Papa Francesco: carisma e istituzione

La prima settimana di papa Francesco ci consente di intravedere gli elementi di novità del suo pontificato che hanno suscitato gioia e acceso speranza. Ripercorriamo la prima settimana di papa Francesco, i suoi gesti e i sentimenti che ha suscitato. Hanno provato sorpresa e gioia innanzitutto i cardinali, poi i fedeli in piazza San Pietro e quelli collegati in diretta, e via via il mondo intero. Ha stupito la velocità dell’elezione, contro le attese di un conclave travagliato; hanno colpito la scelta del nome, con il richiamo a Francesco di Assisi, e la decisione, coerente con quella scelta, di presentarsi al mondo “spoglio” dei tradizionali segni esteriori del ruolo di pontefice (primo fra tutti la mozzetta bordata di ermellino). Nei giorni seguenti, hanno impressionato la semplicità e l’informalità del nuovo Pontefice, e i suoi richiami al sogno di una Chiesa «povera per i poveri». Questi sentimenti di sorpresa e gioia hanno fatto come dissolvere la pesante coltre che tanti scandali e intrighi avevano steso sul Vaticano e sulla Chiesa, permettendoci in pochi istanti di riscoprirne il volto più fresco e attuale.

Mentre ancora ce ne rallegriamo, riteniamo importante cominciare a esplorare le sorgenti da cui questi sentimenti nascono e le ragioni che li motivano; siamo convinti che sia il modo per dischiuderci a una più profonda comprensione dell’evento che stiamo vivendo e modificare di conseguenza i nostri comportamenti; cioè per compiere quel passo che la spiritualità dei gesuiti, da cui p. Bergoglio proviene, chiama “discernimento” della strada da percorrere.

 

Un ossimoro in carne e ossa

In realtà – ce ne siamo resi conto una volta che abbiamo iniziato a sentirlo – l’accostamento del termine “papa” al nome del poverello di Assisi è tutt’altro che scontato: non a caso è la prima volta che viene osato nella storia della Chiesa. Può addirittura apparire come un ossimoro, la figura retorica che accosta due termini di significato contrario o comunque in forte tensione l’uno con l’altro.

Francesco è il nome di colui che scuote la Chiesa del suo tempo (e di ogni tempo) con un’opzione radicale per la povertà come strada maestra per la felicità, scoperta nell’incontro e nell’abbraccio al povero: un atteggiamento che non può non diventare contestazione dei compromessi mondani, ma che proprio per questo è fonte di energia per la ricostruzione della Chiesa. Il termine “papa”, pastore della Chiesa ma anche capo di Stato della Città del Vaticano, richiama immediatamente la struttura istituzionale ecclesiale, con gli aspetti che la avvicinano a ogni amministrazione burocratica (norme, incarichi, procedure, consuetudini, corpo diplomatico, ecc.) e in questo la rendono più distante dal popolo; anche perché talvolta finiscono per costituire il paravento per comportamenti non corretti o incoraggiare il carrierismo.

 

Così se “papa” ben rappresenta l’istituzione, Francesco è l’incarnazione del carisma: ecco i due estremi che papa Bergoglio mette insieme con la scelta del proprio nome. È questa una delle radici della sorpresa e della gioia di fronte all’inedito.

Carisma e istituzione per molti sono semplicemente inconciliabili, come per il teologo tedesco Hans Küng e quello brasiliano Leonardo Boff, che non a caso ha dedicato a san Francesco pagine molto intense; entrambi peraltro hanno dichiarato di vedere nell’elezione di papa Francesco un segno di grande speranza. Posizioni più equilibrate articolano, indicandone i rispettivi apporti e limiti, il dono/compito del governo e il dono/compito della profezia, spesso associato a congregazioni religiose e movimenti, soprattutto nella fase della fondazione, e risorsa indispensabile nei momenti di crisi della Chiesa. Giovanni Paolo II, al n. 24 dell’esortazione apostolica postsinodale Christifideles laici (1988) ci offre una sistematizzazione paradigmatica della questione. Dice infatti: «I carismi vanno accolti con gratitudine: da parte di chi li riceve, ma anche da parte di tutti nella Chiesa. Sono, infatti, una singolare ricchezza di grazia per la vitalità apostolica e per la santità dell’intero Corpo di Cristo»; e poi aggiunge: «nessun carisma dispensa dal riferimento ai Pastori [l’istituzione] ai quali spetta il compito del discernimento sulla loro genuinità e sul loro esercizio ordinato». Benedetto XVI ha ribadito che carisma e istituzione sono entrambi essenziali e rimandano l’uno all’altra, riconoscendo anche, con onestà, che questo rapporto, nella concretezza della vita della Chiesa, è motivo di fatica e richiede un apprendimento: «I pastori staranno attenti a non spegnere lo Spirito (cfr 1 Ts 5, 19) e voi [i movimenti ecclesiali] non cesserete di portare i vostri doni alla comunità intera» (omelia del 3 giugno 2006).

 

La forza di papa Francesco, quella che ha impressionato il mondo, viene proprio dal fatto che la figura centrale della vita della Chiesa propone unite, nella sua stessa persona, le due dimensioni. Con la sua biografia prima ancora che con la scelta del nome: è infatti il primo membro di un ordine religioso a diventare papa in quasi 200 anni.

C’è chi sogna che il “riformatore” abbatta l’istituzione, c’è chi auspica che alla lunga l’istituzione prenda il sopravvento sulla novità: ognuno cerca di tirare il nuovo papa dalla propria parte. La sfida che Francesco ha di fronte è trasformare la tradizionale separazione – e talvolta opposizione – tra Chiesa carismatica e Chiesa istituzionale, in una tensione vitale e feconda in cui abitare, in una sorgente di fedeltà creativa alla propria missione. Potranno sostenerlo in questo sforzo la spiritualità e la tradizione organizzativa della Compagnia di Gesù, concepita dal suo fondatore, sant’Ignazio di Loyola, come istituzione carismatica. Un’istituzione capace, attraverso la dinamica del discernimento e dell’obbedienza, di mettere la propria struttura a servizio della valorizzazione dei doni che Dio fa a ciascun membro, così da trasformare il carisma dei singoli nella carica carismatica dell’insieme; tutto questo non per un’affermazione dell’Ordine, ma “per la maggior gloria di Dio”, cioè per mettere i propri talenti al servizio della Chiesa e dell’umanità intera.

 

Alle radici di un carisma che “buca”

Fin dalla sua prima apparizione sul balcone della basilica vaticana, il carisma di papa Francesco si è imposto come evidente, ma senza mai risultare aggressivo o schiacciante: un assaggio dell’esperienza di una Chiesa che sta «quasi alla fine del mondo», fatta di periferie, di povertà vissuta in modo semplice e gioioso, che rompe l’immaginario occidentale del cristianesimo, ma di cui abbiamo subito cominciato ad avvertire il gusto. La cordialità, l’immediatezza, la ricerca del contatto diretto, un papa che si comporta come “uno di noi”, incrinano la percezione della distanza che le persone comuni hanno nei confronti della Chiesa e più in generale delle istituzioni, una distanza che si tramuta facilmente in distacco, sospetto, risentimento o addirittura rabbia. Spezzare questo circolo è il primo grande servizio del carisma all’istituzione.

 

I gesti che trasmettono il carisma di papa Francesco ci permettono di scorgerne le radici e di gustarne più in profondità la ricchezza. Ne segnaliamo tre. Il primo è la costante attenzione all’essenziale, alla sobrietà, ad esempio nella scelta dell’anello d’argento e della croce di ferro, incarnando in questo modo la direzione indicata da Benedetto XVI: «Liberata dai fardelli e dai privilegi materiali e politici, la Chiesa può dedicarsi meglio e in modo veramente cristiano al mondo intero, può essere veramente aperta al mondo. Può nuovamente vivere con più scioltezza la sua chiamata al ministero dell’adorazione di Dio e al servizio del prossimo» (Discorso ai cattolici impegnati nella Chiesa e nella società, 25 settembre 2011). Tutto questo nella gioia e con autenticità, non come strategia o posa ostentata.

 

Il secondo gesto è quello, potentissimo, che precede la prima benedizione impartita da papa Francesco la sera della sua elezione: la richiesta al popolo di pregare che Dio benedicesse il nuovo vescovo di Roma, seguita dall’inchino di fronte alla piazza gremita. Vi ritroviamo la convinzione – caratteristica della spiritualità ignaziana – che Dio è all’opera in tutta la creazione e in ogni persona, e che la prima cosa di cui tutti, papa compreso, abbiamo bisogno è di scambiarci i doni che riceviamo da questa presenza. Nella sua plasticità l’inchino di papa Francesco di fronte alla folla riporta alla mente il card. Martini che, pur nella sua malattia fortemente invalidante, cercava di alzarsi in piedi ogni volta che una persona entrava nella sua camera, riconoscendola portatrice di Dio.

 

Il terzo gesto, che tocca ancora più nel profondo, è la richiesta di fare spazio al silenzio, formulata sia la prima sera, sia in occasione dell’incontro con i giornalisti. Un silenzio che colpisce particolarmente, nella nostra società che lo riduce a una pausa fra suoni o rumori, e che ci parla di attenzione alla coscienza e alla sua maturazione; un altro tratto tipico della spiritualità ignaziana, ma anche un elemento del patrimonio conciliare: «La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli è solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità […]. Nella fedeltà alla coscienza i cristiani si uniscono agli altri uomini per cercare la verità e per risolvere secondo verità numerosi problemi morali, che sorgono tanto nella vita privata quanto in quella sociale» (costituzione pastorale Gaudium et spes, 1965, n. 16). Solo attraverso il silenzio e l’ascolto della coscienza è possibile promuovere relazioni interpersonali più umane e una convivenza sociale più armonica, a cui tutti aspiriamo.

La reazione entusiasta suscitata dai primi giorni di pontificato di papa Francesco – che uno striscione apparso in piazza al primo Angelus, il 17 marzo, definiva «la primavera della Chiesa» – ci indica quanto questi gesti siano capaci di intercettare le attese profonde dei cattolici e non solo. Tutti lasciano intravvedere ciò che li sottende: chi cerca di mettere al centro del suo operare Dio riceve una libertà interiore capace di toccare i cuori delle donne e degli uomini di oggi, un’umanità capace di entrare in risonanza con chi gli sta di fronte, una speranza contagiosa al di là di ogni frontiera.

 

L’attivazione di una dinamica istituzionale

I gesti compiuti e le parole pronunciate nei primi giorni di pontificato, oltre al carisma personale di papa Francesco, hanno cominciato a farci vedere anche qual è la sua comprensione dell’istituzione di cui è a capo; anzi, il modo in cui quel carisma la può contagiare e vivificare, in modo da attivare dinamiche – è questa la potenzialità irrinunciabile delle istituzioni – in grado di coinvolgere un numero di persone che nessuno, da solo, potrebbe nemmeno sognare di raggiungere. Per chi occupa un incarico istituzionale, la vera sfida non è tanto quella di essere carismatico, ma di rendere carismatica l’istituzione, accompagnando le persone che la compongono a riconfigurare l’immagine che ne hanno e la percezione del proprio ruolo, mettendo in gioco le proprie capacità e i propri doni, cioè tirando fuori i propri carismi. È questo il compito di ogni autentica leadership. Anche se si tratta di un orizzonte di lungo periodo, alcuni segni che le cose si sono messe in movimento possono già essere colti; anzi alcune dinamiche sembrano procedere a una velocità inusuale per la Chiesa.

 

Una Chiesa in strada

Domenica 17 marzo, al termine della messa celebrata nella parrocchia vaticana di S. Anna, papa Francesco è uscito fuori dalle mura dei sacri palazzi per andare a salutare i fedeli in strada. Con questo gesto ci indica che quella che lui immagina è una Chiesa estroflessa, proiettata verso quel mondo che il suo Fondatore le ha dato il compito di evangelizzare. «La Chiesa – ha affermato il nuovo Papa incontrando i giornalisti il 16 marzo – pur essendo certamente anche un’istituzione umana, storica, con tutto quello che comporta, non ha una natura politica, ma essenzialmente spirituale: è il Popolo di Dio»; proprio per questo riferimento costitutivo allo Spirito, questo popolo non può smettere di camminare lungo le strade della storia. Un anno fa, commentando i lavori del Concistoro straordinario sulla nuova evangelizzazione, l’allora card. Bergoglio aveva ben chiarito qual è il suo modello di Chiesa: «Si deve uscire da se stessi, andare verso la periferia. Si deve evitare la malattia spirituale della Chiesa autoreferenziale: quando lo diventa, la Chiesa si ammala. È vero che uscendo per strada, come accade a ogni uomo e a ogni donna, possono capitare degli incidenti. Però se la Chiesa rimane chiusa in se stessa, autoreferenziale, invecchia. E tra una Chiesa accidentata che esce per strada, e una Chiesa ammalata di autoreferenzialità, non ho dubbi nel preferire la prima» (TORNIELLI A., «“I mali della Chiesa si chiamano vanità e carrierismo”», La Stampa, 14 marzo 2013).

 

Riproponendo l’immagine conciliare della Chiesa come popolo in cui ciascuno ha un posto – nei fatti più assimilata dall’America Latina che dall’Europa –, papa Francesco afferma la dignità di ognuno dei suoi membri e l’importanza delle relazioni che li legano. Fin dalle sue prime parole ci ha ricordato come il ruolo di vescovo e di papa abbia una natura irriducibilmente relazionale: non vi è pastore se non c’è un gregge, e viceversa. Come in ogni relazione, tocca a ciascuno fare la propria parte, salvaguardando il fondamentale riferimento a Cristo. Così papa Francesco si affretta a decentrarsi rispetto a «Cristo che è il centro, il riferimento fondamentale, il cuore della Chiesa, senza il quale Pietro e la Chiesa non esisterebbero» (Discorso ai rappresentanti dei media, 16 marzo).

 

Il ruolo di vescovo di Roma

In questa linea si colloca anche una comprensione più sacramentale che istituzionale od organizzativa del proprio ruolo. Francesco si presenta al balcone della basilica vaticana affermando che la sua missione è quella di essere vescovo di Roma, senza riferire né a sé né a Benedetto XVI alcun altro titolo (come papa o pontefice). Così, ha scelto di mantenere la propria croce pettorale e lo stemma episcopale, collocando il pontificato in una linea di continuità rispetto al ministero episcopale svolto in precedenza. Fin dalle prime parole, Francesco si propone come il pastore di una Chiesa locale – certo con un ruolo particolare – chiamato a collaborare con tutti gli altri fratelli nell’episcopato, responsabili di altre Chiese locali. In questa prospettiva di collegialità, lo specifico di chi ha il compito di presiedere nella carità alla comunione non può che essere quello di farsi promotore del riconoscimento, della riconoscenza e dell’aiuto vicendevoli, mettendosi al servizio di tutti. Del resto anche Benedetto XVI, nell’omelia del Mercoledì delle ceneri, aveva indicato il compito di lavorare per l’unità della Chiesa, «superando individualismi e rivalità», tanto più che ciò «è un segno umile e prezioso per coloro che sono lontani dalla fede o indifferenti». In fedeltà ai primi gesti, anche papa Francesco dovrà mostrarsi consapevole che la propria spiritualità non è l’unica nella Chiesa e fare sì che il suo carisma non schiacci l’emergere di sensibilità diverse, anzi le favorisca.

 

Uno storico abbraccio

L’insistenza di Francesco nel definire se stesso e Benedetto XVI come vescovi di Roma ha colpito anche le Chiese e comunità cristiane non cattoliche. In particolare Bartolomeo I, patriarca ecumenico di Costantinopoli a cui fanno riferimento 300 milioni di credenti, ha deciso di guidare personalmente la delegazione della Chiesa ortodossa alla messa d’inizio del ministero petrino del vescovo di Roma: è la prima volta che questo accade dal Grande scisma del 1054, cioè da quasi un millennio. Anche se siamo frastornati da tante cose impensabili fino a pochi giorni fa, questa decisione di Bartolomeo I riveste una portata storica straordinaria. Non è qui possibile entrare nella complessità delle relazioni, spesso non così fraterne, tra cattolici e ortodossi. Merita però rilevare come il gesto del patriarca di Costantinopoli sia un segno di conferma che la dinamica istituzionale si sta attivando: un gesto di riavvicinamento e riconciliazione tra Chiese separate da mille anni rappresenta il riconoscimento su di un piano propriamente istituzionale di quel carisma di papa Francesco che le persone colgono nel contatto immediato.

 

La speranza, tra libertà e responsabilità

Se questi sono i primi passi del pontificato, verrebbe da dire «Ne vedremo delle belle». Confinarsi però in una posizione di spettatori, come quella che inevitabilmente occupiamo davanti agli schermi televisivi, sarebbe una scelta perdente. Non ci troviamo infatti di fronte a eventi che in qualche modo “cadono dal cielo”: non è questo il modo in cui guida la Chiesa lo Spirito di Colui che ha scelto di diventare uno di noi per salvarci. La possibilità che tutto questo accadesse è stata costruita grazie alla collaborazione umana. Il pensiero non può non andare al gesto altissimo di libertà e responsabilità di Benedetto XVI, senza il quale Jorge Mario Bergoglio sarebbe ancora arcivescovo di Buenos Aires: un gesto che ha liberato prepotentemente uno spazio, forzando la Chiesa a porsi in ascolto dello Spirito, con modalità al tempo stesso squisitamente profetiche e interamente istituzionali.

 

La nostra speranza si spegnerà rapidamente se non sapremo inserirci tutti, come singoli credenti, come Chiesa locale, come popolo di Dio, nella stessa dinamica di libertà e responsabilità, assumendo il compito che papa Francesco ha indicato nell’omelia della messa di inizio del ministero petrino (19 marzo 2013): «Custodire il creato, ogni uomo e ogni donna, con uno sguardo di tenerezza e amore», prendersi cura «specialmente dei bambini, dei vecchi, di coloro che sono più fragili e che spesso sono nella periferia del nostro cuore». Questo «è aprire uno squarcio di luce in mezzo a tante nubi, è portare il calore della speranza». Passati i giorni in cui il nuovo Papa è sotto i riflettori, inizierà ad attivarsi quel circuito di reciprocità tra pastore e gregge che papa Francesco ha come “seminato” all’inizio del proprio ministero. Il successo del pontificato che si è appena aperto, in particolare rispetto alla capacità della Chiesa di abitare in modo creativo e fecondo la tensione fra carismi e istituzioni, è affidato tanto alle mani di Francesco quanto alle nostre.

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