È possibile intrecciare storia e ritualizzazione? Qui non si tratta di conciliare storia e memoria, ma di conciliare la storia con la forma estrema della memoria, cioè con il suo irrigidimento ritualistico. Devo dire che, come Yerushalmi nel suo Zakhor, tendo a vedere le funzioni del rituale, in tutte le sue modalità, come diametralmente opposte a quelle della storia.
Introducendo nella continuità del passato le rotture temporali, o forse è meglio dire il tempo tout court, la storia compie una rivoluzione, assume insomma una funzione eversiva. Essa estrae dal contesto un evento, un fatto, lo analizza, lo mette in rapporto con altri fatti ed eventi, lo interpreta, lo ricontestualizza. La storia ha quindi una funzione individualizzante, illumina di un faro di luce un momento, un particolare, lo colloca nel tempo, lo sottrae a un continuum in cui le sue specificità non emergevano, lo chiama insomma. Il rituale rifiuta la dimensione temporale: il fatto o l’evento funzionano solo in quanto ricalcano la tradizione di altri fatti ed eventi precedenti, vi si rimodellano sopra. Il nome non conta, conta solo l’esempio, il senso simbolico che il fatto assume.
Il rituale generalizza, appiattisce, soffonde una luce diffusa sul passato. La storia tende ad attribuire responsabilità ben distinte e basate su fatti accertati e provati. Il rituale deresponsabilizza l’individuo e lo accomuna sotto delle etichette morali: il giusto, il malvagio. Per lo storico (o almeno per il buono storico), il criterio dell’antisemitismo non spiega nulla, è una tautologia, a meno di non specificarlo nei suoi componenti, nella sua diffusione, nella sua provenienza, nella sua funzione. Altrimenti, si finisce per dire, come nelle analisi di alcuni cattivi storici, che gli antisemiti odiano gli ebrei perché sono antisemiti, cioè odiano gli ebrei perché odiano gli ebrei.
Si può, potremmo chiederci, svolgere contemporaneamente queste due diverse azioni, studiare la Shoah e al tempo stesso ritualizzarla? Credo che ogni processo di ritualizzazione vada nella direzione opposta della crescita degli studi e delle conoscenze. Un processo di ritualizzazione, tanto più se religiosa e non civile, non può essere posto sotto l’ombrello protettivo della storia.
La domanda diventa allora un’altra: se, in questo momento di confusione, di svolta generazionale, di possibile futura caduta delle sue priorità, la Shoah debba fare ancora parte della ricerca e della costruzione storiografica, o se tutto sia stato detto, tutto sia stato scoperto, tutto sia stato interpretato e si possa ormai, rinunciando alla memoria deliberata e consapevole, irrigidire queste conoscenze, pur facendo attenzione a non deformarle e a non falsificarle, in una struttura rituale e pietrificarle per preservarle nel futuro, se preferiamo renderle eterne. La storia avrebbe quindi qui una funzione non di crescita delle conoscenze o di loro più approfondita interpretazione, ma di mero guardiano dei fatti.
Ma il rituale preserva davvero la memoria? È vero, nella ritualizzazione religiosa la memoria di alcuni fatti o eventi particolarmente significativi si preserva a lungo, anche per millenni, ma a patto di cancellare quella di molti altri fatti e di molti altri eventi, tutti quelli che non hanno trovato spazio nel rituale o che non è sembrato importante ricordare nel rituale perché offuscati da altri fatti considerati più significativi o a più alto valore simbolico.
Certo, anche nella storia non tutto è riconosciuto, preservato, ricordato. Qualunque narrazione storica è sempre il frutto di una selezione, di una interpretazione. Ma nel rito, la selezione è fondamentale, la memoria di una piccola parte dei fatti diventa eterna solo a patto di comprendere tutto il resto senza menzionarlo, di schiacciarlo sul fatto ritualizzato. Ricorderemo così Auschwitz e non Treblinka, i deportati ungheresi e non quelli italiani, Terezin e non Dachau? Chi sceglierà i fatti, gli eventi più ritualizzabili, più simbolici?
E la simbolizzazione, come è solitamente in questi casi, non renderà ancora più distante e irreale la realtà? Ci sarà un seder del 27 gennaio, o il rituale della Shoah si ricollegherà a quello delle feste già stabilite, Hannuka se si vuole sottolineare la resistenza, Pesah la liberazione? E si tratterà di un rituale solo ebraico, o si dovranno inventare forme ritualistiche anche per il cattolicesimo e il protestantesimo (per l’islam, la vedo più difficile, anche se non impossibile), visto che c’è una consapevolezza diffusa che la Shoah riguarda tutti, non solo gli ebrei? E se demoliamo questa consapevolezza, non rischiamo, ghettizzando la Shoah, di diminuirla, di cancellarne la memoria tranne che per gli ebrei?
E se è vero che, come dice Lewy, la ritualizzazione religiosa resiste molto più di quella civile agli assalti del tempo, di che tipo di rituali avremmo bisogno, civili o religiosi?
Un altro problema ancora è quello della riconciliazione, cioè della ricomposizione del trauma, della definizione del lutto, del perdono potremmo dire, usando un termine che non appartiene troppo alla tradizione ebraica. Come ben sappiamo, questo della riconciliazione è un problema che negli ultimi decenni ha assunto molta importanza nell’Europa post-coloniale e post-dittatoriale.
Ma siamo sicuri che la ritualità potrebbe essere una strada che porta alla riconciliazione? Essa generalizza, non rende individuali le responsabilità, proprio il cammino opposto a quello della verità come garanzia della riconciliazione. Inoltre, finisce necessariamente per rinchiudere la memoria in un rito interno, dal momento che non vedo proprio come si potrebbe inventare dal nulla una ritualità interreligiosa: la ritualità è ancorata a una tradizione, parla il linguaggio della tradizione, ha tempi ancorati alla tradizione. Ogni tentativo in questo senso finirebbe inevitabilmente per chiuderla dentro la ritualità ebraica, e questo proprio nel momento in cui si è finalmente raggiunta la percezione che la Shoah riguarda tutti, e non solo gli ebrei.
Solo analizzando con gli strumenti della storia i genocidi, gli eccidi, le violazioni dei diritti umani possiamo metterli a confronto in maniera utile, sottraendo questa riflessione a un uso politico inadeguato e sospetto. Il rituale mi sembra, su questo terreno, assolutamente deficitario, finendo o per rinchiudere la memoria della Shoah in un ghetto, o per aprirla indiscriminatamente banalizzandola.
ANNA FOA
13 aprile 2012
fonte: www.osservatoreromano.va
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