Si sono radunati l’ultimo fine settimana di novembre a Firenze, all’ombra del campanile di Giotto e della Cupola di Brunelleschi, tra palazzo Medici e piazza Duomo, nel cuore della bellezza italica. Un drappello di scrittori, poeti, critici e giornalisti di ispirazione cattolica convocati dadon Vincenzo Arnone per un convegno dal titolo “Passione, fede, letteratura e vita” promosso dalla diocesi di Firenze con il contributo del progetto culturale della Cei.
Tra i partecipanti c’era anche Davide Rondoni. Romagnolo, classe 1964, ha fondato e dirige il centro di poesia contemporanea dell’Università di Bologna. Editorialista di Avvenire, Il Tempo , Il Sole 24 Ore, le sue opere sono presenti nelle più importanti antologie di poesia italiana del secondo Novecento.
Allora Rondoni, che cosa è emerso dal vostro convegno? Qual è lo stato di salute della “letteratura cattolica”?
«L’aspetto più interessante scaturito dal nostro radunarci è stato, dal mio punto di vista, il grande desiderio dei cristiani impegnati nella letteratura di portare in quest’ambito un contributo bello e originale. Io ho insistito sul fatto che essendo la letteratura odierna caratterizzata dal moralismo e dallo spiritualismo, una “produzione” cristiana orientata in questo senso sarebbe perfettamente inutile. Lo scrittore cristiano vede la vita così come è e non come dovrebbe essere. La differenza sta tutta nel fatto che lo scrittore cristiano riconosce che sulla scena della storia c’è un protagonista nuovo chiamato Gesù».
È fuorviante, dunque, parlare di letteratura cattolica e di scrittori cattolici?
«La dicitura scrittore cattolico, di per sé, non ha alcun senso. Si tratta di un’etichetta, inevitabilmente riduttiva, appiccicata da altri. Caravaggio era un pittore cattolico? Manzoni era un romanziere cattolico? Il punto è se si tratta di artisti veri, oppure no. Non c’è bisogno di essere cattolici per riconoscere la presenza del mistero nell’esperienza umana. Leopardi era cattolico? Non direi, eppure chi più di lui ha saputo cogliere il mistero della vita?»
Ma esiste un rapporto tra cristianesimo e letteratura?
«Certo che esiste. Il problema di Cristo è tutt’altro che assente nella grande letteratura del Novecento: penso a Eliot, a Luzi (“Cristo, pensoso palpito” diceva il grande poeta toscano), a Pasolini e Ungaretti solo per citarne alcuni. Al di là delle cosiddette “mode”, la figura di Gesù non ha mai smesso di suscitare fascino, desiderio e inquietudine nei grandi scrittori e nei poeti del nostro tempo. Io, d’altronde, sono cattolico perché nulla è più affascinante, per la ragione e per il cuore, di questa inserzione del divino nell’umano, del mistero dell’Incarnazione. Tutto del nostro essere uomini viene così valorizzato…».
Cosa dice il poeta di fronte alla crisi?
«La crisi è la vera condizione umana. Dante inizia la sua Commedia con una crisi. Anche Omero, nell’Iliade, parte da lì. Essa non è innanzitutto una mancanza di soldi, ma si pone come travaglio, come dramma, una condizione “normale” per l’uomo. Ma da tutte le crisi, come ci ha testimoniato sempre il nostro padre Dante, si esce in un solo modo: desiderando un bene. Non si supera attraverso ricette o tecnicismi, ma, lo ripeto, perché la crisi non diventi palude occorre un grande desiderio di bene. La scintilla capace di innescare la riscossa è tutta qui».
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