Si intitola «La mia croce» la raccolta di testi (alcuni dei quali inediti) di Karol Wojtyla curata da Andrzej Dobrzynvski e Valerio Rossi per Interlinea (pp. 160, euro 12), da venerdì in libreria. Si tratta di omelie di Giovanni Paolo II sul tema della Passione, alcune pronunciate quando non era ancora Papa; in questa pagina riportiamo appunto un brano della predica fatta dall’allora cardinale Wojtyla al santuario della Santa Croce a Mogila di Nowa Huta, presso Cracovia, il 20 settembre 1970. Pubblichiamo anche la prefazione all’antologia firmata da monsignor Luigi Negri, vescovo di San Marino-Montefeltro.
Che cos’è la croce? Direi che è soprattutto un simbolo eterno, è una domanda dell’uomo che non tace mai. Basta ascoltare il pianto di un bambino piccolo per poter scoprire in esso questa domanda. Basta passare per le vie dell’antica città di Cracovia e di Nowa Huta, non solo dentro gli ospedali, i luoghi delle malattie, della prigionia, ma anche dentro numerose abitazioni; forse basterebbe passare fra noi: come spesso si ripeterà questa domanda! È una domanda legata alla sofferenza. L’uomo che soffre, l’uomo che viene provato dalla sofferenza, che la sperimenta, sempre chiede: perché? È una domanda legata alla croce: la domanda della croce, una domanda molto diffusa. Tutti, quasi fin dai primi istanti della vita, la sentiamo come la nostra domanda. E forse per questo andiamo in pellegrinaggio verso la croce, perché essa è una questione fondamentale della nostra vita terrena. A volte questa domanda procede di pari passo con la risposta. A volte, quando vediamo la sofferenza umana, pensiamo che sia una conseguenza di qualche causa, che sia un castigo per qualche colpa. Possiamo sempre dire così? Ma forse, più spesso, la domanda legata alla sofferenza umana – la domanda che riguarda la croce – rimane senza una chiara risposta. Qui nei pressi, a Pleszów, sono andato a visitare i bambini nell’Istituto infantile dei disabili mentali. Così simpatici, così innocenti e tanto infelici. E l’uomo deve chiedersi: perché? Possiamo dire che siano colpevoli i genitori? A volte proprio i genitori innocenti innalzano la seguente domanda: perché? Le domande sulla croce aumentano. A volte le domande sulla croce si accumulano nella vita di una particolare persona, si accumulano nella vita delle società, nella vita dell’umanità. Eppure nella croce sta la risposta per tantissime persone che soffrono. La croce è una risposta, è l’unica risposta. Perché molto spesso mancano risposte umane, spiegazioni umane. Perché soffre un bambino, una persona, un prigioniero, una nazione? La croce è l’unica risposta. Sicuramente possiamo indicare moltissime persone, forse anche fra noi, per le quali nella sofferenza la croce è stata l’unica risposta. Pensiamo allora così: soffro, ma anche Dio che divenne uomo soffrì. Soffro, guardo Lui, vedo la sua croce.
La croce è una domanda e una risposta. È questo soltanto il primo grado della nostra riflessione sulla croce. Molto spesso dalla risposta, che è la croce, nasce un’ulteriore domanda: perché Dio, che divenne uomo, perché il Figlio di Dio ha dovuto soffrire e morire sulla croce? Questa domanda si potrebbe considerare di secondo grado. Ma su questo secondo grado molto spesso subentra l’uomo, il suo pensiero, la sua riflessione umana e cristiana. Si potrebbero indicare molte persone, numerosi poeti, pensatori che si sono posti questa domanda di secondo grado: perché? A tale domanda troviamo la risposta nella Rivelazione: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna» (Gv 3,16).
Ecco la risposta. La risposta alla domanda di secondo grado, come ho detto, è l’amore. La croce corrisponde all’amore. La croce spiega l’amore universale. Ma dobbiamo dirci, miei cari fratelli, che proprio per il fatto che la croce spiega l’amore, che la croce rivela Dio amore, proprio per questo lui è una tale domanda. Quando guardiamo Cristo nel momento in cui va verso la croce, vediamo dei momenti di una giustizia assoluta. Quando nell’orto degli ulivi dice: «Allontana da me questo calice» (Lc 22,42). E non viene ascoltato. Certo, è stato esaudito nella seconda parte della sua preghiera: «Non ciò che io voglio, ma quello che Tu vuoi». Allora vengono alla mente le altre parole di un apostolo che ha scritto: «Dio neppure al proprio Figlio ha risparmiato ciò» (Rm 8,32). Questa costituisce la base dell’amore, che «ha dato il suo Figlio unigenito», affinché nessuno di noi perisca. È il mistero della croce: sapete come conducono lontano queste domande e risposte, che grazie alla luce della nostra fede giungono a noi. Nella croce c’è la misura suprema delle questioni umane, una misura così grande che supera la misura dell’uomo. È la conseguenza della nostra grandezza originaria. È la conseguenza del fatto che siamo creati a immagine e somiglianza di Dio e che la nostra vita, i nostri atti vengono misurati secondo una misura non solo umana, ma anche divina. Siccome noi uomini, soprattutto dopo il peccato – tutti siamo dopo il peccato –, non riusciamo a portare questa misura, allora occorreva la croce, sulla quale fu appeso il Figlio di Dio affinché a noi uomini venisse ripristinata la misura di Dio nella vita e negli atti. Il Crocifisso aiuta sempre ciascuno di noi a ritrovare questa misura. Ci insegna come è grande la responsabilità dell’uomo per l’uomo, per l’umanità, per la dignità umana. E quando l’uomo sente che non riesce ad assumere questa responsabilità, lo aiuta. Il mistero della croce passa nel profondo delle nostre anime. Sentiamo dentro di noi queste dimensioni di Dio, le sentiamo in modo più intenso quando cadiamo nel peccato: allora è necessaria la coscienza umana, per purificarci, per rialzarci. Ma la necessità della coscienza umana è nello stesso tempo umana e divina. L’uomo desidera fortemente recuperare questa originaria misura divina, con la quale Dio l’ha misurato e alla quale Dio non rinuncia mai. Miei cari fratelli e sorelle, so di essere audace, ma questa audacia è dovuta al desiderio di toccare le questioni di Dio, i misteri di Dio, che umanamente sono impronunciabili. Ma oggi perdonatemi questa audacia e accettate; se nelle mie parole c’è una luce, accettatele.
Karol Wojtyla
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fonte. www.avvenire.it
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