È bella la coincidenza fra la pubblicazione della Lumen fidei e il viaggio di Papa Francesco a Lampedusa. Il quarto capitolo dell’enciclica propone una fede che rinuncia all’intransigenza in nome della «convivenza che rispetta l’altro» (34), rivelando in questo modo «quanto possono essere saldi i vincoli tra gli uomini, quando Dio si rende presente in mezzo ad essi». L’unica risposta possibile all’esperienza della verità come dono dell’amore è l’umiltà che non si impone con la violenza e non schiaccia gli altri. È proprio per questo che la fede in Cristo «non allontana dal mondo e non risulta estranea all’impegno concreto dei nostri contemporanei».
Tutti desiderano vivere in una «città affidabile». La Chiesa testimonia e trasmette l’esempio di un’unità che non si regge «sull’utilità, sulla composizione degli interessi, sulla paura», ma su un fondamento di gran lunga più semplice e solido: la «gioia che la semplice presenza dell’altro può suscitare» (50-51). Le parole e i gesti di Lampedusa, lungi dall’essere i veicoli mediatici di una predicazione religiosa carismatica che lascia intatti i meccanismi e le responsabilità della politica, danno alla proposta della Lumen fidei l’immediata concretezza di un obiettivo, di un impegno che ha il volto dei poveri che hanno attraversato il “nostro” mare in cerca di un futuro migliore e rompono le bolle di sapone della nostra indifferenza di fronte ai tanti che in queste acque sono morti.
Non è un altro modo di pensare rispetto alla politica. È un modo altro di pensare la costruzione della città degli uomini e dunque di concepire e vivere appunto la politica. Chi è rimasto fuori dal perimetro di un benessere peraltro sempre meno sicuro continuerà a cercare di entrare. Perché è quello che i poveri hanno sempre fatto. Per tutti resta il monito dello stesso Papa Montini nella Populorum progressio. Quando l’ingiustizia «grida verso il cielo», perché popolazioni intere vivono sprovviste di ciò che è necessario a garantire anche solo il livello minimo della loro dignità, può diventare grande perfino «la tentazione di respingere con la violenza simili ingiurie» (30). La violenza — proseguiva Paolo vi — è «quasi sempre fonte di nuove ingiustizie». Ma non c’è violenza in quelle barche in mezzo al mare. E non basta non lasciarle affondare. Occorre evitare che partano. Usando le armi dello sviluppo che vince la povertà e non quelle della forza.
Stefano Semplici, Presidente del Comitato internazionale di bioetica dell’Unesco
12 luglio 2013
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