«La Fratellanza musulmana non è riuscita a dare una svolta economica all’Egitto e ha commesso alcuni errori fondamentali. Il più grave è aver creduto di poter accelerare l’islamizzazione della società impadronendosi dei meccanismi del potere. Ciò le ha alienato il sostegno di gran parte della popolazione, che ha sostenuto i militari contro Morsi». È l’analisi di Massimo Campanini, storico del Medio oriente arabo e della filosofia islamica. Che resta però convinto di una cosa: l’islam politico non è finito.
Il movimento dei Fratelli musulmani è stato fondato in Egitto nel 1928 da Hassan al-Banna. Fin dalle origini, l’organizzazione ha avuto un grande successo e si è diffusa in molti Paesi. Dal punto di vista ideologico il suo messaggio può essere riassunto nello slogan: «Dio è il nostro obiettivo. Il Corano è la nostra Costituzione. Maometto è il nostro esempio. Il jihad è la nostra via. Il martirio sulla via di Dio è la nostra prospettiva».
Il jihad non va però inteso come «guerra santa», ma come una mobilitazione delle energie del credente per realizzare gli obiettivi che Dio ha prescritto. Tra questi c’è la creazione dello Stato islamico, partendo però da un’islamizzazione dal basso. Il messaggio dei Fratelli musulmani non prevede una presa del potere violenta, ma una lenta trasformazione della società in senso islamico. Solo dopo questa trasformazione si può realizzare lo Stato islamico, anche se il concetto di Stato islamico non è molto chiaro e non è mai stato definito in modo preciso come esso possa essere costruito politicamente e istituzionalmente.
In Egitto, i Fratelli musulmani sono stati duramente perseguitati da Gamal Nasser negli anni Cinquanta e negli anni Sessanta. Mentre il successore, Anwar Sadat, ha cercato di utilizzarne il peso politico per combattere la sinistra nasseriana e comunista. Hosni Mubarak ha tenuto invece nei loro confronti un approccio ambiguo. All’inizio della presidenza è stato conciliante, per poi perseguitarli. Sotto Mubarak, la Fratellanza era formalmente fuorilegge, ma sostanzialmente era tollerata. Tanto è vero che suoi esponenti hanno partecipato alle elezioni politiche e sono stati eletti come indipendenti (nell’ultima legislatura dell’era Mubarak la Fratellanza aveva 88 deputati). Va detto che sia sotto Sadat sia sotto Mubarak, i Fratelli musulmani hanno sempre cercato di legittimarsi come forza politica responsabile e disposta a entrare nei gangli vitali del sistema istituzionale. Ciò non significa che all’interno del movimento non si siano affermate correnti estremiste, penso all’apparato segreto negli anni Quaranta e alla corrente di Sayyid Qutb negli anni Sessanta. Il movimento nel suo complesso si è però sempre reso disponibile all’accettazione delle regole della democrazia. E non solo in Egitto, ma anche in Giordania, Marocco, Sudan, Tunisia.
Nel momento in cui sono scoppiate le rivolte anti Mubarak, i Fratelli musulmani egiziani hanno mantenuto una posizione defilata. Quando poi hanno compreso che le rivolte avevano la possibilità di abbattere il regime sono scesi in piazza e hanno cercato di approfittare della situazione. Diversa la situazione in Tunisia, dove il partito Ennahda, che è ideologicamente legato alla Fratellanza, è stato protagonista fin dall’inizio delle rivolte. Quando è caduto Ben Ali, il leader Rashid al-Ghannushi è immediatamente tornato dall’esilio ed è stato uno dei protagonisti non solo delle proteste, ma anche della vittoria elettorale di Ennahda nel 2011 e nella commissione che sta elaborando la Costituzione.
Una volta raggiunto il potere, i Fratelli musulmani egiziani sono stati molto dinamici in politica estera, cercando di restituire all’Egitto un ruolo da protagonista, smarcandosi dalle posizioni corrive che Mubarak aveva tenuto nei confronti di Israele e Stati Uniti. In campo interno invece il bilancio è stato fallimentare. Non sono infatti riusciti a dare una svolta all’economia del Paese e, soprattutto, a modificarne in profondità i rapporti sociali. Hanno commesso alcuni errori fondamentali. Il più grave è aver creduto di poter accelerare l’islamizzazione della società impadronendosi in maniera esclusiva dei meccanismi del potere e tenendo sotto controllo la magistratura. Nonostante questi tentativi autocratici, va però detto che non hanno avuto il tempo di impostare una politica efficace. Morsi è stato proclamato presidente il 24 giugno 2012, quasi subito sono scoppiate le rivolte antipresidenziali organizzate da un’opposizione laica che non ha mai riconosciuto la regolare, legittima e democratica vittoria elettorale dei Fratelli musulmani.
Anche con i salafiti, il movimento islamico più radicale, la Fratellanza ha avuto, per diverse ragioni, rapporti di conflittualità. Salafiti e Fratellanza hanno visioni del mondo diverse. I primi non sono inclini a una partecipazione politica e sono legati a un’interpretazione letterale dell’islam. I Fratelli musulmani sono invece più disponibili a una dinamica democratica. Le posizioni sono quindi sempre state divergenti. Anche se è probabile che, qualora la Fratellanza fosse rimasta al potere, sarebbe stata possibile una convergenza nel processo di costruzione dello Stato islamico.
In altri Paesi però la Fratellanza si è trovata a operare in modo diverso. In Tunisia, Paese ancora in fase di transizione, Ennahda pur non avendo avuto la possibilità di attuare il suo programma ha partecipato alla costruzione dello Stato. Non solo, ma lo ha fatto senza monopolizzare il governo, ma condividendo il potere con le forze laiche. È stata quindi pragmatica e lungimirante.
Anche in Giordania e in Marocco, monarchie nelle quali il sovrano ha un potere molto forte, la Fratellanza, a più riprese, ha collaborato con i governi o ne ha addirittura fatto parte. Così come in Sudan, dove la Fratellanza ha partecipato all’esecutivo cercando di islamizzare la società attraverso l’imposizione della sharia. Così facendo però ha minacciato il potere del presidente al-Bashir che ne ha imprigionato il capo Hasan al-Turabi.
Caso a sé è quello della Palestina. Qui non solo c’è una forte contrapposizione fra l’ala religiosa di Hamas (legata alla Fratellanza) e quella laica di Fatah, ma la regione vive una situazione drammatica con l’assedio di Israele alla striscia di Gaza, ridotta a una prigione a cielo aperto. Non esiste quindi la possibilità di impostare alcuna politica socio-economica produttiva ed efficace.
In molti, dopo la deposizione di Mohammed Morsi, hanno parlato di morte dell’islam politico. A mio parere, invece, è ancora vitale. L’islam è profondamente radicato nella mentalità e nella cultura delle popolazioni e quindi ha ancora la possibilità, con la Fratellanza o con altri movimenti, di strutturarsi e di portare avanti una propria proposta politica. Non stiamo parlando dell’islam jihadista, ma dell’islam politico che si riconosce in intellettuali come l’egiziano Yusuf al-Qaradawi e il marocchino Abd al-Salam Yasin. Questi hanno sviluppato una riflessione che potrà avere conseguenze pratiche sulla scena nordafricana e mediorientale. Il fulcro del loro pensiero è il concetto di dawla madanyya, cioè di Stato civile, secondo il quale l’islam non è una teocrazia, ma uno Stato fondato sul diritto e sulla volontà popolare. In questo contesto assumono un’importanza fondamentale il principio della consultazione (shura), che può essere considerato l’equivalente del principio di rappresentanza nelle democrazie occidentali, e quello di giustizia sociale di derivazione coranica, secondo il quale nell’islam non ci devono essere sfruttati e sfruttatori pur in un sistema economico capitalista. Da questi punti, credo, possa ripartire la proposta politica islamica.
Massimo Campanini
© FCSF – Popol
http://www.popoli.info/EasyNe2/Primo_piano/L_islam_politico_non_e_morto.aspx
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