L’esperienza di Dio vivo in san Giovanni della Croce
Se qualcosa caratterizza il nostro autore è la maniera di coniugare la sua passione per evidenziare l’infinità di Dio, la sua diversità di fronte ad ogni creatura e, nello stesso tempo, la chiarezza con cui parla della sua forte vicinanza, del rapporto familiare che egli riserva sempre all’essere umano.
La sovranità di Dio che nobilita l’uomo.
Dire che Dio è trascendente nelle parole di san Giovanni della Croce è affermare «che Dio è supremo, illimitato e appartiene a un altro ordine e qualità di essere; e che conseguentemente supera tutte le nostre categorie di comprensione e linguaggio, per essere fatti con elementi della realtà inferiore, che non gli assomiglia. Né le realtà che percepiamo, né le immagini o idee che costruiamo a partire da loro, hanno somiglianza sostanziale con Dio; e, pertanto, non possono servire “da mezzo prossimo e immediato” per unire l’uomo a Dio. Questa è la posizione fondamentale di fra Giovanni, che corrisponderebbe a ciò che oggi definiamo trascendenza di Dio»¹.
Forse il testo nel quale Giovanni della Croce ha trattato meglio la trascendenza di Dio è il quarto capitolo del primo libro della Salita al Monte Carmelo. In esso, dopo aver affermato categoricamente che «tutto l’essere delle creature, messo a confronto con l’infinito essere di Dio, è nulla»², va enumerando, come in una cascata, ciascuno degli attributi che abbelliscono e nobilitano le cose create, mostrando che, quand’anche queste sono poste al massimo grado, nulla sono di fronte a Dio: né la bellezza, né la grazia e l’eleganza, né la bontà, né la saggezza, né la signoria e la libertà, né i piaceri e i gusti della volontà, né le ricchezze e glorie di tutto il creato hanno confronto con la bellezza, la grazia e l’eleganza, la bontà, la sapienza, la signoria e la libertà, i piaceri e i gusti della volontà, le ricchezze e le glorie divine.
In questa chiave bisogna intendere il processo della notte oscura, per la quale, secondo san Giovanni della Croce, passano quelli che cercano il volto del Dio vivo, del Dio vero; così ce lo spiega in questo stesso capitolo quarto del primo libro della Salita. Chi arriva a Dio – chi vuole prendere coscienza del fatto che Dio arriva a lui -, deve svuotarsi da tutte quelle immagini false, deve smettere di sperare da Dio cose troppo umane, deve accettare la sfida di unirsi a ciò che non conosce, a ciò che lo supera assolutamente, a ciò che lo trascende, a ciò che non può dominare né controllare.
Avventurarsi in queste condizioni è accettare l’oscurità e la sofferenza, che ci causa l’incomprensibile, ma non vi è rimedio: la ragione sta nel fatto che due opposti, come ci insegna la filosofia, non possono stare in uno stesso individuo. Per lasciare spazio al Dio vero, pertanto, dovremmo far sloggiare gli idoli, quelle false immagini di Dio cui facevamo riferimento prima o, per meglio dire, dovremmo lasciare che sia Lui a cacciarli.
L’immenso Padre vuole rendere l’uomo uguale a se stesso. Giovanni della Croce, quando difende la trascendenza di Dio, lo fa per le conseguenze che questo ha per l’uomo. Non si tratta di rispettare o adorare un potere dell’aldilà per stupirsi e atterrirsi davanti al sospetto della sua presenza. Si tratta di esporre la grandezza e l’altezza di Dio perché così resta più chiara la grandezza e l’altezza dell’uomo alla cui unione Egli chiama. Avere un’idea così bassa di Dio, ci dice in fondo Giovanni della Croce, è avere un’idea altrettanto bassa dell’uomo.
Fare dio un idolo è disporsi a identificarsi con questo idolo, impoverendosi, dando una misura più bassa a ciò che noi siamo capaci di dare, vanificando il progetto di Dio nei nostri confronti, e mandando a monte così la pienezza della felicità. Citando opportunamente il testo evangelico di Matteo 15, 26- «Non è bene dare il pane dei figli ai cani» – , dice san Giovanni della Croce: «Nostro Signore paragona ai figli di Dio coloro che, rinnegando gli appetiti delle creature, si dispongono a ricevere puramente lo spirito divino, e ai cani coloro che vogliono soddisfare i loro appetiti nelle creature; perché ai figli è dato di mangiare a tavola e dello stesso piatto del Padre, cioè di pascersi del suo spirito, e ai cani le briciole che cadono dalla mensa»³.
Il Dio trascendente di Giovanni della Croce non cerca la nostra venerazione o accettazione timorosa o irrazionale, non è un potere onnicomprensivo davanti al quale inchinarsi supplicando che non scarichi su di noi la collera del suo arbitrio. Il Dio trascendente invita l’uomo alla vita divina, gli illumina e, per lui, rende manifesto ciò che nell’uomo ha poco a che vedere con la maestà, la trascendenza, la libertà divine… La luce della sovranità divina mette in rilievo le nostre ingiustizie, le nostre paure, le nostre affezioni e le loro conseguenze tante volte terribilmente negative per i nostri fratelli. E ci purifica di essi per dire sì a tutto ciò che possiamo essere in un progetto di libertà e di liberazione: «Resta, dunque, da dire adesso che questa notte oscura, benché ottenebri lo spirito, non lo fa se non per dare luce a tutte le cose; e, benché lo umili e lo renda miserabile, non lo fa se non per esaltarlo ed elevarlo; e benché lo renda povero e vuoto di ogni possesso e affetto naturale, non lo fa se non perché si possa divinamente espandere a godere e gustare tutte le cose celesti e terrene, essendo in grande libertà di spirito in tutto»4.
Affermare la trascendenza e la sovranità di Dio è, pertanto, invitare l’uomo ad una libertà vera, ad un progetto di realizzazione che è felicità e pienezza, che rende l’essere umano simile a Dio: «Questa è l’adozione dei figli di Dio, che in verità diranno a Dio ciò che lo stesso Figlio dice all’Eterno Padre in San Giovanni: Tutte le cose mie sono tue, e le tue sono mie (17, 10). Egli per essenza, per essere Figlio naturale, noi per partecipazione, per essere figli adottivi. E così Egli dice ciò non solo per sé, che è il capo, ma per tutto il suo corpo mistico, che è la Chiesa. La quale parteciperà alla stessa bellezza dello Sposo nel giorno del suo trionfo, che sarà quando vedrà Dio faccia a faccia»5.
La dignità e la maestà di Dio a questo punto cambia dignità e maestà all’uomo. Condizione necessaria per raggiungerla è la confessione del Dio vivo, non solo a parole, ma anche in opere, che includono l’abbandono delle false immagini di dio, dei nostri idoli. La rimostranza del Santo è dura nei confronti di coloro che sono incapaci di liberarsene: «O anime create per queste grandezze e ad esse chiamate, che cosa fate? In che cosa vi intrattenete? Le vostre aspirazioni sono bassezze e i vostri beni miserie. O misera cecità degli occhi dell’anima vostra, poiché dinanzi a tanta luce siete cechi e dinanzi a così grandi voci sordi, senza accorgervi che mentre andate in cerca di grandezze e di gloria rimanete miseri e vili, ignari e indegni di tanto bene!»6.
La tradizione filosofica e teologica ha usato spesso la via che porta dal creato a Dio; osservando la bellezza della creazione, si dice, è facile arrivare a conoscere la grandezza dell’Artefice. Giovanni della Croce ci propone una via migliore: arrivare a conoscere come è realmente Dio, per conoscere meglio la realtà e il mondo, trovandoci in Lui e davanti agli altri in modo adeguato. Solo dopo aver conosciuto chi è Lui, potremo conoscere con certezza chi siamo noi: «E questo è il grande diletto di questo ricordo: conoscere attraverso Dio le sue creature, e non attraverso le sue creature conoscere Dio; il che è conoscere gli effetti attraverso la loro causa e non la causa attraverso gli effetti, il che è conoscenza essenziale successiva e altra»7. «Le cose diventano divine e trasparenti senza naturalizzarsi. Continuando ad essere ciò che erano, nello stesso tempo che acquisiscono una emanazione dell’essere di Dio. Ciascuna ha la sua bellezza e il suo canto, e tutte insieme esultano in un’armonia universale».
Ancor più, se Dio è infinita trascendenza, se Dio è l’assolutamente altro, esiste una reale possibilità di conoscerlo, di accedere a Lui? Giovanni della Croce parla della trascendenza di Dio, lo fa per fedeltà al Dio vivo e rivelato, e anche per mostrare all’uomo quale è la grandezza della vocazione alla quale è stato chiamato. Però se Dio sta sopra il cielo e parla in cammino di eternità, come potrà l’essere umano avvicinarsi a Lui, visto che cammina per le vie della carne e del tempo?
Un Dio ferito d’amore per l’uomo
«Se misuriamo la trascendenza o totale alterità di Dio in relazione all’uomo nella distanza geografica possiamo dire: sembra molto difficile che una persona possa superare con la sua voce la distanza, per esempio, di venti chilometri per lasciarsi sentire. Non vi è voce che superi questa distanza. Due persone a questa distanza avrebbero un dialogo impossibile. Ebbene, sappiamo che la distanza di Dio rispetto all’uomo non si misura in termini geografici; però sappiamo anche che le distanze personali e qualitative sono più profonde e insuperabili rispetto alle distanze geografiche. Se Dio è totalmente altro, come può parlare con l’uomo? E come può questo ascoltare Quello? La risposta negativa spiegherebbe perché molti dicono che Dio non ci parla, che il silenzio di Dio si tramuta in un muro invalicabile che nessuno contesta»9.
Eppure l’uomo credente cerca Dio, confida nella possibilità di strappare il velo dell’incontro, di aprirsi ad una presenza che intuisce, riconoscendo la sua trascendenza e infinità:
«Come la cerva anela
ai corsi d’acqua,
così l’anima mia anela
a te, o Dio.
L’anima mia ha sete di Dio,
del Dio vivente:
quando verrò e vedrò
il volto di Dio?»
(Sl 41, 2-3).
Il Dio di cui ci parla San Giovanni della Croce non è un Dio filosofico né metafisico, un Dio frutto di lambiccati ragionamenti. È il Dio della rivelazione biblica, che l’uomo cerca ansiosamente:
«Dove ti nascondesti,
o Amato, e mi lasciasti in gemiti?
Come il cervo fuggisti,
dopo avermi ferito;
ti uscii dietro gridando
ed eri andato via.»
(Cantico Spirituale, strofa I).
Giovanni della Croce lo ha spiegato in modo molto realistico anche in prosa, commentando la strofa 12 della seconda redazione del Cantico Spirituale: «In tal modo si trova ad essere l’anima in questo tempo, che, sebbene in poche parole, non voglio tralasciare di parlarne, anche se non è possibile esprimerlo a parole. All’anima sembra che la sostanza corporea e spirituale le si dissecchi per la sete di questa fonte viva di Dio, perché quando dice: Come la cerva anela ai corsi d’acqua, così l’anima mia anela a te o Dio. L’anima mia ha sete di Dio, fonte viva; quando verrò e mi presenterò davanti al volto di Dio? (Sl 41, 2-3) […]. Perché stimerebbe nulla sopportare tutte le difficoltà del mondo, le furie dei demoni e le pene dell’inferno, pur di immergersi in questa fonte abissale di amore»10.
Coloro che badano esclusivamente all’infinità di Dio, che si traduce per l’uomo in sofferenza e lontananza durante la notte oscura, definiscono insaziabile questa sete, ed eterna l’agonia della persona che «vede che sta arrivando vicino a gustare quel bene e non glielo danno»11.
Questi tali dimenticano una conseguenza che nasce da questa infinità, sulla quale insiste con tanta o maggiore energia san Giovanni della Croce nella sua opera. Una infinità di radice biblica che ci parla del profondo amore di Dio per l’uomo, che si risolve in un desiderio infinito di comunicarsi, perché Dio è amore espansivo, ed è a favore dell’uomo, desideroso di saziare la sua sete, di curare la sua ferita e la sua agonia.
Così lo esprime in maniera eccellente Giovanni della Croce: «Torna da me – dice Dio l’amato all’amata del Cantico -, che sono colui che tu, piagata d’amore, cerchi; anche io, come il cervo ferito dal tuo amore, comincio a manifestarmi a te per mezzo dell’alta contemplazione, e io prendo piacere e refrigerio nell’amore della tua contemplazione»12. E, più avanti, afferma: “Così fa ora lo Sposo, perché vedendo la sposa ferita dal suo amore, anch’egli, al suo gemito, viene ferito dall’amore di lei; poiché negli innamorati la ferita dell’uno è ferita di entrambi, e i due hanno uno stesso sentimento. E così è come se dicesse: «Torna da me, o sposa mia, poiché se tu sei stata ferita dall’amore mio, anch’io, come il cervo, ferito da questa tua piaga, vengo a te»13.
Per il Santo, dunque, il Dio vivo manifesta esattamente la sua infinità in maniera particolare nell’ora di percorrere il cammino che lo separa dall’uomo: «Bisogna sapere che se l’anima cerca Dio, molto di più la cerca l’Amato; e se lei gli invia i suoi amorosi desideri, che per lui sono tanto profumati quanto il fumo che esce dalle specie aromatiche della mirra e dell’incenso (Cant 3, 6), egli le invia l’odore dei suoi unguenti, con i quali la attrae e la fa correre verso di lui (Cant 1, 2-3), i quali sono le sue divine ispirazioni e i suoi tocchi; i quali, a patto che siano suoi, devono essere conformi e regolati a causa della perfezione della legge di Dio e della fede, per la cui perfezione l’anima deve avvicinarsi sempre di più a Dio»14.
Questa ricerca, di cui è protagonista Dio, ha come obiettivo di donarsi all’uomo, addirittura sottomettersi a lui, con lo scopo di instradarlo e accompagnarlo nel compito della trasformazione, con un amore ineffabile e incomparabile, che è l’essenza di Dio; del Dio rivelato e del Dio vivo di cui ci parla – e ha sperimentato – Giovanni della Croce: «In questa unione interiore Dio si comunica all’anima con amore così vero che non vi è affetto di madre che con tanta tenerezza accarezzi suo figlio, né amore di fratello né amicizia di amico che gli si possano equiparare; perché per giunta arriva a tanto la tenerezza e la sincerità dell’amore con il quale l’immenso Padre delizia e nobilita questa anima umile e amante – o cosa meravigliosa e degna di ogni timore e ammirazione! – che si sottomette a lei veramente per elevarla,come se egli fosse il suo servo e lei fosse il suo signore. Ed è così sollecito a deliziarla, come se egli fosse il suo schiavo e lei fosse il suo Dio, tanto profonda è l’umiltà e la dolcezza di Dio! Perché egli in questa comunicazione d’amore in qualche modo pratica quel servizio che, come dice nel Vangelo, riserverà ai suoi eletti in cielo, vale a dire che, cingendosi la veste, passando dall’uno all’altro, li servirà (Lc 12, 37). E così qui sarà impegnato a deliziare ed accarezzare l’anima come la madre serve e delizia il suo bambino, nutrendolo al suo stesso petto. In ciò l’anima comprende la verità del detto di Isaia, che dice: Al petto di Dio sarete allattati e sulle sue ginocchia sarete accarezzati (66, 12)15.
Il Dio vivo di san Giovanni della Croce, dunque, si rivela a noi, come il Dio biblico, immenso come innamorato dell’uomo e amore che si fa immenso nella capacità di dedizione e servizio verso chi ama. Vicinanza, tenerezza ed esigenza si mescolano in questa esperienza di Dio sangiovannea in cui l’uomo è chiamato alla solitudine e al distacco da tutto ciò che non è Dio per trovare il tutto che è Dio.
L’esperienza di fede non è più accettazione di un potere incomprensibile che si rispetta o, meglio, si teme. La vita religiosa dell’uomo non è osservanza di un ordine che a malapena comprende per paura del castigo o desiderio di guadagnare un premio, il cielo, misteriosa ricompensa che tante volte si ritiene come una continuazione non dolorosa della nostra esistenza sulla terra.
La fede rimane assorbita dall’amore e la relazione tra Dio e l’uomo è, definitivamente, la storia di un amore, di una passione piena di gioia, di tenerezza e di esigenze, le esigenze dell’amore, che competono alla persona tanto quanto a Dio16: «Lo Sposo, oltre ad amare molto la solitudine dell’anima, è ferito molto di più dall’amore di lei perché essa ha voluto restare sola da tutte le cose, giacché era ferita dall’amore di lui, e così egli non ha voluto lasciarla sola, ma, ferito da lei per la solitudine che essa vive a causa di lui, vedendo che non trova piacere in nessuna altra cosa, egli solo la guida verso se stesso, attraendola e assorbendola in sé, cosa che non avrebbe fatto in lei, se non l’avesse trovata in solitudine spirituale»17.
Questa esperienza di scambio d’amore, di profondo amore, potrebbe rimanere allo stato di disquisizione meravigliosamente romantica, ma tanto vuota quanto inconcepibile, se non fuori luogo perché, come ci informa la Scrittura e constata Giovanni della Croce, l’amore dell’immenso Padre ha preso forma umana, si è rivestito di atti e parole nella persona di Cristo Gesù. Dio si fa uomo in Cristo e così ci rende più divini e, dunque, più umani.
di padre Emilio J. Martinez González ocd – traduzione di Cettina Spoto ocds
(Continua)
Note:
1 F. RUIZ, Mistico y Maestro san Juan de la Cruz, Editorial de Espiritualidad, Madrid, 1984, 118.
2 1 S 4, 4.
3 1S6, 2.
4 2N 9, 1.
5 CB 36, 5.
6 CB, 39, 7.
7 LB 4, 5.
8 F. RUIZ, Mistico…, 121.
9 A. GUERRA, Oración…, 79.
10 CB 12, 9.
11 CB 12, 9.
12 CB 13, 2.
13 CB 13, 9.
14 LB 3, 28; CB 1, 1ss; 2, 4; 9, 1, 13, 9; D 2.
15 CB, 27, 1.
16 Il Dio di san Giovanni della Croce è un Dio di alleanza, non legislativa o politica, ma piuttosto alleanza d’amore, di stile profetico.
17 CB 35, 7.
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