La scomparsa del filosofo William Hamilton
William Hamilton, uno dei più rappresentativi esponenti della «teologia radicale», conosciuta per le tesi sulla «morte di Dio», si è spento nella sua casa di Portland, nell’Oregon. Era nato a Evanston, nell’Illinois, nel 1924. Pastore protestante oltre che professore, in Italia era noto grazie a due libri tradotti entrambi nel 1969: La nuova essenza del cristianesimo (Queriniana) e, in collaborazione con Thomas J. Altizer, La teologia radicale e la morte di Dio (Feltrinelli). Nel primo di essi si legge: «Viviamo in un tempo in cui la teologia dovrebbe rinunciare alle pretese strutturali e accontentarsi di una collezione di frammenti o immagini, rapportate tra loro non troppo precisamente ed espresse indirettamente». In altre parole, invitava ad avere «poca sicurezza teologica». William Hamilton rimane una figura che insieme a Gabriel Vahanian, Paul Van Buren, allo stesso Altizer e al rabbino Richard Rubenstein contribuì negli anni Sessanta a una svolta della teologia. Da Friedrich Nietzsche l’affermazione «Dio è morto» finiva in quegli anni sulla copertina di «Time» (aprile 1966), quindi nelle canzoni (testo di Francesco Guccini inciso, tra gli altri, dai Nomadi); e questo anche se il tema era già presente nel Romanticismo tedesco, in Schiller e Heine per esempio, prima di conoscere una vasta eco.
Il «crocefisso» di Banksy; a destra, in piccolo, William Hamilton
Hamilton comunque, a differenza di Altizer, non vedeva nella «morte di Dio» un evento necessario e definitivo, indispensabile per il progresso, ma qualcosa di transitorio. La concepiva come un’eclissi, un’assenza provvisoria. Il credente rinunciava al «possesso», non all’attesa di Dio. «Essere cristiani oggi – scrisse – vuol dire, in qualche modo, essere uomini senza Dio, ma con la speranza». Questa teologia che aveva perso Dio, così come intuì Bonhoeffer, si concentrava su Cristo. E in lui fondava l’etica, con solidarietà e dedizione per l’Altro.
Armando Torno
FONTE: www.corriere.it
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