Nella grandiosa scenografia barocca della chiesa romana del Gesù il 24 febbraio, alle soglie della Quaresima, si proporrà la sostanza del dramma che lo scrittore francese Georges Bernanos dedicò alle sedici carmelitane di Compiègne, ghigliottinate durante la Rivoluzione e beatificate il 27 maggio 1906. Proprio perché sarò coinvolto in una riflessione in quella serata, come mi era accaduto negli anni precedenti con la Leggenda del Grande Inquisitore di Dostoevskij e con l’Assassinio nella cattedrale di Eliot, vorrei ora proporre più una testimonianza che un’analisi critica o tematica su un’opera per altro dotata di un grande fascino e di un’intensa qualità spirituale.
Inizierò allora con un ricordo personale. Come spesso mi accadeva anche per altre rappresentazioni, in un tardo pomeriggio del maggio 2000 partecipai alla Scala, su invito del maestro Riccardo Muti, a una delle prove del terzo atto dei Dialogues des Carmélites del compositore francese Francis Poulenc (1899-1963). Come sempre, fu un’esperienza di particolare intensità quella di vedere sbocciare un’opera nel suo “impasto” di musica e di azione, quest’ultima sostenuta dalla fine regia di Robert Carsen. Emozionante era il quarto e ultimo quadro allorché le monache, ormai in abito borghese, intonavano la Salve Regina salendo al patibolo: ogni volta che la lama cadeva, scandita da un rombo, un corpo si deponeva a terra e si spegneva una voce; alla fine – dopo l’ultima suora, Constance – era solo lei, la protagonista Blanche de la Force, a farsi strada tra la folla per cantare la lode finale del Veni Creator, prima che incombesse anche per lei e sulla scena il sudario del silenzio e il sipario si chiudesse.
Questo gioiello musicale era germogliato da un terreno letterario fecondo che aveva alle spalle due storie di conversione. Da un lato, c’era infatti la calvinista tedesca Gertrud von le Fort che si era convertita al cattolicesimo durante un soggiorno romano e nel 1931 aveva scritto il lungo racconto L’ultima al patibolo (Rizzoli 1993). D’altro lato, c’era il musicista parigino Francis Poulenc che nel 1935, scosso dalla morte tragica di un amico, si convertiva e iniziava una serie di composizioni di tema religioso. Nel frattempo, però, alla ribalta della cultura francese era asceso anche lo scrittore cattolico Georges Bernanos che, sullo spunto della collega tedesca ma in modo totalmente autonomo, aveva delineato un dramma, Les dialogues des Carmélites, inizialmente pensato come sceneggiatura di un film.Sarà però solo nel 1960 che apparirà il film I dialoghi delle Carmelitane per la regia di Philippe Agostini con Jeanne Moreau, Alida Valli, Pierre Brasseur e Jean-Louis Barrault, accompagnato da qualche polemica sulla fedeltà all’originale, nonostante la consulenza del noto religioso domenicano padre Brukberger. L’opera letteraria fu composta da Bernanos in Tunisia durante l’inverno 1947-1948 (pochi mesi prima della morte avvenuta il 5 luglio), e pubblicata postuma nel 1949, così da divenire quasi il suo testamento spirituale.
Poulenc nel 1953 si era orientato verso una libera trascrizione musicale di quel testo, ovviamente rielaborato. Tuttavia fu solo nel 1956 che ne aveva portato a termine la composizione e il 26 gennaio 1957 per la prima volta, proprio alla Scala, erano andati in scena i suoi Dialoghi. Come si diceva, alla base di questo intreccio tra musica e letteratura c’è un evento storico: il 17 luglio 1794 sedici monache del Carmelo di Compiègne erano state condannate a morte dal tribunale rivoluzionario ed erano salite sul patibolo insieme, cantando un Salmo, il Laudate Dominum (Salmo 116/117).
È da sperare che coloro che la sera del 24 febbraio nella chiesa del Gesù seguiranno la trama di questo dramma o ascolteranno in proprio l'”oratorio” moderno di Poulenc prendano tra le mani la versione italiana integrale dell’opera di Bernanos, curata dall’editrice Morcelliana nel 1987, e percorrano integralmente questo affascinante e tragico itinerario più rilevante a livello spirituale che storico. Le figure a tutto tondo sono infatti molte.
Pensiamo alla solare e festosa suor Constance, all’algida eppur tormentata madre superiora atterrita dalla morte incombente fino a delirare, alla nuova priora madre Marie-Thérèse, donna semplice, solida e sapiente (“Quando mancano i preti, i martiri sovrabbondano e l’equilibrio della grazia si trova così ristabilito”, le mette in bocca Bernanos); pensiamo alla brutalità dei rivoluzionari, a suor Marie, l’unica sopravvissuta, destinata a conservare solo la memoria di quel martirio, rinunciando così all’aureola di gloria, proprio lei che aveva desiderato e quasi “corteggiato” quella fine sacrificale.
Ma su tutte e su tutto è lei, suor Blanche, a dominare la scena, l’aristocratica che sceglie entrando nel Carmelo un nome emblematico, Blanche dell’Agonia di Cristo, il nome che la stessa madre superiora avrebbe voluto per sé, un nome decisivo perché “chi entra nel Getsemani non ne esce più”. E qui il pensiero corre non solo al Cristo di Pascal “in agonia sino alla fine dei tempi” ma anche al cristianesimo stesso di Bernanos, al suo Diario di un curato di campagna, e alla celebre estrema esclamazione del suo protagonista “Tutto è grazia!”.
Si potrebbe, però, idealmente associare a queste voci anche l’ultimo grido dello stesso scrittore prima di morire a Neuilly-sur-Seine: “A noi due!”, appello all’incontro con Dio o a un supremo scontro con la morte. In suor Blanche, invece, si ramifica ben presto la mano gelida della paura: “la paura, ricacciata giù nel profondo dell’essere, è il gelo al midollo dell’albero”. Quella paura che essa vede nella stessa Superiora, apparentemente indomita e invece stremata e balbettante di fronte all’agonia: “Domanda perdono morte paura paura della morte”.
È la paura mista ad angoscia che fa fuggire Blanche dal convento, riportandola nel suo palazzo ormai depredato, immersa nel disprezzo dei domestici e nel disprezzo di sé a causa della sua diserzione, assalita dal vuoto interiore. Ma la grazia divina non abbandona quest’anima autentica, anche perché Cristo stesso ha sperimentato la paura: “I martiri erano sostenuti da Gesù, ma Gesù non aveva l’aiuto di alcuno, perché ogni aiuto e ogni misericordia procedono da Lui. Nessun essere vivente entrò nella morte così solo e così disarmato. Sotto un certo aspetto la paura è figlia di Dio, riscattata la notte del Venerdì Santo. Non è bella a vedersi ora derisa, ora maledetta, rinnegata da tutti. Eppure non illudetevi: essa si trova al capezzale di ogni agonia, essa intercede per l’uomo”.
Ed è col cuore finalmente sgombro dalla paura che suor Blanche si fa largo tra la folla e sale sul patibolo per ultima, rigenerata e riaccolta nella sua comunità ma anche nel grande mistero della comunione dei santi. L’angoscia è divenuta in lei mediatrice di grazia, anzi grazia essa stessa, perché “quello che rassicura non è la Fede, è l’Amore”.
Anche Bernanos, sul letto di morte, dopo quel grido – come racconta il sacerdote che l’aveva assistito nell’agonia, Daniel Pézeril – “aveva le labbra che sorridevano con la giovinezza dell’infanzia”.
di GIANFRANCO RAVASI
(©L’Osservatore Romano 24 febbraio 2012)
fonte: www.vatican.va
Commenti