«Verrà un tempo in cui il quadro non basterà più: la sua immobilità sarà un anacronismo nel movimento vertiginoso della vita umana», afferma Umberto Boccioni in una conferenza del 1911. Potremmo partire da queste parole per attraversare le sale di Ca’ Corner della Regina, a Venezia, dove è allestita «The Small Utopia. Ars multiplicata», a cura di Germano Celant, promossa dalla Fondazione Prada (da oggi al 25 novembre). Una mostra esemplare, che salda rigore metodologico e originalità critica. Un itinerario sofisticato, che propone una rilettura di significativi continenti dell’arte del XX secolo.
Documentando la stagione delle prime e delle seconde avanguardie (dal 1901 al 1975), il percorso non segue un andamento cronologico. Ma indugia su poetiche, stili, tendenze: dal futurismo al costruttivismo, dal dadaismo al Bauhaus, dal neoplasticismo al surrealismo, dal Nouveau Réalisme all’optical, da fluxus alla pop art. Costellata di circa 600 tra multipli, prototipi ed edizioni rare, la narrazione espositiva ruota intorno a tre «atteggiamenti» prevalenti. Innanzitutto, ci imbattiamo in autori come Balla, Depero, Malevic, Rietveld, la Delaunay, Albers e Alviani, i quali sottolineano l’importanza della «diffusione estetica», misurandosi con generi come il protodesign (o artigianato di lusso), l’arredamento, la moda, l’editoria (libri e copertine di dischi). Poi, incontriamo personalità come Marinetti, Russolo, Savinio, Schwitters, Moholy-Nagy, Fischinger, Ruttmann, Cage, Rotella e Whitney, che utilizzano media come radio, musica e cinema. Infine, scopriamo voci come Duchamp, Man Ray, Beuys e Oldenburg, che, influenzate dalla civiltà industriale, affrontano la sfida della produzione in serie, realizzando opere simili a gadget o a sculture da viaggio (Duchamp, nella «Boîte en valise», raccoglie in scala ridotta alcuni tra i suoi più celebri ready made).
Addio unicità, irripetibilità, eccezionalità. I miti novecenteschi sono altri: serialità, moltiplicazione, replica. Pur con accenti diversi, gli artisti selezionati in «The Small Utopia» sono accomunati da alcune «necessità». Nell’epoca della riproducibilità tecnica, essi ripensano radicalmente la loro stessa identità. Sembrano non inseguire più il «capolavoro»: un’opera non è solo un quadro o una scultura. Mettono in crisi antiche convinzioni idealistiche: non giudicano più la manualità come un valore indispensabile. Si comportano come «mediatori», che elaborano reti di relazioni e di opportunità, in un serrato dialogo con il loro ambiente e con il loro tempo.
Si pensi all’ambigua esperienza degli animatori delle avanguardie, i quali sembrano muoversi tra due poli. Per un verso, sostengono «messaggi poetici» spesso elitari, impopolari, talvolta ermetici, oscuri, addirittura iconoclasti. Per un altro verso, modellano utopie: progettano scenari ulteriori, esercizi visionari, prefigurando possibili paesaggi futuri. Da un lato, fuggono il mondo. Dall’altro, provano ad aderirvi. Abbandonano i luoghi istituzionali (musei e gallerie), per secolarizzare le loro azioni e il loro stile. Inseguono una bellezza «a portata di mano»: non più trascendente, ma immanente. Vogliono entrare (finalmente) nel corpo della società. Promuovono una democratizzazione dell’arte. Trasgrediscono l’aura, intesa, per dirla con Benjamin, come «apparizione di una lontananza», fino a celebrare il «potere della vicinanza». Sembra compiersi la profezia di Valéry in uno scritto del 1928: «Le opere acquisteranno una sorta di ubiquità. (…) Come l’acqua, il gas, la corrente elettrica giungono da lontano nelle nostre case per rispondere ai nostri bisogni (…), così saremo alimentati da immagini visive o uditive, che appariranno e spariranno al minimo gesto».
Immagini visive e uditive. Ma anche oggetti e suoni. Componendo una archivio di eterogenee reliquie moderne, «The Small Utopia» fa emergere con efficacia due fenomeni contrastanti. La smaterializzazione, cui alludono i fotogrammi astratti e le sonorità sincopate nella sezione dedicata al cinema e alla musica (curata da Antonio Somaini con Marie Rebecchi). E l’ipermaterializzazione propria della ricerca di alcuni artisti che decidono di «rifare» in tanti esemplari le loro opere, in modo da arrivare ovunque. È il caso di Duchamp, e dei suoi ready made: oggetti banali (un igienico o uno scolabottiglie) che vengono defunzionalizzati, e poi «risemantizzati» e tirati in più copie. Ed è il caso di Warhol, e dei suoi Brillo Box.
Eppure, in filigrana, si intravedono tante aporie. Gli autori scelti da Celant sembrano oscillare tra sentimenti diversi: entusiasmo e disincanto. Sorretti dalla volontà di «ricostruire l’universo» (come avevano auspicato Balla e Depero), vogliono uscire da castelli protettivi, per trasformare la loro pratica in evento collettivo. Sognano un’arte per tutti, democratica: un’avanguardia di massa. E, tuttavia, non riescono a portarsi al di là di soluzioni elitarie e intellettualistiche: continuano a ragionare da pittori e da scultori. Vogliono adeguarsi alle regole della società di massa, mirando però a salvaguardare il loro «temperamento» anarchico, irrequieto. In molti casi – come fanno i nouveau réalistes e lo stesso Duchamp – ricorrono all’artificio della «ripetizione differente»: propongono serie di opere, caratterizzate da lievi differenze e da minimi cambiamenti, trasgredendo i principi della standardizzazione su cui si basano linguaggi come il design.
Dunque, un catalogo di «piccole utopie». Che sembra evocare il naufragio dell’avanguardia, il cui destino resterà sempre meravigliosamente incompiuto, irrealizzato, irrisolto. In bilico tra l’interesse per i modi di un’arte popolare e la segreta attrazione per quella che rimane la più grande ambizione di ogni artista autentico: la tensione verso il capolavoro. Verso l’opera unica, irripetibile, intemporale, senza prezzo. Tornano alla memoria le parole di Robert Hughes: «Difendere ciò che è inestimabile: che programma!».
Vincenzo Trione
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