Dell’Antico Testamento fa parte il piccolo Libro di Giona, Ionà in ebraico, in cui si narra una specie di parabola in quattro brevi capitoli. Protagonista è appunto un profeta di nome Giona, vissuto secoli prima della composizione dell’opera (nell’VIII sec. a.C., come si dice in 2 Re 15,25; il libro è forse del IV sec. a.C.). Giona, in ebraico[1], vuol dire piccione, colomba: un uccello che non ama il mare, non certo un gabbiano. Nelle Scritture, prima che nel breve Libro, la parola compare nel racconto di Noè che invia l’uccello tre volte fuori dall’arca, terminato il diluvio: la prima volta la colomba torna spossata, perché non è stata in grado di posarsi ancora su alcune terra emersa; la seconda, torna con un rametto di ulivo nel becco; la terza volta non torna più, perché terre e acque sono ormai nuovamente distinte. Anche nella prima sua comparsa, quindi, la colomba ha a che fare con l’immensità delle acque che già sono vissute come nemiche, sterminatrici.
Il racconto del libro di Giona è ricco di colpi di scena e di spunti esotici[2]. Per i primi due capitoletti, si tratta di un racconto di mare divenuto popolare per il grande pesce, simbolo del caos acquatico distruttore e del giudizio divino, trasformato dalla tradizione in una balena, come dice il titolo di un famoso “spiritual” americano, Jonah and the whale. Tuttavia, nel racconto biblico, il dag gadòl, il grande pesce che inghiotte il profeta, è il suo scampo, e non certo il suo castigo – nota De Luca[3].
Per quanto il nome del profeta, in ebraico significhi appunto “colomba”, Giona per un verso è più simile ad un odierno falco integralista – secondo Ravasi. Infatti non si rassegna che Dio lo mandi a predicare la conversione proprio a Ninive, la “città dei sangui”, l’odierna e ancora insaguinata Mosul irachena, la capitale degli Assiri, la città nemica di Israele per eccellenza[4]. Per un altro, è una figura molto moderna, per il suo essere un profeta-controvoglia, uno che non si è autoinvestito, che non solo sfugge alla tentazione dell’autocandidarsi, ma anche all’investitura, anzi alla suprema investitura, quella che gli viene dal suo Signore.È per questo che s’imbarca a Giaffa, porto di Gerusalemme, su «una nave di Tarshish», battente bandiera fenicia, per avviarsi al lato opposto del mondo: se Ninive era a est, Tarshish era forse Gibilterra (o la Sardegna) e quindi a ovest. Si tratta di un profeta renitente alla chiamata che non condivide l’eccessiva bontà di Dio, «misericordioso e clemente, longanime, di grande amore e che si lascia troppo impietosire dopo aver minacciato il giudizio» (4,2).
Proprio nel suo rifiuto di rispondere alla chiamata, Giona si mostra paradossalmente vicino a Dio. In tanto è un profeta – sostiene Deleuze – in quanto tradisce: “Dio che si distoglie dall’uomo che si distoglie da Dio: questo è prima di tutto il soggetto dell’Antico Testamento. E’ la storia di Caino, la linea di fuga di Caino. E’ la storia di Giona: il profeta si riconosce da questo, dal fatto che prende la direzione opposta a quella ordinatagli da Dio, e in tal modo realizza il comandamento di Dio ancora meglio che se avesse obbedito. Traditore, egli ha preso il male su di sé. Il Vecchio Testamento è continuamente percorso da queste linee di fuga, linee di separazione della terra e delle acque. “Che […] gli elementi si dissocino e si fuggano. Il tritone abbandoni la moglie umana e i figli […] Attraverso il cuore li spinge il mare. Bisogna lasciare amore e casa […]”[5].
Il mare favorisce il tradimento, il mare è la via di fuga. Anche alcune delle interpretazioni novecentesche di Odisseo calcano questo aspetto centrifugo. Ed insieme il mare è il medio del ritrovarsi; sulle sue rotte, e nel suo ventre (nei tre giorni che Giona trascorre nella pancia del grande pesce, e con questi negli abissi), s’intrecciano e si sfuggono le ragioni del perdersi e del ritrovarsi. La storia di Giona è innescata da una costrizione al movimento: Dio impone al suo uomo il viaggio, Giona scarta, recalcitra, alla fine prende la direzione opposta; si mette comunque in viaggio, l’attraversata è la sua nottata, il prezzo del ritorno.
Nel film di Peter Weir, Master and Commander, ad un certo punto, nel mezzo di una bonaccia senza fine, tra i marinai si sparge la voce che tra di loro “vi è un Giona”; un personaggio in grado di attirare la maledizione di Dio sulla barca, del quale occorre sbarazzarsi se, in questo caso, si vuol riprendere a navigare. Nel film, il giovane ufficiale identificato come il Giona decide per il suicidio. Ma da dove nasce questa leggenda? Appunto dal racconto biblico, nel quale però la situazione iniziale è opposta, ma egualmente mortifera. Sul mare si è scatenata una tempesta e tutti sono impauriti, eccetto Giona, unico ebreo a bordo. Interrogato sul perché della sua calma e sulla sua origine, risponde: “Sono Ebreo e venero il Signore Dio del cielo, il quale ha fatto il mare e la terra”. Un Dio che ha fatto insieme la terra e il mare, quel mare pauroso e infido.E’ noto che i marinai impauriti decidono di disfarsi di lui, su invito dello stesso Giona che si assume la colpa, ròso dal senso di colpa per aver disubbidito al Signore: “Prendetemi e gettatemi in mare e si calmerà il mare che ora è contro di voi, perché io so che questa grande tempesta vi ha colto per causa mia. Quindi, quelli presero Giona e lo gettarono in mare e il mare placò la sua furia”[6].In acqua, un grande pesce lo mangia, ma lo risputa più oltre, favorendogli la riva. Costretto dai fatti, dunque, a recarsi a Ninive, rimane anche deluso, perché quei pagani si convertono facilmente alla sua predicazione.
Diverse suggestioni simboliche arricchiscono il racconto. Al mare è associata la tempesta. Questa feste Verbindung tiene nei secoli: il mare in tempesta, gli irati flutti, è l’immagine per eccellenza che accompagna la storia marina europea fino all’Ottocento, quando questa correlazione così stretta s’incrina, e oltre che la furia del mare si predica anche la calma e la bellezza. In secondo luogo, Giona ha fede in un dio creatore sì della terra, ma anche del mare: e nella Bibbia, dove la parola mare compare di rado, ciò è notevole[7]. In ebraico, mare è espresso da una sola parola, yam, secondo una radice semitica comune. E’ termine molto generico che indica una qualsiasi distesa d’acqua: sia salata, sia dolce, sia interna, come nel caso del yam ha-nechoset, il bacino nel cortile anteriore del Tempio di Gerusalemme, oppure come nel caso del mare o lago di Tiberiade, nel Nuovo Testamento chiamato con tre nomi diversi: «Lago di Gennesaret», che è una corruzione di Chinnerot; «Mare o Lago di Galilea», dalla provincia in cui è situato; e «Mare di Tiberiade», dalla città di quel nome, edificata da Erode, sulla sponda occidentale.
In terzo luogo, disubbidendo al volere di dio, Giona prende la via del mare, che quindi sta all’opposto di quel che il Signore vuole. Tuttavia, dio è testardo quanto forte e si serve di una sua creatura – lo yag gadol, il grande pesce – per ricondurre Giona sulla retta via, cioè sulla terra ferma e sulla via di Ninive. Anche di pesci, la Bibbia parla pochissimo e ne esiste solo uno, appunto lo yag che inghiotte Giona, salvo poi risputarlo sano a terra[8].
“La storia di Giona è la storia di un viaggio intrapreso per ragioni sbagliate”, afferma Auden. Lo aveva già detto in poesia Francisco de Quevedo nel 1620. Da eroe etico, capace di udire la Parola, viene chiamato da Dio ad una passione assoluta, a divenire un eroe religioso – aggiunge Ravasi. E si rifiuta e fugge, per un timore estetico, di non venir ascoltato e ammirato dai cittadini di Ninive. Ma, “come punizione del rifiuto viene messo a confronto con ciò che davvero è esteticamente grande, la tempesta e la balena, davanti alle quali il più grande degli imperatori è debole e impotente, e quindi, nel ventre della balena, viene privato anche dell’unico dono che aveva, la sua capacità di udire la Parola. Umiliato, non dispera, ma sia affida al Dio che non può più udire. Dio lo perdona, e Giona viene vomitato a terra dove si dedica all’adempimento della sua vocazione”[10].
Sui due atti del pesce mitico – l’inghiottire ed il vomitare – si sono soffermati molti commentatori. La costellazione simbolica legata all’inghiottimento, è al centro dell’analisi – per esempio – di Gaston Bachelard e di Gilbert Durand. Il rigurgito del pesce che rigetta Giona sulla terra fa pensare tra l’altro all’heideggeriana Geworfenheit, alla gettatezza dell’uomo nel mondo.
Ismaele come Giona
Anche Ismaele, il giovane baleniere protagonista di Moby Dick, può esser considerato un Giona. Prima d’imbarcarsi sul Pequod, il giovane marinaio visita alla domenica la Cappella del Baleniere di New Bedford, dove ascolta il padre Mapple che, dall’alto del pulpito a prora di nave, forte come un albero ben radicato nella terra (come indica il suo nome) predica proprio sul Libro di Giona. Due cose raccomanda il magnetico pastore ai marinai in partenza per Nantucket: di non peccare, ma se non ci si riesce, di pentirsi, appunto come ha fatto Giona. E poi, soprattutto, di non cercare di sfuggire al destino che Dio ha in serbo per noi: come Giona, rifiutandosi di andare a Ninive. Questa è la lezione che, si capisce, Ismaele dovrà più introiettare: quando il mare/Moby Dick lo risputerà, lui solo, come Giona dalla bocca del grande pesce, sarà perché racconti: il destino di Ismaele sarà di narrare la storia di Achab e della Balena bianca, tornando tra la folla degli indecisi che non osano sfidare il mare aperto e che, dal molo, immaginano soltanto la vita senza confini del mare.Il racconto di Giona, così ricco di colpi di scena e di immagini forti, non ha coinvolto solo la letteratura, da Quevedo a Thomas Merton, da Elie Wiesel a Melville. Il profeta appare già nel Sarcofago del Laterano del III secolo; è riprodotto in innumerevoli miniature medioevali, e quindi da Michelangelo sulla volta della Sistina come un giovane che discute con Dio gesticolando, quasi litigando; Correggio sulla cupola di San Giovanni Evangelista a Parma e Rubens in una tela di Nancy lo immaginano vecchio e barbuto, mentre Jan Bruegel lo presenta nella scena in cui viene rigettato dalla balena sulla spiaggia.
Leibniz come Giona?
Anche Leibniz ha vissuto, in un certo senso e per una parte, l’esperienza di Giona. Leibniz viaggiò molto. In particolare, per un anno, tra il 1689 ed il ’90, si divise tra Venezia e Napoli, inviato del suo sovrano Ernst August di Hannover, padre di Georg Ludwig, il futuro George I d’Inghilterra (1714). Solo passeggero a bordo, gli capita di navigare su una piccola barca, lungo la costa veneta. All’improvviso scoppia una tempesta ed il mare si alza. I marinai, sicuri non capisse la loro lingua, si accordano per gettarlo fuori bordo, spartendosi le sue cose. Ma Leibniz – nota Blumenberg – capisce cosa si sta tramando a suo danno e, tirato fuori di tasca un rosario, inizia compunto a pregare. I marinai, colpiti dalla sua professione di fede, rinunciano ad uccidere quello che, fin a poco prima, consideravano un eretico. Leibniz scampa all’annegamento e sbarca a Mesola, sotto Chioggia[11].
Blumenberg nota che la progettata azione criminosa dei marinai non era dettata dal desiderio di rapina, ma più probabilmente dalla paura: “la spaventosa burrasca deve aver suggerito alla loro fede ingenua l’idea che l’eretico tedesco a bordo avesse attirato sul loro capo l’ira divina, mettendoli in pericolo di morte, e che per placare la vendetta della divinità dovevano togliere di mezzo quello scandalo”.
Esattamente, quindi, la problematica di partenza di Giona: un peccatore, o un presunto peccatore, che può fungere da capro espiatorio ed esser gettato in pasto al mare. Soltanto la previdente astuzia leibniziana, suggerendogli di dotarsi di un rosario, lo ha salvato dalle onde e dalla condivisione anche del “secondo tempo” della vicenda del profeta.
[1] Anche se si tratta di un profeta per certi versi minore, di cui si sa poco, per le leggende midrashiche Giona è un vero Giusto e la sua storia viene narrata in un giorno importante per il calendario ebraico, lo Yom Kippur, sia pure al crepuscolo. Sulla figura di Giona, si veda anche di Klaus Heinrich, Parmenide e Giona. Quattro studi sul rapporto tra filosofia e mitologia, Guida, Napoli 1987; Carl Gustav Jung, Simboli della trasformazione. In: C.G. Jung, Opere, Boringhieri, Torino 1980, Vol. 5. [2] Seguo le note di Gianfranco Ravasi (Le colpe di Giona) di Erri De Luca, traduttore-curatore di una versione del libro biblico (Erri De Luca. Giona/Ionà, Feltrinelli, Milano 1995). [3] Cfr. Erri De Luca, cit., pag. 9. [4] Un profeta per terre straniere: è questo Giona. E forse non è un caso che sia accolto anche dal Corano che, col nome di Yûnus, che significa “Quello del pesce” [Cor., XXI:87] lo venera come uno dei profeti di Allah. [5] Gilles Deleuze. Sulla superiorità della lingua anglo-americana. In: “Origine”, dicembre 2003, pag. 15. [6] Gn 4, 15. [7] Su questo punto, vedi A. Vanoli, Le parole e il mare, cit., pag. 37 segg. [8] Sul “pesce salvatore”, vedi René Guenon, Simboli della scienza sacra, Adelphi, Milano 1975, pagg. 141-45. [9] [10] W.H.Auden, op.cit, pagg. 135-6. Eugen Drewermann fa notare che, ovviamente, nessun pesce è in grado di inghiottire un uomo e di risputarlo vivo. Anche “una balena ha una gola troppo piccola perché le possa riuscire il gioco di bravura di ingoiare un uomo per poi risputarlo fuori vivo”. Drewermann tiene a precisare che “ancora negli anni Trenta alcuni studiosi di teologia fondamentale nella chiesa di Roma potevano temere per la loro cattedra se, in tutta la zoologia, non sapevano scovare un pesce che avrebbe potuto inghiottire Giona”. Vedi E. Drewermann, E il pesce vomitò Giona all’asciutto. Il libro di Giona interpretato alla luce della psicologia del profondo, Queriniana, Brescia 2003, che sostiene che il libro di Giona è il più brillante esempio dell’”umorismo di Dio”. [11] L’episodio è narrato dal segretario particolare del filosofo, J.G. Eckhart e ripreso, con qualche dettaglio, da Hans Blumenberg (1987), trad. it. L’ansia si specchia sul fondo, Il Mulino, Bologna 1989, pag. 11 e segg.
http://mareinfilosofia.blogspot.it/2005/11/giona.html
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