vicenda, che rimandano continuamente domande pungenti e inquietanti l’uno all’altro» (Incontro inaugurale della “Cattedra dei non credenti”, Milano 1987). Dunque credere non significa adagiarsi su certezze consolanti che annullano ogni ricerca, l’esperienza della fede ha una struttura intrinsecamente dialogica e dal dialogo è aiutata ad andare un po’ più a fondo della propria inesauribile ricchezza. Si può andare oltre: la stessa verità, oggetto ultimo di ogni vero dialogo, è logos, parola scambiata, relazione: quindi non è assoluta, nel senso di qualcosa di “slegato” o privo di relazione.

 

L’esperienza di un cristiano

Francesco afferma tutto questo facendo esplicito riferimento all’esperienza di fede: per il credente, la verità «è l’amore di Dio per noi in Gesù Cristo», parola di vita, esperienza personale di senso riletta in un dialogo interiore nella propria coscienza, compresa ed espressa all’interno di una storia e di una cultura. In altri termini, poiché la verità in definitiva è tutt’uno con l’amore, «si dà a noi sempre e solo come un cammino e una vita». Dunque si dà, sempre e solo all’interno di un insopprimibile dinamismo: esiste, ma è sempre oltre, sempre un passo più avanti e ci invita a proseguire, a non smettere di camminare, a cercare dei compagni di strada. Per questo il Papa mette in campo la propria esperienza di fede e di scoperta della verità nel rapporto con la persona di Gesù continuamente sviluppato e approfondito grazie al confronto con la Bibbia, con la comunità cristiana e nell’incontro con i poveri. È una storia che mostra con efficacia quanto prima affermato, cioè che la «verità è relazionale» e illustra quanto afferma l’enciclica Lumen fidei, cioè che «la verità viene incontro e abbraccia».

 

Proseguendo nella risposta a Scalfari, papa Francesco esplicita chi è il Gesù che ha incontrato: trasparenza di una relazione profondissima con il Mistero della vita, che sente di chiamare familiarmente «Abbà» (Padre) e da cui trae la forza di «mettere in gioco la propria stessa vita» al servizio degli altri, «sino a sperimentare l’incomprensione, il tradimento, il rifiuto, sino a essere condannato a morte, sino a piombare nello stato di abbandono sulla croce», per aprirsi poi, nella risurrezione, alla scoperta che «l’amore di Dio è più forte della morte» e che «vale la pena spendere la propria vita, sino in fondo, per testimoniare questo immenso dono». A partire da questo percorso Gesù è stato riconosciuto non soltanto come Figlio dell’uomo, che vive fino in fondo l’esperienza umana, ma anche come «Figlio di un Dio che è amore», cioè dono di sé. In questa linea va l’autorità misteriosa – nel senso che gli interlocutori non ne comprendono il fondamento – di cui Gesù appare dotato nei Vangeli: «un’autorità che non è finalizzata ad esercitare un potere sugli altri, ma a servirli, a dare loro libertà e pienezza di vita»; ugualmente la singolarità di Gesù, il suo essere l’unigenito figlio di Dio, è «per la comunicazione, non per l’esclusione», così che ogni essere umano scopra di essere figlio di Dio.

È evidente quindi che in Gesù la verità non può essere compresa se non nel suo aspetto relazionale, e i Vangeli ne sono testimonianza. Anch’essi infatti sono strutturalmente relazionali: non narrano solo la storia di Gesù, ma anche che cosa succede a coloro che lo incontrano. Un incontro che produce esiti diversi, ma sempre inaspettati, che reca in sé il segno della nuova creazione: c’è chi viene guarito, chi è chiamato a seguire Gesù come discepolo, chi a prendersi la responsabilità degli altri come apostolo, ciascuno però annunciando a suo modo la salvezza che avviene nell’incontro. Non solo. I racconti interrogano il lettore a dare la sua risposta: chi è Gesù per me? E infatti – prosegue papa Francesco – «ciascuno di noi la coglie, la verità, e la esprime a partire da sé: dalla sua storia e cultura, dalla situazione in cui vive, ecc.». Certo, c’è anche chi si chiude nelle sue certezze e rifugge la relazione, anzi vuole eliminare Dio, e chi va avanti per la sua strada senza neanche voltarsi a guardare. Entra qui in gioco anche l’importanza della Chiesa: «nonostante tutte le lentezze, le infedeltà, gli errori e i peccati che può aver commesso e può ancora commettere in coloro che la compongono, non ha altro senso e fine se non quello di vivere e testimoniare Gesù: Lui che è stato mandato dall’Abbà “a portare ai poveri il lieto annuncio”». In altre parole, soltanto attraverso la relazione con persone che a loro volta, ciascuno «a partire da sé e dalla sua cultura», hanno fatto l’esperienza di aver incontrato Gesù, si ha accesso a quel mistero che dà la forza di «mettere in gioco la propria stessa vita» al servizio degli altri.

 

Nel costruire la risposta a Scalfari, papa Francesco incarna quanto il Vaticano II ha elaborato, esibendone la potenza; secondo il Concilio, infatti, la rivelazione di Dio agli uomini non è un insieme di verità da credere o di precetti morali da adempiere, ma un’esperienza, un evento di incontro, di relazione, di comunicazione, di scambio: «Dio invisibile, nel suo grande amore parla agli uomini come ad amici e si intrattiene con essi, per invitarli e ammetterli alla comunione con sé» (Costituzione dogmatica Dei Verbum, 1965, n. 2). Perché questo possa davvero accadere, occorre che Dio in Gesù si ponga al livello dell’uomo, che si metta completamente in gioco nella relazione che intrattiene con i credenti. Per questo non ci rivela contenuti o verità, ma l’unica cosa che ha da comunicare: se stesso come mistero assoluto e come fine ultimo dell’uomo.

Questa teologia della relazione è la radice dell’appello che dall’inizio del pontificato Francesco rivolge con insistenza ai credenti: quello di andare verso “le periferie esistenziali”. È il movimento che per primo ha compiuto il Figlio di Dio diventando uomo e deve essere segnato dallo stesso stile: non annunciare dall’esterno una verità “assoluta” che incombe e schiaccia, ma mettere in gioco la propria vita, testimoniando nelle relazioni della vita quotidiana che quanto si crede è possibile. Il punto di partenza di ogni discorso sulla verità e sulla fede cristiana è l’esperienza personale, in tutta la sua radicale originalità, e non una dottrina o dei precetti. Su questo argomento, nell’intervista recentemente concessa a La Civiltà Cattolica, papa Francesco ha affermato con grande chiarezza: «Gli insegnamenti, tanto dogmatici quanto morali, non sono tutti equivalenti. Una pastorale missionaria non è ossessionata dalla trasmissione disarticolata di una moltitudine di dottrine da imporre con insistenza» (La Civiltà Cattolica, 2013, III, 449-552).

 

Percorsi di laicità

L’incontro con Gesù è un evento della coscienza: quanto più è autentico, tanto più risulterà umanizzante e renderà chi procede su questo cammino sempre più capace di riconoscere l’autenticità umana di ogni esperienza di coscienza. Anche se non ha sempre saputo esservi fedele in molte circostanze storiche, la consapevolezza che è alla coscienza che si rivolge l’annuncio della buona notizia fa parte del bagaglio più prezioso della Chiesa. Il Vaticano II la declina nuovamente per il nostro tempo, valorizzando la coscienza come «il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli è solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità» (Costituzione pastorale Gaudium et spes, 1965, n. 16). È nella coscienza che l’uomo scopre la legge dell’amore che indirizza la sua vita; è qui che si compie liberamente la ricerca della verità e diventa possibile l’incontro tra Dio e l’uomo (cfr anche la Dichiarazione sulla libertà religiosa Dignitatis humanae, 1965, nn. 2-4).

Proprio l’esperienza della coscienza risulta decisiva per la vita di ogni persona, per il credente come per il non credente, che da questo punto di vista si trovano nella medesima situazione. Lo ribadisce papa Francesco nella risposta a Scalfari: «la questione per chi non crede in Dio sta nell’obbedire alla propria coscienza. Il peccato, anche per chi non ha la fede, c’è quando si va contro la coscienza. Ascoltare e obbedire ad essa significa, infatti, decidersi di fronte a ciò che viene percepito come bene o come male. E su questa decisione si gioca la bontà o la malvagità del nostro agire».

L’uguaglianza radicale di fronte alle esigenze della coscienza è la condizione di possibilità del dialogo sincero e della capacità di mettersi in discussione, come Scalfari e papa Francesco ci mostrano. Il rispetto profondo di ogni interlocutore e l’apertura sincera all’incontro con le persone, da qualunque percorso provengano, è la radice di quella laicità costruttiva di cui la nostra società mostra di avere tanto bisogno. È la prospettiva ben delineata da Massimo Cacciari già alcuni anni fa: «La concezione, oggi largamente dominante, che oppone laicità ad atto di fede [è banalizzante]. Laico può essere il credente come il non credente. E così entrambi possono essere espressione del più vuoto dogmatismo. Laico non è colui che rifiuta, o peggio deride, il sacro, ma letteralmente colui che vi sta di fronte. Di fronte in ogni senso: discutendolo, interrogandolo, mettendosi in discussione di fronte al suo mistero. Laico è ogni credente non superstizioso, capace cioè, anzi desideroso di discutere faccia a faccia col proprio Dio. Non assicurato a lui, ma appeso alla Sua presenza-assenza. E così è laico ogni non credente che sviluppi senza mai assolutizzare o idolatrare il proprio relativo punto di vista, la propria ricerca, e insieme sappia ascoltare la profonda analogia che la lega alla domanda del credente, alla agonia di quest’ultimo. Quando comprenderemo con questa ampiezza il significato della laicità, allora, e soltanto allora, essa potrà essere il valore sopra il quale costruire la nostra dimora» (la Repubblica, 29 ottobre 2003).

In questa comune dimora il dialogo tra le coscienze verterà magari anche sulle domande intorno alla figura di Gesù o al ruolo della Chiesa, ma soprattutto sulla ricerca di soluzioni ai problemi che ci toccano come uomini e come donne, come cittadini e come membri di una società che vive le sue difficoltà: appaiono qui questioni che ci dividono profondamente proprio perché altrettanto profondamente ci stanno a cuore, come quelle della tutela della dignità della persona, della vita e della famiglia, o la promozione di una società più giusta e la rimozione delle disuguaglianze, anche globali. A questa ricerca – ricorda papa Francesco – il credente deve partecipare adempiendo a quello che è il compito di ciascuno, a qualsiasi tradizione di pensiero appartenga: «articolare e incarnare nella giustizia e nella solidarietà, nel diritto e nella pace, una vita sempre più umana». Tutti, laicamente, sono chiamati a fare la propria parte argomentando, portando la propria conoscenza ed esperienza. Questo vuol dire – sulla scia di tanti suoi predecessori lo ha ribadito papa Francesco nell’omelia mattutina del 16 settembre – che i cristiani hanno la responsabilità di impegnarsi, senza rifugiarsi in uno spiritualismo disincarnato; né possono pensare di imporre il proprio punto di vista, ma devono compiere fino in fondo la propria missione, «tenendo desto il senso della speranza che spinge a operare il bene nonostante tutto e guardando sempre al di là». Nell’impegno per la città la sfida per i credenti è riuscire a esercitare il potere sulla linea dell’autorità di cui era dotato Gesù: non per soggiogare e vincolare, ma per liberare, non per dominare ma per aprire opportunità di libertà (che è il significato profondo di quello che oggi va sotto il nome di empowerment).

 

Le domande e le risposte pubblicate su la Repubblica aprono un percorso di dialogo, che certo non esauriscono; perché esso possa proseguire con fecondità è richiesto ulteriore impegno, con la promessa – mai garantita a priori – che ci dischiuda la novità. In questa linea va ad esempio la reazione del filosofo Salvatore Veca: «m’interessa discutere la concezione di Bergoglio e vedere che cosa mi suggerisce. Può darsi che, anche senza modificare le mie convinzioni, mi apra una prospettiva nuova» (Corriere della sera, 12 settembre 2013). Del resto per primo il Papa ha espresso il bisogno – squisitamente dialogico – di «intendersi bene sui termini e, forse, per uscire dalle strettoie di una contrapposizione… assoluta, [di] reimpostare in profondità la questione»: poche parole che fanno intravedere l’idea di un passo epocale, se tutti ci convincessimo della sua necessità. Tanto più si potranno generare esiti interessanti e innovativi, quanto più ciascuno degli interlocutori si esprimerà con autenticità e franchezza, senza celare nulla delle sue credenze per ragioni diplomatiche.

 

Questa è la vera laicità, da cui come Paese e soprattutto come Chiesa italiana non possiamo che imparare. Se non sono recepiti come stimolo a creare una cultura, una mentalità e degli atteggiamenti condivisi, i passi di papa Francesco rischiano di rimanere uno “one man show”. Per i cattolici italiani la lettera di papa Francesco a Eugenio Scalfari non può che essere il segnale che è arrivata la stagione di fare qualche tratto di strada insieme alle altre componenti della nostra società. Questo richiede la disponibilità ad allargare la schiera degli interlocutori anche a chi si colloca più lontano (e quindi non solo gli “atei devoti”); senza sminuire la difficoltà delle dinamiche politiche concrete, che sono anche scontro, una rinnovata stagione del dialogo richiede di tornare a riflettere sul senso della mediazione e delle “leggi imperfette” e di smettere di brandire lo slogan della non negoziabilità, peraltro non esente da problemi (cfr «Valori non negoziabili: una categoria che fa discutere», in Aggiornamenti Sociali, 9-10 [2012] 656-670). Infine, è forse giunto il momento in cui smettere di avere paura del dialogo all’interno della Chiesa. Papa Francesco ci ha appena mostrato che è possibile essere presenti nella società come credenti e dialogare a partire dalla fede «con fraterna vicinanza», senza minacciare interdetti o scomuniche, ma senza per questo sminuire o gettare a mare il tesoro che viene dalla fede. Anzi, ci ha mostrato che questa è la vera strada per essere oggi testimoni della buona notizia

Giacomo COSTA

http://www.aggiornamentisociali.it/easyne2/LYT.aspx?Code=AGSO&IDLYT=769&SQL=ID_Documento=9158&ST=SQL

 

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