Giona profeta troppo umano

È sorprendente pensare come il piccolo libro di Giona abbia ispirato un’infinità di testi patristici, liturgici e iconografici, a cominciare dal momento neotestamentario sino e oltre il Medioevo, assurgendo a livello di paradigma specialmente nelle manifestazioni figurative che nel periodo paleocristiano raggiungono uno strabiliante guinness: oltre quattrocento unità monumentali solo per il periodo che dal iii giunge al v secolo.

Un tema amato nella lunga durata, dunque, la cui fortuna può essere spiegata in mille maniere e che fa riferimento a una storia raffinata, che si propone più come un racconto esemplare che come un vero e proprio testo profetico. Il profeta non è l’autore del libro, non parla in prima persona, non è il protagonista di una visione, di un oracolo, ma rappresenta il motore involontario, quasi svogliato, di una missione e, in questo senso, viene descritto secondo i moduli ironici della satira che ne fanno un antieroe.

Il libro, insomma, vuole sostenere, in modo molto vivace, l’apertura “universalistica” che si stava introducendo in alcuni ambiti del giudaismo dopo l’esperienza dell’esilio babilonese e della diaspora di Israele in altre nazioni. Al centro della vicenda, comunque, non è il popolo giudaico, ma una città pagana e il Dio che muove tutta la vicenda non è quello severo che appare nel resto dell’Antico Testamento, ma un Dio misericordioso e universale. La figura di Giona, dunque, rappresenta un’eloquente metafora del “particolarismo” ebraico e, d’altra parte, anche il nome del profeta, che significa colomba, è un termine di paragone usato in Osea, 7, 11 per Israele “che si fa abbindolare senza discernimento”.

 

L’autore del libro rivolge contro questo Israele un’aspra satira, secondo cui Giona è un profeta indolente, egoista e lagnoso; un Israele che si occupa di sé in modo tanto sconvolgente, che sa di Dio tutto ciò che di lui si può sapere, ma solo controvoglia è disposto a fare un passo nella direzione di Dio, e che è tanto ripiegato su di sé da non riuscire a far altro che augurarsi di morire.

Tutto il senso del libretto – come osservò anni addietro Gianfranco Ravasi – è orientato verso quella domanda finale che esige una risposta da parte del profeta, del lettore e di tutto Israele: il Signore non deve avere comprensione di tutte le sue creature viventi e offrire la possibilità del riscatto dal loro male così da ottenere la salvezza? Il libro esalta, quindi, l’amore universale di Dio e la sua volontà di liberazione e di gioia per tutti gli uomini.

 

È per questo che il libro può essere “destoricizzato” e proiettarsi verso l’esegesi cristiana che inizia coi passi evangelici di Matteo, 12, 39-40 e di Luca, 11, 29-32, laddove viene richiesto a Gesù di fornire un segno per dimostrare di essere il Messia. Ebbene, Gesù risponde che “questa generazione” non avrà alcun segno se non il “segno di Giona”: i niniviti sorgeranno nel giorno del giudizio insieme a questa generazione e la condanneranno, perché essi alla predicazione di Giona si convertirono e qui c’è “ben più di Giona”. In Matteo, poi, si rivela il forte, eppure intuitivo, paragone intertestamentario che, forse, farà la vera fortuna del nostro racconto: “Come, infatti, Giona rimase tre giorni e tre notti nel ventre del pistrice, così il Figlio dell’Uomo resterà tre giorni e tre notti nel cuore della terra”.

 

Da questo detto lucano, si muove l’esegesi patristica, che conosce un primo precoce momento, tra il ii e il iii secolo, rappresentato da allusioni, stralci ed equivalenze cristologiche, ed un secondo momento, che si sviluppa tra il iv e il v secolo, che prende le mosse dall’opera perduta di Origene e inaugura la stagione dei Commentarii, che svolgono il grande tema della caduta di Israele in favore dell’allargamento della salvezza ai gentili.

 

Il primo momento vede gli apologisti – da Giustino a Tertulliano – impegnati in un’operazione antigiudaica e antieretica, che può essere sintetizzata da un veloce passaggio dell’autore cartaginese, laddove si evidenzia che “la preghiera innalzata da Giona nelle viscere del kètos, e subito esaudita dal Signore, è la prova che Dio ascolta il cuore dell’uomo e non la sua voce, mentre il digiuno dei niniviti per scongiurare la maledizione dimostra che esso è un mezzo indispensabile per ottenere il perdono divino” (De corona, 8, 2). E ancora, Clemente di Alessandria colloca il profeta accanto a Daniele e ai giovani nella fornace, tra i giusti salvati dal pericolo grazie all’intervento divino, sottolineando, nello stesso tempo, il modello di preghiera, fede e sopportazione e guardando ai niniviti come all’esempio lampante del pentimento e della condiscendenza (Stromata, 1, 123, 5).

 

L’intervento di Origene, come si diceva, amplia l’esegesi del libro ma nello stesso tempo stereotipizza alcune linee ermeneutiche che rendono conto delle discussioni teologiche e devozionali, dalle quali emerge il delicato rapporto tra presenza di Dio e libertà di azione dell’uomo nei confronti del peccato e anche il largo tema della misericordia, che arriva al culmine con la questione dei lapsi, già dopo la persecuzione deciana, come dimostra l’Ad Novatianum pseudociprianeo (12, 3), che rimprovera il vescovo scismatico di non voler perdonare chi si pente: così facendo egli rifiuta l’esempio offerto da Dio stesso che risparmiò i niniviti, nonostante le loro innumerevoli colpe.

 

Nella ricchissima esegesi cristiana – qui appena sfiorata – emerge, dunque, precocemente la lettura cristologica dei testi evangelici che identifica Giona e Cristo, lega la predicazione e la conversione e allinea la morte e la risurrezione. Queste piste ermeneutiche fanno di Giona un modello di peccatore redento e della conversione di Ninive una prefigurazione del messaggio salvifico. I due aspetti del simbolo – morte e risurrezione e peccato e redenzione – sono, in realtà, equivalenti e perfettamente sovrapponibili: la risurrezione è possibile solo grazie alla conversione.

 

Il viaggio del profeta è immagine del percorso di morte e rinascita che l’uomo compie in vita per poterlo ripercorrere dopo la morte. Giona, dunque, raccoglie in sé sia l’idea del giusto, del penitente e dell’orante salvato, sia quella della morte e della risurrezione di Cristo: la causa e l’effetto, la garanzia e la speranza della salvezza, il prototipo e il tipo.

Dal piano individuale si passa, poi, a quello collettivo: la conversione dei pagani, di cui i marinai e i niniviti sono esempio, serve a presentare la Chiesa come erede di Israele e a giustificare e a esaltare la missione evangelizzatrice presso le nazioni.

 

La fortuna iconografica del tema è assai precoce: la rapidità della diffusione, ma anche la diversificazione delle tipologie artistiche, che comportano la comparsa del tema anche negli avori, nelle gemme, nei vetri dorati, oltre che nella pittura, nei mosaici e nei sarcofagi, ci assicurano che la storia del profeta gretto e svogliato girava per tutto il mondo tardo antico.

Una fortuna che, prendendo avvio dalle catacombe romane, si allunga fino ai territori più lontani dell’orbis Christianus antiquus, sino al mausoleo di El-Bagawat in Egitto, sino al mausoleo costantiniano di Centcelles, sino ai pavimenti musivi delle chiese di Furnos Minus in Tunisia e di Beth Govrin in Israele, alle soglie dell’età bizantina

 

Questo ampio preambolo si configura, in realtà, come un contesto entro cui collocare un monumentale coperchio di sarcofago appena restaurato nel complesso funerario cristiano di Pretestato sulla via Appia Pignatelli, riferibile a un’officina romana sensibile alla lezione delle botteghe orientali e databile alla seconda metà del iii secolo.

Il coperchio conserva, a sinistra, il ciclo di Giona, di cui rimangono la scena drammatica dell’omicidio del profeta da parte dei marinai, che lo gettano nelle fauci dell’orribile cetaceo; quella che lo vede uscire prodigiosamente, e ancora vestito della tunichetta, dalle stesse fauci: quella che lo ritrae beato e pure vestito del medesimo indumento mentre riposa, come il mitico eroe Endimione, sotto la pergola del ricino.

 

A destra si sviluppa una curiosa scena di banchetto, con uno dei commensali che si toglie enfaticamente il mantello, rimanendo a torso nudo. Quest’ultimo particolare non è stato mai spiegato dalla critica, ma a mio modo di vedere, nel convitato si potrebbe riconoscere il re di Ninive. Infatti, se rileggiamo il passaggio del libro di Giona relativo alla conversione dei niniviti, si legge: “Giona cominciò a percorrere la città per un giorno di cammino e predicava: “Ancora quaranta giorni e Ninive sarà distrutta”. I cittadini di Ninive cedettero a Dio e bandirono un digiuno, vestirono il sacco, dal più grande al più piccolo. Giunta la notizia fino al re di Ninive, egli si alzò dal trono, si tolse il manto, si coprì di sacco e si mise a sedere sulla cenere” (3, 1-6)

 

Questa nuova ipotesi di lettura allarga il panorama iconografico, che si ispira alla grande epopea del profeta negligente, umano, severo, che fece il biglietto per Tarsis, per la fine del mondo, per Gibilterra, piuttosto che obbedire all’ordine di Dio, di quel protagonista di mille prodigi e fantasiose peripezie, talché finì persino nella pancia di un cetaceo, prefigurando quanto accadde a Pinocchio.

 

di Fabrizio Bisconti

(©L’Osservatore Romano – 2 agosto 2009)

http://famigliacattolica.freeforumzone.leonardo.it/discussione.aspx?idd=8717254

 

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