Cittadinanza: perché è ora di cambiare

 Se ne discute da anni in Italia, ma tutto resta ancorato a una legge del secolo scorso, la n. 91 del 1992. Forse perché quello della cittadinanza è il tipico argomento capace di scatenare, nel dibattito politico-mediatico, reazioni emotive e scontri ideologici, lasciando poi i problemi irrisolti. Per superare questa logica e partire da un’analisi oggettiva, confrontandoci con il contesto internazionale, abbiamo incontrato Ennio Codini, docente di Istituzioni di diritto pubblico all’Università Cattolica di Milano e responsabile del settore legislazione nella Fondazione Ismu.

Ci spieghi anzitutto che cosa si intende per ius soli e ius sanguinis.

Dal punto di vista storico-geografico lo ius soli è tipico dei Paesi di immigrazione. Non mi riferisco ai Paesi che hanno conosciuto o conoscono una forte immigrazione, ma a quelli che sono nati con l’immigrazione: pensiamo all’Australia, al Sudafrica, alle Americhe. Non che non ci fossero popolazioni originarie, evidentemente, ma di fatto lo Stato si è costituito contro queste popolazioni e i cittadini erano tutti immigrati.

Gli altri Paesi, in particolare quelli europei, dove il popolo non è nato dall’immigrazione, hanno ordinamenti ispirati allo ius sanguinis. Questi ultimi considerano come via normale per l’acquisto della cittadinanza l’essere figlio di un cittadino (normalmente basta uno dei due genitori). Sono previste anche altre modalità, ma sono eccezioni.

Dal punto di vista dell’idea di integrazione (ogni legislazione sulla cittadinanza riflette un’idea di integrazione), il principio di fondo è che sia la famiglia a integrare. Negli ordinamenti fondati sullo ius soli, invece, la regola base è: divento cittadino perché nasco su un territorio. Regola ragionevole nel caso di una popolazione che si va a costituire attraverso ondate migratorie e dunque non si può dire: «Prendo la cittadinanza dei genitori». Dal punto di vista dell’integrazione al centro ci sono i fattori ambientali. In famiglia divento una persona, ma la mia identità come cittadino dipende dalla vita sociale. Questa idea porta anche a prevedere tempi relativamente brevi per l’acquisto della cittadinanza da parte degli immigrati.

Quale di questi due principi a suo parere risulta oggi più efficace?

È difficile rispondere. Gli ordinamenti fondati sullo ius soli tendono, anche in contesti di immigrazione di massa, ad avere un numero di cittadini più o meno coincidente con la popolazione regolarmente residente. Il numero dei residenti stranieri regolari resta sempre contenuto. I figli degli immigrati nascono cittadini e comunque anche per gli immigrati la condizione di straniero è tendenzialmente transitoria. Questa idea che popolazione residente e popolo coincidono è coerente con alcuni principi di base della democrazia. C’è democrazia quando «il popolo governa»; se i cittadini fossero il 10% della popolazione sarebbe imbarazzante, avremmo il Sudafrica dell’apartheid. È un’idea coerente anche con un altro principio cardine, ovvero: «Nessuna tassazione senza rappresentanza», lo slogan dei coloni ribelli negli Usa.

Nei Paesi fondati sullo ius sanguinis le forti ondate migratorie creano problemi. Se la regola è: sei cittadino perché hai un genitore cittadino, evidentemente si crea un imbuto. Di fatto, però, i vari ordinamenti hanno adottato soluzioni per gestire il problema. E qui bisogna distinguere tra chi nasce nel Paese e chi arriva come immigrato.

Cominciamo dal primo caso.

Il nostro Paese ha una regola abbastanza particolare. Chi è nato in Italia, con entrambi i genitori stranieri, resta straniero fino alla maggiore età, quando si apre una finestra di un anno in cui può chiedere la cittadinanza italiana. Qual è l’idea? L’acquisto della cittadinanza è una scelta, quindi la fai quando sei maggiorenne.

Ci sono però due difetti: quando, arrivato a 18 anni, chiedi la cittadinanza non la ottieni subito, ma entri in una zona grigia. L’ordinamento italiano tutela i minori: a scuola, in ospedale, per i servizi sociali questi hanno sostanzialmente gli stessi diritti a prescindere dal passaporto. A 18 anni di colpo cambia tutto: fino al giorno prima sono come i miei amici, il giorno dopo precipito in una condizione strana, devo procurarmi il permesso di soggiorno, se non ce l’ho sono espellibile. Molti ragazzi vivono malissimo questa fase.

Il secondo problema è di tipo culturale, psicologico. Di solito una persona si chiede qual è la sua nazionalità durante l’adolescenza. Quindi abbiamo una situazione singolare in cui, nel momento in cui la persona si chiede chi è dal punto di vista dell’identità politica, il nostro ordinamento gli dice: «Aspetta, non sei pronto». Il processo si attiva parecchio tempo dopo, quando la persona ha già dato la risposta.

Qual è la soluzione adottata dagli altri principali Paesi europei?

In Germania e Gran Bretagna se almeno uno dei genitori è residente da un certo numero di anni (in Germania 8, in Gran Bretagna dipende dalla provenienza) e ha un permesso permanente, allora il figlio acquista la cittadinanza alla nascita. È una specie di ius soli, dove però la cittadinanza non deriva solo dalla nascita nel territorio ma dall’idea che la famiglia, avendo almeno un genitore integrato, riuscirà a integrare il figlio. I progetti di riforma presentati in Italia vanno in questa linea.

È una soluzione che però dà luogo a possibili discriminazioni. Se io, marocchino immigrato in Germania, ho due figli, è possibile che uno nasca marocchino e l’altro tedesco. Da cosa dipende? Semplicemente dal fatto che uno l’ho avuto prima e l’altro dopo il termine degli 8 anni, ma poi la vita dei bambini è uguale, crescono insieme. Nella pratica il problema è attenuato grazie ad altri aspetti, ma va tenuto presente nel caso di una riforma italiana.

La Francia ha una soluzione a mio parere più interessante. I francesi dicono: non ci interessa da quanti anni sono qui i tuoi genitori; se vivi qui dalla nascita, quando compi 13 anni si apre una finestra di 5 anni in cui, con l’assistenza dei genitori, puoi chiedere la cittadinanza. Se uno è stato all’estero per qualche tempo il termine viene ricalcolato, però la possibilità di decidere viene data di norma nell’adolescenza. È un modello che valorizza di più la società. È fondamentale che il minore frequenti o abbia frequentato la scuola dell’obbligo. Qui ci sono due vantaggi: si intercetta la domanda quando si forma, nell’adolescenza; inoltre quando la persona diventa maggiorenne ha già il passaporto, non c’è un vuoto di tutela come in Italia.

C’è poi l’acquisizione della cittadinanza da parte degli adulti…

Tra i principali ordinamenti europei il nostro è quello che chiede più anni di residenza regolare: 10. In Francia il tempo richiesto è di 5 anni, ma se si proviene da ex colonie si può avere la cittadinanza prima. Idem in Gran Bretagna. In Germania nel 1999 gli anni sono stati ridotti da 12 a 8, ma se si frequentano corsi di tedesco (molto impegnativi) si può anticipare a 6 anni. In Spagna sono richiesti 10 anni di residenza regolare, che diventano però solo 2 se si è immigrati dall’America Latina.

In Italia non solo non ci sono eccezioni, ma nel calcolare i tempi bisogna tenere conto che molti immigrati iniziano come irregolari, e quel periodo non si computa. Poi c’è il periodo della procedura, che dura mediamente 2-3 anni. Dunque l’immigrato tipo in Italia ottiene la cittadinanza non prima di una quindicina d’anni dall’arrivo.

Quali sono gli altri criteri per la concessione della cittadinanza?

Ci sono ordinamenti che puntano sui test e quelli che puntano su valutazioni discrezionali. Il modello del test è tipico degli Usa, ma ora è stato introdotto anche in Gran Bretagna e Germania. Questo deve accertare due cose: la competenza linguistica e una qualche competenza circa le leggi e la vita del Paese.

Poi ci sono gli ordinamenti in cui l’autorità valuta. In Francia ci vuole una sufficiente conoscenza della lingua e dell’ordinamento. In Italia la legge lascia la valutazione all’autorità. È evidente che l’accertamento discrezionale ha il limite dell’arbitrio. Da noi si può negare la cittadinanza per i più svariati motivi, anche solo dicendo genericamente: «integrazione insufficiente», «abbiamo rapporti di polizia che parlano di contatti inopportuni con Paesi stranieri».

Cosa pensa del dibattito che si sta sviluppando in Italia?

Mi sembra ci sia una certa confusione. Adesso ci si concentra molto sulle seconde generazioni, sui nuovi nati, ma questo succede perché i genitori sono in lista d’attesa per avere la cittadinanza e ci restano almeno 15 anni. In Germania o in Francia il dibattito è sugli adulti, perché in quel modo si risolve anche il problema dei ragazzi.

Se la regola è che l’immigrato dopo 5-6 anni può avere la cittadinanza e trasmetterla automaticamente ai figli, il problema dello ius soli è in parte superato. Perché il modo normale attraverso cui i figli ottengono la cittadinanza è grazie ai genitori. Attenzione però: non sto dicendo che ottenere la cittadinanza in Germania sia più facile, ma che può essere più rapido, se mi impegno: se non studio il tedesco posso stare anche vent’anni ma la cittadinanza non la ottengo, resterò straniero a vita.

Inoltre trovo che in Italia il dibattito sia troppo focalizzato sulla cittadinanza come strumento per avere i diritti, con un accento quasi utilitaristico. Altrove, in Gran Bretagna, in Germania, non parliamo negli Usa, si è cittadini per essere popolo.

Tuttavia, sul fronte dei diritti, essere o non essere cittadino fa la differenza.

Certamente. Per l’adulto la cittadinanza significa stabilità. Però se l’obiettivo è stabilizzarsi c’è lo strumento del Permesso CE per soggiornanti di lungo periodo, che si può ottenere dopo 5 anni. Quanto alle discriminazioni nell’accesso al welfare o ai concorsi pubblici, l’ordinamento europeo correttamente propone come risposta il principio di uguaglianza, non la cittadinanza. L’impostazione dell’Unione europea è: dobbiamo combattere la discriminazione in sé, non dare a tutti la cittadinanza. Altrimenti, considerando che ovviamente ci sarà sempre qualcuno che non è cittadino, si rischia di ampliare la forbice tra cittadini e non.

I recenti attentati terroristici di matrice islamica compiuti in Europa e Usa da persone che avevano ottenuto la cittadinanza hanno sollevato dubbi sulle normative vigenti?

Questi fatti eventualmente aumentano la tendenza restrittiva sulla disciplina dell’ingresso e soggiorno, ma non hanno riflessi sulle leggi relative alla cittadinanza. In Italia tendiamo a legare i due temi, ma in quasi tutti i Paesi sono separati. La cittadinanza viene vista come uno strumento per avvicinare, integrare, far crescere un popolo, non per allontanare.

Uno spettro agitato da chi si oppone a una riforma è quello dell’invasione di massa. C’è questo rischio?

Lo ius soli puro effettivamente incentiva l’immigrazione. È il motivo per cui l’ultimo Paese europeo che aveva questo principio, l’Irlanda, negli anni Ottanta lo ha abbandonato. Si moltiplicavano i «viaggi della speranza», con donne africane che facevano di tutto per partorire in Irlanda.

Ma, escluso questo caso limite, tutti gli studi smentiscono che la disciplina della cittadinanza interagisca con i flussi migratori: molti pensano che, se si riducono gli anni per ottenere la cittadinanza, arriveranno più immigrati. Questa idea non ha fondamento: chi immigra lo fa a prescindere dalla disciplina della cittadinanza. Il tema della cittadinanza si pone quando uno vive già nel Paese, ha una prospettiva, allora inizia a farsi delle domande. La disciplina della cittadinanza non è un fattore attrattivo. Si sceglie in base alle opportunità di lavoro, alla presenza di altri familiari. Invece nel nostro dibattito viene fuori spesso questo tema del non dovere «abbassare la guardia». Non c’entra nulla.

Stefano Femminis – © FCSF – Popoli

http://www.popoli.info/EasyNe2/Primo_piano/Cittadinanza_perche_e_ora_di_cambiare.aspx

 

Commenti

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.