Oltre la violenza

RENE’ GIRARD, Il grande teorico del “capro espiatorio” spiega la sua visione dell’antropologia, che supera quella classica, ma che oggi non sempre è ben vista, nemmeno dai credenti. Come il Vangelo svela e rovescia il religioso arcaico. I Novissimi dimenticati.

Gestire la violenza è il modo in cui ho concepito il fine delle istituzioni umane, a partire dal religioso. E ho l’impressione che ci sia un fallimento dell’antropologia moderna, che è durata circa un secolo, tra il 1850 e il 1950, e che s’interessava molto al religioso. S’interessava alla cultura e ha subito capito che per cogliere la cultura bisognava rifarsi al religioso, e che il religioso arcaico è essenzialmente il sacrificio. È l’antropologia che comincia con gli inglesi, ma trova il suo culmine nella scuola di sociologia di Durkheim, che ha detto qualcosa di terribilmente profondo, ossia che religioso e sociale sono un po’ la stessa cosa. Non ha detto che sono esattamente la stessa cosa, ma che religioso e sociale stanno in un rapporto di intimità tale che nel mondo arcaico quasi non si riesce a distinguerli. La maggior parte dei lettori non riconosce l’importanza di Durkheim: i cristiani spesso gli rimproverano di ridurre il religioso al sociale e i ricercatori positivisti anglosassoni hanno detto il contrario, cioè che Durkheim riduce il sociale al religioso, come una specie di mistico.

Io credo che Durkheim rappresenti il vertice della teoria antropologica dell’epoca e dopo di lui, secondo me, quella teoria è tramontata, o gli antropologi si sono scoraggiati. Durkheim forse non è riuscito a scoprire l’invariante di cui aveva bisogno per fare quello che voleva, sistematizzare il religioso arcaico. Una disciplina che voglia essere scientifica, come l’antropologia vuole e a mio parere può essere, deve cominciare con il trovare un’invariante dietro tutte le forme religiose. E quell’invariante Durkheim e i suoi amici non l’hanno trovata, non perché non esista, ma perché restavano influenzati dalle idee dei Lumi sulla bontà dell’uomo. Il rapporto del religioso con la violenza Durkheim l’ha sempre considerato secondario, l’ha sottovalutato. È ricorso a termini quali “effervescenza”, che ne minimizzano la forza distruttrice. Ha detto che il religioso doveva nascere nell’effervescenza di gruppi umani che si riunivano per cerimonie già rituali. Per Durkheim la violenza non è mai abbastanza potente né da distruggere la società né da ricostruirla, o costruirla. Per capire questa possibilità bisogna anzitutto collocare il problema nel quadro della teoria neodarwiniana dell’evoluzione. Bisogna rinunciare alla vecchia antropologia razionalista e soprattutto alle antropologie strutturaliste. E in Francia, a partire dalla linguistica, dai tentativi filosofici della “decostruzione”, l’antropologia si è sempre più allontanata dal reale. Lévi-Strauss si crede realista e scientifico, cerca una teoria scientifica dei miti e ha perfettamente ragione, ma crede solo in parte all’unità dell’uomo, e i suoi successori non ci credono affatto. Si allontanano dalle domande fondamentali, del tipo: che cos’è il sacrificio? Oggi non ci si può più porre questa domanda, perché non c’è più “l’uomo”, una definizione universale di uomo.

Oggi, anche in periodici a tendenza religiosa, si trova chi dice che forse la parola “religione” dovrebbe essere soppressa perché non significa nulla. Ci sono certamente, affermano, istituzioni legate a quello che chiamiamo “il religioso”, ma sono così diverse tra loro che è un errore cercare di costituire una categoria unica. Questa tendenza è sicuramente sempre presente tra noi e si può addirittura affermare che è dominante. Quando ho cominciato il mio lavoro, che chiaramente dà per scontato che esista un’unità dell’uomo, dell’umanità, dei suoi problemi, passavo per estremamente antiquato. Ma ora si osserva anche tra i cristiani una tendenza ad adottare quel punto di vista relativista così radicale che ogni ricerca fondamentale diventa impossibile, e diventa letteralmente impossibile parlare di qualsiasi cosa. E dal momento in cui se ne vanno le grandi domande, se ne va anche la scienza. Ora che si è decostruita l’antropologia si ricade spesso in un impressionismo assai futile, che mi appare assai noioso in quanto non pone domande. Si parla degli dèi greci e pagani, ma non si va da nessuna parte, perché in realtà nessuno si pone le domande fondamentali: qual è il nostro destino? Che ci facciamo su questa terra? Possiamo parlare in nome di qualcosa come l’umanità? Dio esiste?… Sembrano domande senza più senso.

Alcuni cristiani, lo ripeto, oggi sono tentati da questo atteggiamento, perché gli unici risultati certi ottenuti dal comparativismo religioso sono la constatazione delle straordinarie somiglianze tra i testi biblici e cristiani, da un lato, e le religioni arcaiche, dall’altro: se la vecchia antropologia una cosa l’ha fatta, è stata constatare, molto giustamente, che esiste altro oltre alle straordinarie somiglianze tra le religioni arcaiche, che oggi pensiamo risalgano a centomila anni fa (ma forse tra qualche anno si scoprirà che sono ancora più antiche). In ogni caso, sappiamo che la maggior parte della storia dell’umanità si è svolta sotto il segno di quelle religioni arcaiche; di esse oggi si ricomincia a dire che sono false spiegazioni dell’universo, della presenza dell’uomo sulla terra. E in fondo riappare Auguste Comte, con la teoria delle tre età dell’umanità: c’è prima l’età religiosa, in cui gli uomini sono completamente stupidi, poi l’età filosofica, metafisica, e poi l’età di Comte, ossia l’età della scienza, e finalmente arriva la verità.

Oggi si riparla di religione arcaica in termini di credo. A mio parere è falsissimo, perché le religioni arcaiche non chiedono di credere alcunché. Chiedono di non fare determinate cose e di farne altre. Chiedono di non compiere violenza nella comunità e ordinano di fare sacrifici, ossia una forma di violenza. Di conseguenza sembra che ci sia una contraddizione, a causa della quale alla fine l’antropologia ha evitato questi problemi. Ma l’essenziale è vedere che la struttura delle religioni arcaiche è sempre la stessa. Tutto comincia con una crisi violenta, che troviamo nei miti. Questi sono il racconto del modo in cui si è istituito un culto. E cominciano tutti con una crisi violenta, che può assumere diverse forme. Nel mito di Edipo è la peste, ma in altri miti sarà una catastrofe naturale, in altri ancora sarà un dio che chiede troppe vittime o un mostro come il Minotauro che divora la comunità, come se il sacrificio fosse diventato folle, e credo che sia così. Dunque è sempre una crisi, che termina sempre con un dramma dove di regola, ma non in termini assoluti, tutta la comunità si scaglia contro una vittima e la distrugge. Nella religione greca l’esempio più caratteristico di questo tipo di religione è il dionisiaco. Il dionisiaco va molto di moda dopo Nietzsche e ce ne parlano continuamente senza mai menzionare l’essenziale: ogni mito dionisiaco è incentrato su un omicidio collettivo e i riti dionisiaci consistono nello squartare viva una piccola vittima animale e nel divorarla cruda, ossia nel ripetere sull’animale il dramma centrale del mito, il linciaggio.

 

Il cristianesimo e la struttura fondamentale

E guardando al cristianesimo? Osserviamo che quei miti e quei riti sono come una versione più selvaggia di quanto succede a Cristo. C’è una crisi iniziale, che nel caso di Cristo sappiamo essere reale, storica: è la crisi del piccolo Stato ebraico divorato a poco a poco dai Romani, fino alla conquista di Gerusalemme e alla distruzione del tempio nel 70, e dopo con la distruzione totale dello Stato ebraico. Quella crisi sfocia nei Vangeli, dove troviamo un altro dramma, terminale: la crocifissione di Gesù. Del resto esiste un esplicito collegamento; ad esempio, nel Vangelo di Giovanni, la parola di Caifa che dice: «È meglio che muoia un uomo solo e tutto il popolo sia salvato» evidenzia una messa in relazione tra quella crisi e la morte dell’individuo Gesù. Caifa ci dà una sorta di definizione, a mio parere, del sacrificio nel senso arcaico del termine, e forse anche della politica. Ogni decisione nel nostro mondo – non possiamo negare di essere sempre nel sacrificale – consiste nel cercare di porre fine alle crisi sacrificando il minor numero possibile di vittime, possibilmente una sola. E noi non abbiamo il diritto di condannare Caifa in modo assoluto, perché ogni volta che prendiamo una decisione, anche della minima importanza, ci ritroviamo nella sua situazione: decidere significa sacrificare una vittima, compiere un sacrificio, come indica l’origine della parola, che viene da decidere, cioè tagliare la gola della vittima. Il sacrificio e la decisione sono legati in tutto. Pertanto non si deve credere di trovarsi di fronte a problemi facili o facilmente risolvibili. Dunque troviamo questa identica struttura. Di conseguenza l’antropologia, finché è esistita, aveva come scopo principale, in un’epoca anticlericale in cui si trattava essenzialmente di demolire il cristianesimo, di arrivare in fretta a un risultato altrettanto spettacolare di quello di Darwin in biologia, smontando le religioni in modo da poter dimostrare che tutte si equivalgono e che il cristianesimo è un mito come gli altri. E il motivo per cui oggi i cristiani sono talvolta favorevoli al nichilismo antropologico del nostro tempo è che non hanno mai amato, e giustamente, questa tendenza dell’antropologia. Si osserva una contrapposizione tra quello che si pensava all’inizio del Novecento, influenzato dalla visione antropologica che percepiva l’unità del religioso, e la totale frammentazione che regna oggi e che sopprime i problemi sostituendo all’unità l’assoluta dispersione. E molte persone a tendenza spiritualista e religiosa si dicono che questo è forse preferibile. È positivo, pensano, essersi sbarazzati delle teorie del religioso. Meglio il nichilismo che uno sfruttamento sistematico dei rapporti tra religioso arcaico e cristianesimo. Io non sono affatto di questo parere e ritengo che esista una possibilità di scienza dell’uomo. Il fallimento dell’antropologia del periodo 1850-1950, che possiamo chiamare l’antropologia classica, è dovuto al fatto che non ha scoperto come il nodo della questione fosse la violenza. E in proposito ho sviluppato una tesi perfettamente naturalista, materialista, senza alcuna concessione allo “spiritualismo” e senza alcun aspetto religioso. È il motivo per cui per non poco tempo i cristiani hanno visto nel mio tentativo antropologico qualcosa di molto pericoloso che ricadeva palesemente in quelli che sembravano essere i difetti, l’incapacità o la tendenza profondamente anticristiana dell’antropologia classica.

 

Religioso arcaico e religioso cristiano

Il punto è sapere cosa significano le straordinarie somiglianze tra religioso arcaico e religioso cristiano. A mio parere bisogna risalire molto indietro, cominciando con il porre la questione del passaggio, della differenza, tra l’animale e l’uomo. Sappiamo che gli animali sono mimetici, che si imitano tra loro, in particolare i primati superiori, le scimmie, talmente imitativi da farci ridere, perché restano in ogni caso meno bravi di noi come imitatori. Aristotele, al riguardo, ha una formula straordinaria, attuale, moderna: dice che l’uomo è il più mimetico di tutti gli animali. Penso che quello che la visione classica dell’imitazione non ha visto è che essa copre tutti i campi di attività dell’uomo, in particolare gli appetiti. Gli animali rivaleggiano e si scontrano tra loro per lo stesso alimento, oggetto, partner sessuale, o per lo stesso territorio; ma la cosa finisce in fretta. S’intendono e formano quelle società animali che vengono chiamate “reti di dominanza”. L’animale sconfitto si sottomette e il trionfatore gli passerà sempre avanti. Parlare di cultura come fanno gli specialisti di animali è forse un po’ esagerato, ma c’è comunque qualcosa che annuncia la cultura dell’uomo. A mio parere le reti di dominanza diventano impossibili quando il mimetismo è tale che le rivalità non si possono più interrompere. Gli uomini sono incapaci di aiutarsi. La violenza diventa letteralmente infinita. Gli uomini la chiamano vendetta. Indubbiamente è proprio in quel momento che viene inventata.

La vendetta non è un’istituzione, è un fenomeno di cui non si sa se sia biologico o culturale, ma è specifico dell’uomo. Non c’è vendetta tra gli animali. Se la vendetta esiste, se è infinita, è evidente che la specie umana dovrebbe distruggersi da sé, subito, in partenza, prima ancora di esistere in quanto umanità. È in quel momento che avvengono quelle crisi di rivalità mimetica di cui parlavo, quelle crisi che si ritrovano, e restano, nei miti relativamente moderni che possediamo, ma di cui devono esserci antecedenti molto antichi ancor più indietro, fino ai limiti dell’animalità e dell’umanità. Come si risolvono tali crisi? Sicuramente per motivi puramente meccanici, perché dal momento in cui gli uomini si disputano gli oggetti che desiderano non potranno mai capirsi. Ma la lotta diventerà così intensa che gli oggetti spariranno e resteranno solo i rivali. E dal momento in cui in un gruppo ci sono solo antagonisti si può essere certi che ci saranno forme di riconciliazione. Si creeranno alleanze contro un nemico comune che polarizzerà sempre più avversari, mimeticamente. È quella che si chiama “politica” ed è anche il fenomeno del “capro espiatorio”. A partire dal momento in cui restano solo antagonisti, il flusso mimetico, per così dire, può diventare cumulativo, invece di dividere e frammentare sempre, di essere solo frammentazione della comunità. Il mimetismo si polarizzerà sempre più contro e alla fine si dirigerà su un individuo qualsiasi, che appare come il colpevole della crisi. Se guardiamo i miti troviamo un numero notevole di casi in cui la violenza è collettiva contro un’unica vittima. C’è un passaggio, a mio parere meccanico, dal “tutti contro tutti” al “tutti contro uno”. Conosciamo questo fenomeno di polarizzazione collettiva contro un avversario comune, talvolta significativo, talaltra insignificante. È quello che chiamiamo fenomeno del “capro espiatorio”. Penso che nelle società arcaiche questo tipo di fenomeno svolga un ruolo capitale; il sacrificio rituale diventa molto comprensibile. Le comunità riconciliate dalla vittima cambieranno atteggiamento nei suoi confronti. La vedono sempre come responsabile della crisi, in altre parole Edipo ha realmente commesso parricidio e incesto, attirando così la peste su Tebe, ma pensano anche che ora la vittima sia responsabile della riconciliazione. Di conseguenza, la vittima colpevole diventerà una divinità. Nel caso di Edipo è semplicissimo, si tratta di una divinità del matrimonio, delle regole del matrimonio che ha infranto lui stesso e che in qualche modo ha istituito infrangendole, cosa certo assurda ma che nondimeno svolge un ruolo essenziale nella genesi del religioso e dello stesso sociale.

Da qui risulta evidente che le somiglianze con il cristianesimo sono più forti che mai. Se osserviamo la crocifissione e la Passione, subito notiamo che è un fenomeno estremamente, incredibilmente mimetico. Ad esempio, il rinnegamento di Pietro: è evidente che interpretarlo in maniera psicologica come si fa sempre (l’apostolo si lasciava facilmente condizionare) vuol dire insinuare che al suo posto noi avremmo resistito alla tentazione di rivoltarci a Cristo, e non è soddisfacente. In realtà avviene che quando Pietro si trova in mezzo a una folla ostile a Gesù, come accade nel cortile del Sommo Sacerdote, diventa ostile anche lui. È mimeticamente contagiato. E vi si trova in quanto il migliore tra i discepoli, li rappresenta tutti. Nessuno è in grado di resistere al mimetismo omicida della folla. Un’altra prova è Pilato: vorrebbe salvare Gesù, ma in quanto politico ha talmente paura della folla che le obbedisce fingendo di guidarla. Ma l’imitazione più caricaturale, quasi comica nel suo tragico straordinario, sono i due uomini crocifissi con Gesù che si voltano verso la folla e cercano di imitarla, vociferano con la folla, in fondo per far credere a se stessi di non essere crocifissi.

È il mito completamente spiegato e svelato. A questo punto gli antropologi vanno in visibilio, perché in fondo conoscono solo la logica del concetto. E si dicono che perché il cristianesimo fosse davvero diverso dalle altre religioni bisognerebbe che parlasse di altro. Ebbene, non è così. Il cristianesimo parla di quello che è essenziale nell’uomo, ossia del fondamento religioso delle società, che è anche il fondamento della cultura: il mimetismo violento. Deve parlare della stessa cosa dei miti. È dal momento in cui si vede quest’identità di argomento, questi rapporti estremamente vicini tra mitologia e cristianesimo, che di colpo dovrebbe apparire la differenza. Lo strano è che non sia ancora apparsa, che non siamo capaci di formularla. Tale differenza è perfettamente evidente: nei miti i colpevoli, anche se alla fine vengono divinizzati, sono anzitutto colpevoli. Quando si parla del mito di Edipo si pensa al parricidio e all’incesto e oggi ci sembrano più veri che mai, il che è la prova che ci troviamo nel mito, perché quasi tutti credono nella psicanalisi, che non è altro che credere al parricidio e all’incesto invece di credere a una certa innocenza dell’uomo che là è reale. La differenza essenziale di Gesù è che la Passione presenta la vittima non come colpevole, ma come innocente. In altre parole, la Passione è l’unico mito che sa e proclama quello che i miti dissimulano perché non lo sanno: la vittima è un capro espiatorio innocente. Dunque è l’unico modo di annientare completamente i miti, mostrando che sono strutturati dalla menzogna della vittima colpevole e dell’inconscio del capro espiatorio. Avere un capro espiatorio non significa sapere di averlo.

 

La rivelazione della violenza e l’apocalisse

Oggi ci sono persone che denunciano la violenza del religioso cristiano ed ebraico; certamente c’è violenza: il religioso cristiano rivela quella violenza che i miti non rivelano, perché quando sono i violenti a parlare della propria violenza essa non appare mai come tale, bensì come giustizia. In altre parole, Edipo passa per essere condannato giustamente. Se guardiamo l’Antico Testamento alla luce del Nuovo, capiamo perché i cristiani non possono assolutamente farne a meno, perché è il primo grande sistema religioso ad avere lottato contro il carattere essenzialmente mitico dei testi religiosi. Ad esempio, nella storia di Giuseppe: ci sono dodici fratelli, una folla, e questi dodici fratelli espellono il tredicesimo. Un mito racconterebbe la storia nella prospettiva dei dodici fratelli, che dissimulano la loro condotta criminale e pretendono di essere innocenti. I dodici fratelli raccontano al padre di un sacrificio. La Bibbia si rende conto di quella menzogna e ce lo dice, e afferma che i pagani ci credono perché sono culturalmente in ritardo. Ma noi sappiamo che è falso, ci dice la Bibbia, e che i fratelli sono gelosi di Giuseppe.

Ancora, prendiamo il libro di Giobbe: in fondo è un Edipo. Giobbe è stato a lungo adorato dalla sua comunità, che all’improvviso si rivolta contro di lui. E nella persona dei tre falsi amici chiede a Giobbe di riconoscere la propria colpevolezza. Giobbe non ci vuole stare, per questo il testo fa parte della Bibbia, perché si erge contro la falsa colpevolezza di un capro espiatorio. Nei Salmi troviamo molti testi in cui il narratore è circondato da una folla che minaccia di linciarlo. Per me sono miti al contrario, dove per la prima volta al posto della folla è la vittima a parlare e a lamentarsi di essere perseguitata. La sua violenza puramente verbale non ha nulla di paragonabile alla violenza silenziosa, ma reale, dei suoi persecutori.

Si potrebbe sostenere che il mito è come una magnifica pelliccia ben lustra, dove non si scorge alcuna violenza, ma la Bibbia e i Vangeli rovesciano il mito e lasciano scorgere la pelle sanguinante della vittima al posto di quella superficie di cultura che appare sempre innocente, mentre in realtà nasconde al suo interno l’omicidio fondatore. Da qui vediamo bene che i Vangeli sono assolutamente unici. E tutto quel che c’è di grande nel nostro approccio culturale moderno, che consiste nel demistificare certi aspetti culturali e in particolare nel preoccuparci delle vittime – cosa che siamo la prima civiltà a fare – deriva dai Vangeli. Noi non li abbiamo compresi concettualmente, ma sono fatti in modo tale da influenzarci sotterraneamente da duemila anni. Al tempo stesso esiste un riscatto, certamente: per vivere in un universo che ci priva delle protezioni sacrificali di cui godono tutte le società arcaiche, che è proprio quel che fa il cristianesimo ritirando lentamente i paletti sacrificali della cultura, occorre rinunciare alla violenza in prima persona. E non basta rinunciare all’iniziativa della violenza, cosa che tutti gli uomini credono sempre di fare; bisogna rinunciarvi incondizionatamente. Dunque la soppressione del sacrificio e l’offerta del Regno di Dio nei Vangeli sono inseparabili l’una dall’altra: sono la stessa e unica cosa. Non è un’offerta condizionata, opzionale, ma una necessità urgente. E il tema apocalittico rappresenta chiaramente quello che rischia di succedere se gli uomini non accettano le condizioni di questa specie di contratto, incondizionato e universale, del Regno di Dio. Se gli uomini persistono nel comportarsi come hanno sempre fatto, man mano che comprenderanno meglio, la violenza di tutte le epoche passate ricadrà sulla loro testa. Del resto è per questo che nei Vangeli si trova quella frase straordinaria: tutte le vittime della storia ricadranno su questa generazione. Sono parole che i teologi non hanno mai commentato perché per essere comprese vanno forse collocate sul piano della religione sacrificale. In realtà non bisogna vedere la relazione in maniera univoca, come condanna del religioso sacrificale da parte del cristianesimo: è evidente che, se la rivelazione è vera, il sacrificale era assolutamente necessario per fare di quell’animale selvaggio che era l’antenato e predecessore dell’uomo una creatura capace di comprendere il messaggio cristiano. Di conseguenza un concetto importantissimo nei Vangeli è l’ora del Cristo: bisogna aspettare che suoni perché il messaggio cristiano divenga davvero intelligibile.

Qui c’è tutta una concezione della storia. E oggi la lagnanza perpetua che gli uomini rivolgono al cristianesimo, rimproverandogli di non avere moderato la violenza, è di un’arroganza inverosimile. I moderni considerano il religioso come un’altra forma di tecnica o un’altra forma di consumo, in cui il religioso esiste per proteggerci dalla violenza. A quelle lagnanze bisogna rispondere con le parole più sensazionali, per così dire, e più paradossali di Cristo, che sono: se credete che io sia venuto per portare la pace vi sbagliate, io porto la guerra. D’ora in poi il padre sarà nemico del figlio, la figlia della madre, la nuora della suocera, i nemici saranno le persone della propria casa. Ci si può chiedere se il fatto che questi testi non vengano mai menzionati o usati non ponga nelle circostanze attuali un problema grave, quello di sapere se saremo in grado di riprenderci l’incredibile contemporaneità del cristianesimo. Ciò esige da parte nostra qualcosa di formidabile: dobbiamo smettere di pensare che rassicurarci su quanto sta avvenendo sia più importante del senso, della verità, che forse è davvero in quelle parole. A mio parere il Vangelo non è mai stato più pieno di promesse di oggi sul piano del senso, del significato vero, ma questo esige da parte nostra un certo coraggio, che in questo momento fa palesemente difetto alla nostra cultura.

Il cristianesimo non ha soppresso la violenza, né promette di farlo. Ha detto che avrebbe portato una cultura decisiva per il destino dell’umanità, ma che non sarebbe stata una strada in discesa. Sotto questo aspetto è strano che le Chiese in generale abbiano smesso di parlare dei testi escatologici e apocalittici da quando è stata inventata la bomba atomica, ossia dal momento in cui il mondo moderno è entrato in quello che si dovrebbe chiamare uno “stato di apocalisse oggettivo”. In ogni istante può di fatto distruggersi da solo e realizzare la promessa del testo apocalittico ebraico e cristiano. La maggior parte dei cristiani è convinta che sia stata dimostrata l’assurdità dei testi apocalittici, che essi non abbiano alcun rapporto con il reale e interessino solo le sette bislacche. Ci si è valsi dell’errore dei primi cristiani come Paolo, molto sensibili nell’ardore della loro fede al contenuto apocalittico della religione, per sopprimere quei testi. Se si pensa al capitolo XIII del Vangelo di Marco e al capitolo XXIV del Vangelo di Matteo, ci si accorge che sono di una potenza straordinaria e che sono presenti nell’orizzonte del nostro mondo. Curiosamente i cristiani non lo vedono, e proprio in questo momento a recuperare il tema dell’apocalisse sono gli ambienti della fi losofi a laica. Lo si avverte già in Heidegger, ma oggi un filosofo tedesco come Peter Sloterdijk, solo in parte heideggeriano, riprende la questione dicendo che la società moderna sta perdendo l’istinto di conservazione al punto da aprire all’umanità la via dell’autoestinzione. Non pensa minimamente a fare allusione al cristianesimo, tanto esso si mette fuori gioco da solo e rifiuta di assumersi ogni responsabilità di fronte ai propri testi. È necessario che il cristianesimo reintegri la vita intellettuale, e potrebbe farlo con una potenza incomparabile.

RENE’ GIRARD

(Traduzione di Anna Maria Brogi)

 

http://rivista.vitaepensiero.it/2013/2/4

 

 

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