Il successo editoriale dei libri di Joseph Ratzinger, Benedetto XVI, dedicati a Gesù di Nazaret, compreso l’ultimo su L’infanzia di Gesù (pubblicato quest’anno da Rizzoli-Lev), può apparire singolare in un’epoca che molti già dicono «post-cristiana».Quali ne sono le ragioni?La risposta mi sembra possa trovarsi nella capacità di questo Papa di parlare allo «spirito del tempo» in maniera tutt’altro che accomodante e tuttavia coinvolgente. Benedetto XVI non ignora le grandi trasformazioni culturali degli ultimi decenni: da una fiducia diffusa, persino ingenua, nella capacità dei «grandi racconti» ideologici di interpretare e trasformare il mondo, si è passati con sorprendente rapidità a una altrettanto diffusa sfiducia nei confronti di ogni orizzonte totalizzante di senso, compreso quello religioso. L’uomo ridotto a «massa» dalle ideologie si è trovato improvvisamente solo, senza l’abbraccio di un’appartenenza forte, in una «folla di solitudini», dove spesso l’altro è ridotto a «straniero morale». In questo scenario, l’autonomia rivendicata dalla modernità per il soggetto storico diventa assoluta e lo spazio per l’altro, a cominciare da quello per il prossimo immediato fino a quello per Dio, si riduce paurosamente.
Oggi, osserva il Papa, «sempre di nuovo, Dio stesso viene visto come il limite della nostra libertà, un limite da eliminare affinché l’uomo possa essere totalmente se stesso» (L’infanzia di Gesù, pagina 101). Proprio per questo, però, risulta affascinante la proposta di un Dio diverso da quello che l’ideologia combatteva e che la post-modernità delle solitudini rifiuta: «Dio è amore… L’amore non è un romantico senso di benessere. Redenzione non è wellness , un bagno nell’autocompiacimento, bensì una liberazione dall’essere compressi nel proprio io. Questa liberazione ha come costo la sofferenza della Croce. La profezia sulla luce e la parola della Croce vanno insieme» (ibidem). È così che la proposta del Papa teologo attrae le donne e gli uomini di questa età post-cristiana, post-secolare e post-moderna: nella sua semplicità espositiva, nei contenuti forti che narrano di un Dio vicino, umano fino in fondo e non per questo meno divino, la trilogia su Gesù di Joseph Ratzinger si offre come buona novella per il nostro tempo e il suo spirito insicuro, naufrago dai grandi sogni delle ideologie e orfano di patrie attendibili e gratificanti.
Anche nel metodo l’opera cristologica di Benedetto XVI presenta un marcato carattere post-moderno: si tratta di un approccio alla figura di Gesù di Nazaret ispirato a una sorta di «innocenza narrativa post-critica». L’Autore suppone l’affidabilità storica dei racconti evangelici, ma non lo fa in maniera acritica, bensì vagliando le testimonianze e applicando i criteri elaborati dal raffinato dibattito degli ultimi due secoli intorno alla storicità dei Vangeli. In questa lettura ci sono accenti diversi, che vanno da un minimalismo a un massimalismo: la trilogia del Papa si colloca su una linea precisa, motivata da un’opzione di fondo, secondo cui l’accostamento alla figura del Gesù storico non è mai irrilevante per la mente e il cuore di chi lo opera.
Come notava il maestro dell’ermeneutica contemporanea, Hans Georg Gadamer, quest’approccio è valido per ogni figura o opera del passato, e comprende sempre tre elementi: l’estraneità, la coappartenenza e la fusione di orizzonti.
Se l’estraneità rimanda al rigore critico, garanzia di oggettività, la coappartenenza motiva la ricerca, perché investe il passato delle domande che toccano la nostra vita oggi. Quando si arriva all’incontro fra questi due poli si ha la «fusione di orizzonti», in cui il passato parla al presente e lo feconda trasformandolo. La comprensione così ottenuta è – nella convinzione di Benedetto XVI – la meta di ogni accostamento credente ai Vangeli, che non può essere mosso da semplice curiosità intellettuale, ma suppone sempre il desiderio di comprendere meglio se stessi alla luce di quanto la storia del Figlio di Dio ci dice.
«Un’interpretazione giusta – scrive Ratzinger – richiede due passi. Da una parte, bisogna domandarsi che cosa intendevano dire con il loro testo i rispettivi autori, nel loro momento storico… Ma non basta lasciare il testo nel passato, archiviandolo tra le cose accadute tempo fa. La seconda domanda del giusto esegeta deve essere: è vero ciò che è stato detto? Riguarda me? E se mi riguarda, in che modo?» (pagina 5).
Qual è dunque il messaggio che attraverso quest’approccio Benedetto XVI trae dai Vangeli, in specie dalle storie dell’infanzia di Gesù? Al disincanto degli orfani delle utopie ideologiche e della loro violenza, viene offerto il volto di un Dio vicino. L’umanità di Dio emerge dalle narrazioni evangeliche nella forma dell’umiltà: «Il segno della Nuova Alleanza è l’umiltà, il nascondimento: il segno del granello di senape» (pagina 30). Alla «indifferenza di fronte alla sofferenza altrui», considerata dai Padri della Chiesa come tipica del paganesimo, e presente nelle tante forme dell’edonismo consumistico del nostro tempo, «la fede cristiana oppone il Dio che soffre con gli uomini e così ci attrae nella com-passione» (pagina 102).
Il paradosso che pervade tutta la storia biblica è che «ciò che è grande nasce da ciò che, secondo i criteri del mondo, sembra piccolo e insignificante, mentre ciò che agli occhi del mondo è grande, si frantuma e scompare» (pagina 121). Tutto questo nulla toglie alla divinità di Dio, fortemente riproposta dall’opera di Joseph Ratzinger: nel racconto dei Magi, egli nota, «non è la stella a determinare il destino del Bambino, ma il Bambino a guidare la stella… L’uomo assunto da Dio – come si mostra nel Figlio unigenito – è più grande di tutte le potenze del mondo materiale e vale più dell’universo intero» (pagina 119).
Il cuore del messaggio sta però nel fatto che quest’uomo e questo Dio si incontrano pienamente in Gesù: in Lui «l’universale e il concreto si toccano a vicenda. In Lui, il Logos, la Ragione creatrice di tutte le cose, è entrato nel mondo» (pagina 77).
Quest’incontro produce una grandissima gioia per chi accetta di viverlo: «È la gioia dell’uomo che è colpito al cuore dalla luce di Dio e che può vedere che la sua speranza si realizza – la gioia di colui che ha trovato ed è stato trovato» (pagina 123). Questa gioia motiva il canto degli Angeli, e – scrive il Papa, grande cultore di musica – aiuta a ben comprendere come «il semplice popolo dei credenti abbia sentito cantare anche i pastori, e fino ad oggi, nella Notte Santa, si unisca alle loro melodie, esprimendo col canto la grande gioia che da allora sino alla fine dei tempi a tutti è donata» (pagina 88).
È la gioia che trasmette la lettura delle pagine di Benedetto XVI. È la gioia che un suo grande conterraneo, Johann Sebastian Bach, cantava così in questo Oratorio di Natale, singolarmente in sintonia con quanto il libro del Papa riesce a trasmettere: «Come potrò accoglierTi, in che modo incontrarTi, o anelito di tutto il mondo, o tesoro dell’anima mia?… Oh mio amato, piccolo Gesù, preparati una culla pura e tenera per riposare nello scrigno del mio cuore affinché mai io mi dimentichi di Te!… O Gesù, sii Tu solo il mio desiderio, siimi sempre nel pensiero, non permettere che io vacilli!».
Bruno Forte
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