Disconnect

Giaccardi: «La tecnologia, facile capro espiatorio per i nostri fallimenti relazionali»
L’uscita in Italia di Disconnect, nuovo atto di accusa del cinema verso il mondo digitale, ci impone in realtà una riflessione sulle nostre responsabilità di adulti e di educatori.

Non esiste un grande rapporto tra cinema e nuove tecnologie. Ad esempio, rare sono le volte che la rappresentazione del mondo di internet e dei social media in particolare non si sia tinta sul grande schermo di tonalità apocalittiche o comunque negative. In questo senso Disconnect, l’opera di Henry Alex Rubin che attraverso una serie di storie di disgregazione interpersonale dovuta ai vari aspetti della rete invita a “disconnettersi” per ritrovare l’autenticità dei rapporti, è solo l’ultimo caso. Un caso, però, che farà molto discutere. Aleteia ha deciso di anticipare i tempi, e di chiedere a Chiara Giaccardi, docente di Sociologia e antropologia dei media presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, il suo parere sul “disfattismo” con cui spesso i film raccontano il mondo del digitale.

Il cinema tende ad essere molto critico nei confronti del mondo del web e, paradossalmente se vogliamo dal momento che ne è imbevuto, del mondo digitale. Secondo lei qual è la ragione?

Giaccardi: Io credo che ciò avvenga per due ragioni fondamentali. Una è la semplificazione: è sempre molto facile semplificare le questioni se le si radicalizza, e quindi una rappresentazione totalmente negativa è più chiara ed immediata. Ma soprattutto la ragione principale è che il cinema dà voce alle ansie sociali, e questa è sicuramente un’ansia sociale. Questi due motivi insieme producono un effetto che secondo me non aiuta a vivere meglio nell’era digitale. Non ho visto Disconnect, ma ne ho letto la trama e mi sembra la questione sia come al solito impostata in termini quantitativi: cioè, chi rimane troppo connesso è patologico e quindi è disconnesso dalle relazioni reali. Questa è un’immagine prima di tutto semplificata; in secondo luogo, generazionale, perché incarna la reazione degli adulti che o non conoscono il web e i social network, o li usano male loro stessi, perché la percentuale di adulti su Facebook è molto aumentata, spesso per il bisogno di crearsi unsecond self. E poi la questione più radicale è l’assolutizzazione di una delle dimensioni della contemporaneità, che è quella digitale, e quindi la traduzione deterministica dell’impatto di questa variabile. Ma in realtà quella contemporanea è un’era molto più complessa, dove il digitale è certamente una componente, ma poi è ad esempio un’era globale, dove abbiamo il Papa che viene dall’altra parte del mondo. E questo ha avuto un impatto fortissimo: la globalizzazione non è meno importante della digitalizzazione, eppure non se ne parla più perché è diventato un elemento scontato. E così dovrebbe essere per il digitale: è inutile continuare a ripetere: il digitale ci fa male, ci dobbiamo disconnettere e disintossicare, come se fosse una questione quantitativa. La questione è qualitativa: non come limitare i danni, ma come vivere bene nell’era del digitale, del globale, del multiculturale, e così via.

Dunque c’è un errore d’impostazione nell’affrontare questo problema?

Giaccardi: Senz’altro. Io credo che in realtà la questione fondamentale che non si vuole affrontare sia quella dell’individualismo. È chiaro che l’individualismo estremo, dove l’Altro è uno strumento, un ostacolo o qualcuno da temere in quanto Altro trova dei punti di sfogo o di fuga. Ma la questione non è nel digitale o nel terrestre, la questione è nell’impostazione culturale. È l’individualismo il pericolo: prima del web, prima del fatto che ciascuno a tavola messaggia o whattsappa con altri che sono lontani c’era il guardare la televisione o il leggere il giornale invece che parlarsi. Tutto questo dunque non è la causa, semmai è il sintomo di una difficoltà di relazione. Quindi non è disconnettendosi, come si indica con la metafora un po’ sempliciotta del digital detox il bisogno di ritagliarsi degli spazi di vita autentici, come se la vita faccia a faccia fosse autentica e l’altra inautentica. Questi dualismi sono un po’ ingenui e naif, volutamente ipersemplificati. È più comodo trovare in questi luoghi il capro espiatorio di una serie di questioni che invece non si vuole affrontare diversamente, tipo quella di un individualismo estremo, della cultura dei diritti, della difficoltà della relazione con l’altro. Si parla di disconnessione facile, ma perché nella vita non siamo in grado di tollerare l’impegno nella relazione, della cura, di tutto ciò che ci coinvolge e ci chiede del tempo. Dunque questo è solo il sintomo di un problema culturale molto più vasto, ed è quello che va affrontato. Insomma, l’aspirina toglie il mal di testa ma non guarisce la malattia.

sources: Aleteia Team

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