Padre e maestro San Giovanni della Croce e il Carmelo teresiano (terza meditazione)

Terza Meditazione

Verso una nuova pienezza

La scelta del Carmelo da parte di san Giovanni non è stata una scelta precipitata o alla cieca, ma una scelta maturata attraverso un discernimento spirituale particolarmente accurato e particolarmente penetrante. È entrato al Carmelo con una visione di una realtà spirituale ovviamente idealizzata nei suoi giovani anni e dal suo entusiasmo di neofita, è entrato al Carmelo e il suo nome è stato Giovanni, Giovanni di san Mattia, e ha incominciato il suo itinerario a Medina come novizio, ma purtroppo del suo noviziato sappiamo ben poco. È difficile dire quali siano stati i momenti più tipici del suo noviziato, ma possiamo riferirci al fervore della comunità nella quale era stato inserito, fervore che per il tempo era notevole e possiamo anche riferirci a poche testimonianze che lo dipingono come un novizio ardente, un novizio fedele, un novizio particolarmente generoso. Ma al di là del noviziato c’è in lui una tensione interiore che comincia ad emergere e durante gli anni successivi al noviziato si manifesterà con un fervore di preghiera eccezionale che susciterà ammirazione e interrogativi, si manifesterà con una vita di solitudine e di penitenza che distingue questo fraticello dagli altri suoi compagni.
Che cosa fermenta nell’animo di Giovanni di san Mattia? Non possiamo dimenticare che il santo sta vivendo nella Spagna di un tempo particolarmente fervido e particolarmente carico di provocazioni spirituali. Sono i grandi tempi della scoperta dell’America, di grandi fervori missionari e anche i grandi tempi di una magnificenza spirituale della Spagna dove i santi si affollano, dove le creature di eccezione si moltiplicano. Non possiamo dimenticare che questo giovane novizio e giovane professo è contemporaneo pressapoco di san Pietro d’Alcantara, di san Luigi Bertran e della fioritura traboccante della Compagnia di Gesù. A Medina queste presenze fermentano, queste presenze fanno opinione, queste presenze fanno parlare di sé, e Giovanni della Croce è coinvolto in questo fervore eccezionale della Comunità cristiana del suo tempo e il suo spirito mentre si allena con il fervore di un neofita nell’apprendimento della sua vita di carmelitano, viene continuamente attraversato da fermenti diversi, da splendori di virtù e di opere che lo rendono riflessivo. Per poco che se ne sappia una cosa si sa: fra Giovanni della Croce che ha cercato il Carmelo con tanta assiduità, con tanta fedeltà, potremmo anche dire senza particolari ansietà di spirito ora comincia a essere perplesso. Perplesso perché il suo amore interiore non trova quegli appagamenti che sperava, perché il suo fervore non trova quel clima congeniale all’assolutismo del suo spirito, e il santo va in crisi. Una crisi serena perché non si tratta di una crisi della sua vocazione di consacrazione totale al Signore ma si tratta piuttosto di una crisi che è ricerca di una pienezza nuova dove l’ideale della consacrazione a Dio trovi più spazio nella coerenza della vita e anche, lo dobbiamo dire, nella coerenza delle leggi che doveva osservare e che allora vigevano: la regola del Carmelo mitigata da Eugenio IV. Era un momento di perplessità nel santo, ma era un momento che provocava in lui degli interrogativi che non lo lasciavano quieto e che lo turbavano: la sua preghiera, notevolissima, non bastava; il suo rigore penitenziale non lo soddisfaceva, un po’ per mancanza di quadro e un po’ perché gli pareva che quella vocazione del Carmelo che aveva tanto sognato ora gli apparisse come sbiadita non per colpa di nessuno, ma forse per una sua illusione giovanile che metteva in discussione tutto.

Esposizione di “Via Crucis. La passione di Cristo”, di Fernando Botero

Il pensiero della Certosa

In questo clima, senza recriminare a nessuno, fra Giovanni di san Mattia sta pensando, e all’orizzonte della sua vita nasce il pensiero della Certosa del Paolar. C’è da dire che a quel tempo la certosa del Paolar esercitava un’attrattiva notevolissima e attraversava un momento di singolare fervore. Il suo progredire negli studi, il suo frequentare prima le scuole interne del suo istituto, e poi l’Università di Salamanca rendono il suo lavoro interiore più intenso ancora mentre da un lato diventa uno studente esemplare e un universitario impegnatissimo e particolarmente ricco di successi, la sua felicità interiore, la sua tranquillità di coscienza conosce turbamenti che fanno di fra Giovanni di san Mattia una creatura in crisi. Una “bella” crisi, una crisi cioè che non significa disaffezione dalla vocazione, ma che sta desiderando che la sua vocazione risplenda, diventi più esigente, diventi soprattutto più pienamente realizzata. I discorsi di questo genere a quei tempi erano frequenti non soltanto nel collegio di Medina e poi in quello di Salamanca ma erano presenti anche in tante altre famiglie religiose. Era un tempo nel quale il desiderio di riforma dilagava, i tentativi di maggiore coerenza ai consigli evangelici si manifestavano in molti modi e poi c’era questa novità della Compagnia di Gesù che viveva la sua prima stagione di fecondità spirituale e apostolica e che suscitava tanti desideri, tante aspirazioni e bisogna dire che questo clima che era molto vivo intorno all’Università di Salamanca non era un clima di condanna o di recriminazione verso una rilassatezza dilagante, ma era piuttosto un clima di maggior fervore. Andava tutto bene, ma bisognava che andasse meglio. In questa visione Giovanni della Croce matura la sua idea di Certosa. I confratelli lo sanno, lo aiutano anche, lo assecondano in tanti desideri eccezionali di fervore, però non arrivano a condividere questa sua decisione di abbandonare la famiglia religiosa.

L’incontro con Teresa

Ed è in questo clima che matura quell’incontro tra fra Giovanni di san Mattia e la madre Teresa di Gesù che, mentre lui è novizio e studia, ha portato avanti un’impresa con tutte le benedizioni del superiore dell’Ordine, il Padre Rossi: ha fondato un monastero di rigorosa osservanza mettendo a fondamento della stessa il ritorno impegnativo alla Regola primitiva di san Alberto di Gerusalemme, una regola maggiormente intrisa di eretismo e di solitudine, maggiormente intrisa di silenzio e di austerità di vita ma soprattutto maggiormente intrisa di una appassionata sequela di Cristo, perché è proprio Cristo il centro di questa regola e la sequela di Cristo crocifisso ne diventa ispirazione. Dobbiamo anche dire che mentre la madre Teresa per questa strada fonda la sua prima comunità in Spagna, le patenti del padre Generale alla madre Teresa suscitano perplessità e, bisogna anche dire, perplessità destinate a diventare avversione e a diventare addirittura lotta. Ma fra Giovanni, indirizzato da un confratello, incontra la madre Teresa. La santa Madre ricorda questo incontro e lo descrive come una provvidenza di Dio, come una grazia eccezionale del Signore: ha trovato il frate che può essere il fondamento di una comunità rinnovata e riformata con il ritorno alla Regola primitiva e con il ritorno ai fervori di quei santi padri che la santa nomina con tanto fervore, abitatori del monte Carmelo, eremiti contemplativi del Dio vivo. L’incontro lo conosciamo, raccontato dalla santa Madre in un modo così vivace, che tuttavia non riesce a rendere Giovanni della Croce travolto dall’entusiasmo. Ci penserà. Dopo averci pensato, dopo averci pregato, un giorno veramente importante della sua vita, con tutti i crismi dei superiori fra Giovanni di san Mattia si mette alla scuola di Teresa di Gesù, ne diventa il primo figlio e diventa il primo carmelitano scalzo. Come gesto di questa trasformazione oltre il rinnovo della professione secondo la Regola primitiva c’è il suo cambio di nome: sarà Giovanni della Croce.
Questa maturazione provocata certo dal fermento della grazia in questa creatura fedelissima come era il santo, ma propiziata dall’esortazione e dall’esempio della madre Teresa è un avvenimento storico per lui e per noi. I tempi matureranno in una maniera tanto repentina e tanto improvvisa, imprevisti forse ma benedetti dalla provvidenza, e così mentre Giovanni della Croce vive le primizie del suo sacerdozio nelle consolazioni dello Spirito e anche nella fraternità della sua comunità, mentre matura la sua formazione culturale all’università di Salamanca dove i suoi progressi sono notevoli e sono rilevati con compiacimento dai superiori e dai compagni, ecco che Giovanni è alla vigilia per diventare un carmelitano scalzo. In questo contesto che a leggerlo può sembrare un contesto abbastanza agitato, con repentini mutamenti di scena, con imprevisti notevolissimi, in realtà tutto si risolve e tutto si verifica nella soavità e nella pace. Giovanni della Croce non rompe con la sua comunità, non viene considerato un ribelle o un transfuga, ma viene accompagnato nella fraternità più soave, nella carità più generosa. Siamo alla vigilia di Duruelo e forse nessuno pensa che cosa possa significare domani questo Duruelo che diventa emblematico nella storia della Riforma carmelitana, ma qui noi vorremmo dire che l’itinerario vocazionale di san Giovanni della Croce si chiarisce in maniera definitiva. Ha scelto il Carmelo soprattutto per amore della Madonna e per gli ideali contemplativi che emergono dalla Regola ed è felice. Il suo gesto al seguito di Teresa di Gesù è un gesto di pienezza e non d’abbandono, un gesto di fedeltà generosa ed eroica e non di sfida. Il resto della storia sarà meno limpido, sarà meno pacifico, ma la sua identità di carmelitano scalzo è così sigillata dai doni di Dio e dalle benedizioni del cielo.

Qualche riflessione

A questo punto a me sembra opportuno che ci fermiamo a qualche riflessione.
Prima di tutto la riflessione che l’impegno vocazionale di Giovanni della Croce lo radica nel mistero del Carmelo, non lo acquieta come se fosse arrivato in maniera, diciamo così, senza discernimento. La sua vocazione è confermata, ma la sua vocazione vissuta nella fedeltà della preghiera, nella fedeltà della solitudine, nella fedeltà del silenzio e soprattutto, credo io, nella fedeltà della carità fa maturare in Giovanni quel di più di comprensione del mistero carmelitano e quella interiorità eccezionale che la vocazione gli domanda. L’incontro con la madre Teresa è l’altro elemento che non possiamo trascurare: una vocazione che trova la sua pienezza nell’incontro con una madre che tale scoperta ha fatto prima e che a tale fedeltà ha dedicato la sua vita. Quando succede questo, Teresa di Gesù è già la creatura che ha raggiunto il matrimonio spirituale che il suo figlio racconterà e descriverà, è nella pienezza della grazia e della vocazione e del fervore della santità, e questo traboccamento dal cuore di Teresa nel cuore di Giovanni della Croce non è un dettaglio che noi possiamo trascurare parlando di lui, ma è un dettaglio che dobbiamo evidenziare sempre di più perché com’è alla matrice e all’origine della vocazione piena di Giovanni è anche nel profondo della sua missione e del suo carisma personale: è il primo carmelitano scalzo, è il padre della riforma.

Quale riforma?

La parola riforma oggi come oggi può dare un po’ di fastidio, non dico di no; la parola riforma potrebbe anche appiattire una visione di quell’evento che è stata l’iniziativa di Teresa di Gesù però io credo che se analizziamo bene i fatti ci rendiamo conto che la riforma della santa non è stata semplicemente una riforma istituzionale, di norme, non è stata principalmente una riforma di rigore maggiore e di penitenza più grande, è stata una riforma nella scoperta più profonda della carità, nella scoperta più profonda della contemplazione, cioè nella scoperta di valori che non sono strumenti, non sono mezzi, ma sono sostanza di un fine qual’è quello dell’unione di Dio, quello della configurazione a Cristo Signore e quello dell’anticipazione della gloria. Forse qualche volta noi, quando parliamo della riforma, calchiamo troppo la mano su quelle osservanze differenziate a cui ha dato origine, che hanno il loro valore come segni, come mezzi, ma che non ne sono la sostanza perché la sostanza è tutta nella maggiore perfezione della carità che la riforma domanda nella maggiore ecclesialità che questa stessa riforma esige. Dobbiamo ricordare a questo proposito che san Giovanni della Croce non ha cominciato la riforma, sia pure in comunione con santa Teresa di Gesù, nello scrivere delle nuove norme, nello scrivere delle nuove costituzioni; è un fenomeno molto significativo che dice molte cose: il santo si è lasciato guidare dalla santa Madre, ha recepito da lei il ritorno della Regola primitiva, ma non ha sentito l’urgenza di codificare i mutamenti di comportamento ascetico e istituzionale, ha sentito invece soltanto il bisogno di dilatare gli orizzonti della carità. È sintomatico questo fatto, anche perché in questo il santo si differenzia dalla santa, la quale ha sentito il bisogno di legiferare con nuove costituzioni per le sue figliole, ma non ha premuto perché si facesse altrettanto con i suoi figli. Questa diversità di comportamento della santa è pieno di significato, ed è anche pieno di tutte quelle sfumature che differenziano la riforma delle monache dalla riforma dei padri. Sarebbe un errore pensare che la santa Madre abbia concepito la riforma dei padri diversa da quella delle monache, come sarebbe un errore pensare che la santa Madre riformando i padri abbia voluto creare delle comunità claustrali. Noi sappiamo, e ne riparleremo forse in qualche momento, che una delle regioni fondamentali che spinto la santa Madre alla riforma dell’Ordine è stata quella di creare una sintonia spirituale nella teologia dell’amore e nell’esperienza della carità tra i padri e tra le madri, tra i figli e tra le figlie perché l’unico Signore che è amore fosse scoperto, fosse cercato, fosse goduto e fosse testimoniato con la soavità e la generosità della vita. A questo mirava la santa e qui sta la radicale unità della riforma. Giovanni della Croce è arrivato fin lì. Noi questa sera vogliamo sottolineare questa caratteristica di continuità che investe la riforma dell’Ordine che la santa Madre e il santo Padre hanno condotto insieme. Domani ci dedicheremo ad osservare con un po’ di attenzione gli sviluppi di questa riforma fiorente di santità, fiorente di contemplazione e di carità ma questa sera però, alla fine di questa nostra prima giornata di ritiro che abbiamo dedicato ad analizzare in qualche modo, a larghi tratti, la genesi e il compiersi della vocazione personale del santo Padre, quella vocazione che ne ha fatto un carmelitano e un carmelitano scalzo, a me pare che dobbiamo pur trarre qualche conseguenza.

Qualche conseguenza

E a me sembra che la prima conseguenza che dobbiamo ricavare è quella di non lasciarci invischiare mentre parliamo della della santa Madre e del santo Padre da tutte quelle contese, da tutte quelle querele che ben presto all’interno della riforma, non per la generosità dei figli e delle figlie, ma per l’animosità e per la vanità dei figli e delle figlie hanno tormentato dopo la morte del santo padre e, ancora prima, dopo la morte della santa madre, la nostra famiglia religiosa. Ce ne dobbiamo dimenticare. Quel momento così difficile, così aspro, così povero di fraternità, così povero di sincerità, così povero di pace è una pagina di storia che non possiamo negare, ma dalla quale dobbiamo imparare tante cose. Come sia facile entrare in contesa quando si tratta dell’amore di Dio e dei fratelli, e come sia facile diventare protagonisti di una storia di santità quando ci si incammina per questa strada trascurando le esigenze profondamente spirituali della vita. Tutti lo sappiamo che l’Ordine del Carmelo ha dei carismi mistici formidabili, ha dei carismi contemplativi superbi ed esemplari per la Chiesa, ha una missione di dottrina per guidare le anime alle vette altissime della perfezione, ma proprio per questo motivo diventa necessario che chi per queste strade cammina vi cammini con l’assolutismo del vangelo, con le intemperanze della carità e con il fervore della preghiera che diventa contemplazione. Così è stato per Teresa di Gesù, così è stato per Giovanni della Croce e questo filone che è sopravvissuto a tante tempeste oggi è nelle mani nostre e dei mostri, e io credo che se non siamo convinti di questo non abbiamo il diritto di celebrare il centenario del santo Padre. È un forte richiamo ad una figliolanza che dobbiamo sentire in profondità, che dobbiamo vivere con coerenza e che sdrammatizza tanti dettagli di questa vocazione, così bella, così ricca ma così libera da tante sovrastrutture non necessarie, e quindi così disponibile ad incarnarsi, nel rispetto della sua logica vivificante, nel nostro tempo come al tempo di allora. Cerchiamo di non essere facili ad ascoltare chi dice che la riforma è nata in clima spagnolo, è nata in clima di inquisizione, è nata in clima di temperamenti donchisciotteschi, è nata anche in clima di rivendicazioni tridentine; tutte cose che si dicono in nome della cultura, ma che non sono vere, perché Teresa di Gesù e Giovanni della Croce, pur vissuti in tempi del genere, hanno attinto la fecondità, la vitalità, la lungimiranza, la soavità, la potenza, la grazia da un incontro così trasparente e così definitivo con il Signore Gesù che rimane per noi la sorgente della nostra vocazione. Ci dobbiamo credere, dobbiamo crederci e dobbiamo soprattutto renderci conto che è un momento nel quale questo ritorno non avverrà attraverso le investigazioni della cultura e della storia, attraverso le comparizioni delle norme, ma avverrà soltanto attraverso una rinnovata fondazione nella carità: è l’esperienza teresiana e giovannea. Quest’amore di cui hanno tanto parlato ha bisogno di ritrovare il primo posto, ha bisogno di ritrovare la sua forza dirompente che vivifica anche i sassi, e se è vero che l’ascesi del Carmelo è un’ascesi rigorosa, e se è vero che Giovanni della Croce a proposito di questa ascesi è stato intransigente ed è stato maestro assoluto, è altrettanto vero che vissuti da lui e dalla madre Teresa la durezza è scomparsa, rimanendo soltanto la forza adamantina della carità di Dio che in Cristo Gesù si rivela, si dona, diventa fermento che cambia la vita. A questo dobbiamo pensare.
E questa sera quindi mentre abbiamo dedicato qualche riflessione alla vocazione di Giovanni, cerchiamo di dedicare qualche momento alla nostra vocazione personale. Ognuno di noi ha una sua storia, ognuno di noi ha camminato per le strade che il Signore ha scelto e ha segnato ma ciò che conta non è l’identità della strada ma l’identità della carità e dell’amore. Questo Teresa di Gesù ce l’ha insegnato, Giovanni della Croce ce l’ha insegnato e del resto ce lo hanno anche insegnato una moltitudine di carmelitani e di carmelitane che hanno capito fino in fondo che il mistero del Carmelo è la pienezza dell’amore di Dio che nel Verbo Incarnato diventa storia del mondo e nella Redenzione crocifissa del Signore diventa la storia della salvezza. Di questa storia siamo non soltanto destinatari ma di questa storia siamo anche chiamati ad essere protagonisti.
(Continua)

Testi delle meditazioni dettate da padre Anastasio Ballestrero ocd per gli esercizi spirituali tenuti a Bocca di Magra (SV) nel 1990, in occasione del IV Centenario della morte di san Giovanni della Croce e pubblicati con il titolo Dove non c’è amore metti amore, edizioni OCD 1990