I giornali? La ricetta della Columbia

Questa storia la cominciamo dalla fine: «Il giornalismo sopravviverà alla morte delle sue istituzioni», dicono alla Columbia University di New York. A parte la rassicurazione un po’ macabra, tutto il resto è da vedere. Quale giornalismo sopravviverà, quali istituzioni spariranno, cosa prenderà il loro posto. È un giallo che interessa ai professionisti, perché si giocano i loro posti di lavoro, ma anche al pubblico, chiamato a decidere quale informazione vuole in futuro.

 

Quest’anno la Journalism School della Columbia, che assegna i premi Pulitzer, compie cent’anni. Quindi nel finesettimanahainvitatogliexalunni, per celebrare e riflettere sul futuro. Il quadro è noto: Internet e i social media hanno rivoluzionato il nostro mondo, tutti leggono le notizie gratis in rete, ogni blogger ci fa concorrenza, le vendite dei giornali di carta diminuiscono, i costi aumentano e le entrate pubblicitarie calano, pure sui siti, per la crisi economica ma non solo. Non è una tempesta passeggera: quando arriverà la ripresa, non si tornerà più al passato. E questo vale pure per la tv.

 

Le domande a cui si cerca ancora risposta sono due: il contenuto, e il modello. Il preside Nicholas Lemann offre una ricetta essenziale: «Il giornalismo del futuro sarà specializzato e digitalizzato». Specializzato, perché l’informazione generale si trova gratis ovunque: se uno vuole essere pagato per il suo lavoro, deve offrire qualcosa di specifico che non esiste altrove. In questo senso, i media hanno interesse a trasformare i loro giornalisti in «brand»,promuovendola firma, mandandoli in tv, costruendo blog. Così si monteranno la testa e chiederanno più soldi, ma creeranno una fidelizzazione dei lettori essenziale per continuare a vendere il prodotto.

 

Il giornalismo poi sarà digitalizzato, perché il futuro è nella rete. «Fare e comprare i giornali di carta – dice Phil Balboni, presidente di GlobalPost – non ha più senso». Un professore, che lasceremo anonimo per il suo bene, si azzarda anche a prevedere quando vedremo in edicola l’ultima copia del New York Times : «Alla morte dell’ultimo rappresentante della generazione che oggi ha quarant’anni. Tutti i lettori nati dopo non sono cresciuti con la carta e non la vogliono più». Sreenath Sreenivasan, guru dei new media che ormai a Columbia non chiamano nemmeno più «new», aggiunge un terzo punto ai consigli del preside: «Il giornalismo sarà socializzato, perché è essenziale promuovere il contenuto oltre i limiti della propria testata. Stare o no sui social media farà la differenza tra chi esisterà ancora fra cinque anni, e chi invece sparirà».

 

Se questo è il quadro,con quali contenuti va riempito? «Ormai – dice l’amministratore dei premi Pulitzer Sig Gissler – noi insegniamo tradigital journalism », ossia un mestiere che usa gli strumenti tradizionali del giornalismo, per le piattaforme digitali. «Un tempo – aggiunge il professor Ernest Sotomayor gli studenti arrivavano a Columbia con l’obiettivo di trovare posto in un giornale che aveva sede a Times Square. Ora invece vengono con una curiosità, una passione, un tema di cui vogliono occuparsi, e cercano di imparare le tecniche giornalistiche per farlo. Una volta acquisite queste capacità, trovano loro il modo di esercitarle». Questo non significa che se chiama il New York Times rispondono no, però vanno solo se possono scrivere della cosa che interessa a loro, e probabilmente a una fetta di pubblico che il Times vuole conquistare attraverso la loro competenza.

 

Altrimenti fanno come David Cohn, che ha fondato Spot Us, una piattaformaperi freelance. Un giornalista propone un pezzo: voglio fare un’inchiesta su come New York gestisce i rifiuti. Spot Us lo suggerisce alla comunità degli utenti, chiedendo donazioni per finanziare l’inchiesta. Anche un dollaro, tutto serve. Se si raggiunge la cifra necessaria, l’inchiesta comincia. Crowd sourcing ecrowdfunding, insomma, finanziamenti dai lettori. Così arriviamo ai nuovi modelli, e alla responsabilità del pubblico per salvare l’informazione di qualità. Se i giornali devono sopravvivere online, come prima cosa serve una tecnologia veloce per fare micropagamenti e leggere articoli con un clic.

 

I paywall, sistemi di pagamento come quello che ha alzato il New York Times raccogliendo quasi mezzo milione di utenti, dovrebbero dare agli iscritti lo status di «membri» del giornale, come fa il Los Angeles Times, coinvolgendoli così anche nella realizzazione del prodotto. Alla pubblicità tradizionale si potranno aggiungere indagini di mercato richieste a pagamento da aziende che vogliono informazioni sui clienti, come fa già Google. Questa convergenza tra tech emedia company è insieme promettenteepreoccupante. Le grandi compagnie tecnologiche, Facebook, Google, Apple, Twitter, sono già anche media company : con i soldi che ha, se domani Mark Zuckerberg volesse creare il suo Times , o comprarselo, sarebbe un gioco. Ma i lettori accetteranno queste enormi techcompany comeeditori?All’inverso, i grandi media potrebbero cominciare a sviluppare applicazioni, per fare soldi nel settore tecnologico da usare poi per finanziarie le attività editoriali.

 

Tutto bene. Ma perché questa storia dovrebbe interessare alla gente, che semmai ha il problema di un bombardamento incessante di informazioni? La domanda va girata sulla qualità, e si risponde solo con le parole di Joseph Pulitzer, quando propose di creare la scuola di giornalismo alla Columbia: «La nostra Repubblica e la sua stampa cresceranno o cadranno insieme. Una stampa capace, disinteressata e dotata di spirito pubblico, con l’intelligenza per riconoscere il giusto e il coraggio di farlo, potrà preservare la pubblica virtù senza di cui il governo popolare è una burla e una parodia. Invece una stampa cinica, mercenaria e demagogica, produrrà nel tempo un popolo spregevole come sé stessa».

 

PAOLO MASTROLILLI

INVIATO A NEW YORK

Fonte: www3.lastampa.it

 

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