La buona novella dell’Europa

«Questo nuovo successo di Leonardo da Vinci al Louvre attesta in modo eclatante che la dimensione sacerdotale della pittura italiana non ha perduto nulla della sua potenza di trasmissione, anzi di conversione, in piena epoca di laicizzazione e di profanazione». Non tutti sanno che il grande storico e saggista Marc Fumaroli, al contempo Accademico di Francia e dei Lincei, presiede la storica Société des Amis du Louvre, la più importante associazione di amatori d’arte d’Oltralpe. Ad 80 anni scoccati da qualche giorno, Fumaroli interpreta l’afflusso record di visitatori verso il capolavoro leonardesco restaurato Sant’Anna, la Vergine e il Bambino con l’agnello (1510-1513 circa) come un segno di grande portata e una lezione per tutta l’Europa.

 

Professor Fumaroli, la stupisce una simile eco, che qualcuno interpreta già come “nostalgica”?

«Se si tratta di nostalgia, viva la nostalgia. Non vedo perché la nostalgia debba figurare fra le parole peggiorative. I tre quarti della più alta poesia e della più grande arte mondiale hanno attinto alla nostalgia più violenta, e senza alcun rimorso di essere violenta. Mi sono interessato molto all’emozione largamente condivisa che ha suscitato l’esposizione al Louvre de La Vergine e Sant’Anna, meravigliosamente ripulita. Inconsciamente, i visitatori, bombardati ogni giorno dalla televisione e dai media che annunciano loro una rivoluzione tecnologica dopo l’altra, e un mondo sempre nuovo, si sono ritrovati di colpo faccia a faccia con una scoperta mille volte più nuova, benché vecchia di cinquecento anni, una buona novella che riguarda non il nostro intelletto, ma il nostro cuore: una buona novella moderna, sconosciuta dall’Antichità, e che si è fatta strada durante mille anni di Medioevo: Dio è Amore; la Trinità è Amore; dovunque siate in due riuniti nel mio nome, sarò fra voi. In questo quadro, dal quale non volle mai separarsi, Leonardo pittore si rivela un quinto evangelista, e la scena della Trinità Anna-Maria-Gesù che ha inventato, svelata di nuovo al Louvre, rende visibile, su uno sfondo cosmico, il grande mistero d’amore e di bellezza di cui abbiamo il più urgente bisogno, per non soccombere sotto il peso dei nostri odî e dei mezzi prodigiosi che abbiamo escogitato per appagarli».

 

Nel suo saggio “Parigi-New York e ritorno” (Adelphi), lei racconta che varcò per la prima volta la soglia di un museo proprio nella terra di Leonardo, nel 1949…

«Fu un po’ per caso, diciamo che capitai lì. A 17 anni, ignoravo che gli Uffizi sono stati il primo museo pubblico dell’Europa moderna, e che l’abate Luigi Lanzi, il suo primo direttore, fu un grande storico dell’arte che ha educato Stendhal al gusto pittorico, sia con il suo grande libro, la Storia pittorica dell’Italia, sia attraverso l’organizzazione pedagogica che diede alle collezioni degli Uffizi, esposte per Scuole locali e nazionali e secondo una cronologia. Che lusso fu per me, senza saperlo, calcare le orme di Stendhal e di colui che fu il suo “precettore” involontario, il grande abate Lanzi!».

 

Malgrado la crisi, i musei italiani conoscono di nuovo un’alta affluenza. Un paradosso?

«L’Italia e gli italiani, come tutte le altre nazioni europee, attraversano una gravissima crisi d’identità storica, religiosa, culturale, linguistica. Ridurre questa crisi al debito, all’euro, ai sacrifici di sovranità degli Stati, più o meno auspicabili, significa illudersi sulle poste in gioco più profonde della crisi. Così, ci si condanna a lasciar languire la ricerca d’identità. La nazione italiana, pur penando a lungo per dotarsi di uno Stato unitario, ha trovato invece prestissimo la sua identità storica, religiosa e culturale nella memoria di Roma, nel culto cattolico delle immagini, nella pratica delle arti e degli artigianati che civilizzano. In tal modo, è stata la cornucopia della civiltà e dell’arte del ben vivere per tutta l’Europa. La memoria collettiva italiana sa benissimo ciò, senza neppure aver bisogno di esprimerlo e concettualizzarlo».

 

A proposito del patrimonio italiano, si è parlato spesso di “giacimenti culturali”. Che ne pensa?

«È una metafora grossolana, nella stessa vena del programma così riassunto da Walter Veltroni: “Noi italiani non abbiamo il petrolio, ma la cultura”. Le arti visive e la musica italiane hanno per secoli educato l’Europa, soprattutto i tedeschi, che hanno dato un nome a questo potere delle arti italiane di formare, civilizzare, nobilitare il cuore e lo spirito: bildung. Goethe non avrebbe mai scritto Wilhelm Meister senza il suo viaggio in Italia. Ancor oggi, non sono le pizzerie che spingono tanti giovani americani ad imparare l’italiano all’università, ma il desiderio di praticare la lingua degli inventori della storia dell’arte».

 

In che misura gli europei di oggi sono ancora sensibili all’«impronta di Roma», come lei l’ha definita riferendosi pure ai lasciti di civiltà più antichi?

«Data l’educazione ultraspecialistica, non storica, non letteraria di cui debbono accontentarsi sotto il ricatto della disoccupazione, temo che solo pochi fra i giovani europei possano oggi prendere coscienza delle basi romane dell’Europa occidentale. Inoltre, la carenza di regolamentazione e di vigilanza pubblica sullo sviluppo urbano e sulla protezione dei paesaggi cancella rapidamente a colpi di bulldozer le tracce ancestrali che hanno trasmesso il senso e il gusto dell’armonia fra la natura e le arti umane. Si può sperare che lo scandalo del vandalismo su vasta scala sempre più spinto, attraverso la sua stessa negatività, esorti per paradosso le nuove generazioni alla passione e alla scienza del patrimonio storico delle nostre vecchie e nobili nazioni».

 

“Il Mondo Nuovo”. Lei ha scelto il titolo di un dipinto del Tiepolo come incipit del suo “Lo Stato culturale” (Adelphi), saggio che ha suscitato un acceso dibattito in tutta Europa…

«Quest’affresco di Giandomenico Tiepolo, oggi a Ca’ Rezzonico, mi ha sempre affascinato. Questa folla di passanti visti di spalle e che sgomitano – per vedere mai cosa: uno spogliarello, una lanterna magica, un illusionista? – è la versione settecentesca della caverna di Platone e la prefigurazione del mostruoso aumento degli spettatori rapiti di quest’antica caverna attraverso i miliardi di schermi attuali, televisivi o portatili. Il pittore veneziano ha compreso tutto. L’illuminismo, che si considerava come educazione e liberazione dell’individuo, sarà beffato e stravolto dalle tecnologie generate dalla scienza dei Lumi: i mezzi di comunicazione di massa e i mezzi di distruzione massiccia».

 

Daniele Zappalà

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fonte:www.avvenire.it/Cultura/Pagine/la-buona-novella-dell’europa.aspx

 

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