come sopravvivere nel mondo di nessuno

È la visione, insieme affascinante e preoccupante, che domina l’ultimo libro di Charles Kupchan, studioso del Council on Foreign Relations e professore alla Georgetown University. Il saggio si intitola No One’s World, Il mondo di nessuno (Oxford University Press), ed è già diventato una lettura obbligata negli ambienti che fanno la politica estera americana.

 

 

Il secolo che stiamo vivendo non apparterrà a nessuno. Non sarà degli americani o degli europei, perché l’Occidente attraversa un declino economico e politico che lo priverà della preminenza di cui gode dal Rinascimento. Ma non sarà neppure dei cinesi, dei russi, degli indiani o dei brasiliani, perché nessuno dei Paesi emergenti ha i numeri per imporsi come nuova potenza dominante. Sarà più libero, nel senso che ognuno potrà svilupparsi secondo il modello che preferisce, ma anche più complicato, perché non esisterà un centro capace di garantire la stabilità, e i vari attori protagonisti sul palcoscenico non parleranno la stessa lingua in termini di valori universali condivisi.

Professor Kupchan, cosa aveva consentito all’Occidente di dominare il mondo?

«La supremazia occidentale, paradossalmente, era nata dalla debolezza politica. La borghesia nascente aveva rifiutato i poteri forti tradizionali, come la Chiesa, la monarchia, la nobiltà, e aveva limitato la loro influenza. Questo aveva consentito di creare una struttura moderna basata sul pluralismo religioso, le costituzioni, l’istruzione secolare, la ricerca scientifica, il sistema bancario che aveva finanziato la crescita del continente. Tutto ciò ha posto le basi per la rivoluzione industriale, che col colonialismo ha dato all’Europa il potere su scala mondiale».

 

Perché, dopo tanti secoli, questo modello non funziona più?

«Principalmente per la globalizzazione, che ha consentito ai continenti rimasti indietro di recuperare il terreno perso. Ora che questi paesi emergenti si sono ripresi sul piano economico, non seguono più necessariamente il nostro modello della democrazia liberale e del capitalismo. Nel Medio Oriente gli islamisti stanno traendo quasi ovunque i benefici della primavera araba, dall’Egitto alla Tunisia, passando per l’Iran, l’Iraq e persino la Turchia, che era un baluardo del secolarismo. In Cina c’è un regime autocratico con economia di mercato, mentre l’India e il Brasile, condizionati dalle grandi masse povere che li abitano, scivolano verso un populismo di sinistra spesso in contrasto con le posizioni occidentali. Trovare alleati è sempre più difficile».

Noi ci eravamo convinti che la democrazia e i diritti umani fossero valori universali, destinati ad affermarsi ovunque.

«Era la visione di Fukuyama e della fine della storia, ma si sta dimostrando un’illusione pericolosa. Se continueremo a credere che gli altri si allineeranno alla nostra idea di ordine internazionale, perderemo anche la possibilità di gestire questa transizione inevitabile del potere verso i paesi emergenti».

 

Eppure il presidente Obama tiene sul comodino il libro del neocon Robert Kagan «The World America Made», che nega il declino degli Stati Uniti, mentre il dibattito in corso tra i candidati presidenziali repubblicani non lascia spazio alle ipotesi di un ridimensionamento di Washington.

«Durante le campagne elettorali prevale inevitabilmente la retorica. Poi bisognerà fare i conti con la realtà».

 

I cittadini cinesi non finiranno col pretendere le nostre stesse libertà?

«Anche ammesso che questo avvenga, i tempi saranno estremamente lunghi. La transizione del potere verso i Paesi emergenti si completerà molto prima dell’evoluzione democratica delle loro società».

 

E cosa garantisce che la Cina, ad esempio, non cercherà di imporsi come potenza dominante?

«Non ha la forza economica, militare e culturale per riuscirci, e storicamente ha sempre proiettato le sue ambizioni nella regione asiatica, anche se giocherà come noi sulla scena globale».

 

Questo mondo di nessuno non sarà pericolosamente instabile?

«Di certo non è una buona notizia, per l’Occidente. Sarà sempre più difficile trovare intese e alleanze: basti pensare che negli Anni Settanta il G7 dominava l’economia mondiale, mentre adesso non basta il G20 a controllarla. Il Consiglio di Sicurezza dell’Onu verrà allargato, ma acquisteranno sempre più peso gli organismi regionali, come l’Asean, l’Apec, il Consiglio di cooperazione del Golfo, il Mercosur, l’Unione africana».

 

Cosa deve fare l’Occidente, per sopravvivere nel mondo di nessuno?

«Prima di tutto ricostruire la nostra forza economica e la nostra unità politica. La crisi degli ultimi anni ha provocato un pericoloso ritorno al nazionalismo e al populismo di destra, tanto in Europa quanto negli Stati Uniti. Movimenti come la Lega Nord in Italia e il Tea Party in America si assomigliano molto, perché sono frutto dell’angoscia della classe media che vede sfumare le sue certezze economiche e sociali. Questa deriva però va rifiutata, perché indebolisce ancora di più l’Occidente».

 

Quale sarebbe invece la risposta giusta?

«I governi devono impegnarsi a realizzare politiche di crescita che rimettano al centro dell’attenzione il benessere della classe media, invece degli special interests di piccoli gruppi detentori di grande potere. Una ripresa economica equilibrata è il primo passo per ritrovare stabilità e forza politica. L’Europa, poi, ha bisogno di leadership capaci di rilanciare il progetto unitario, anche perché nessun paese del vostro continente è in grado di competere e vincere da solo sul palcoscenico globale».

 

Ammesso che l’Occidente riesca a rimettere in piedi la sua economia e la sua unità politica, come si difenderà poi nel mondo di nessuno?

«Gestendo la transizione. Una volta recuperata la forza perduta, potremo assumere la leadership del dialogo con le potenze emergenti, per definire i nuovi valori su cui basare gli equilibri globali. Non potremo pretendere l’adesione al modello della democrazia liberale come test di legittimità e inclusione nella comunità internazionale, o il concetto di responsabilità di proteggere che tanto preoccupa Russia e Cina. Però possiamo avere una definizione tradizionale di sovranità e la responsible governance, cioè l’impegno ad agire in favore della stabilità, che si può richiedere anche ai Paesi non democratici. Questo, almeno, ci restituirà un mondo gestibile».

di Paolo Mastrolilli

Fonte : www3.lastampa.it

 

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