Nell’iride di Chagall

È l’artista che piace di più a papa Francesco, ma è anche uno degli artisti più originali di tutto il Novecento: Marc Chagall. Già consapevole che sarebbe giunto un tempo in cui non avremmo più amato leggere, volle realizzare un libro scritto con pennello e colori, per gettare in faccia – come amava dire – a questo nostro secolo un guanto a sette dita (i sette colori dell’iride) e svegliarlo dal suo torpore.

Nel Museo biblico di Nizza egli ci fa percorrere in 12 passi tutta la grande storia d’amore di Dio con il suo popolo, 12 passi che liberano una miriade di forme e colori, capace di rievocare la grande tradizione ebraico-cristiana. Uno di questi (qui vedete l’immagine ingrandita, ndr) sigilla l’incontro di Abramo con i tre angeli. Un’icona biblica che per la tradizione cristiana rappresenta la prima rivelazione della Trinità (la cui solennità è in calendario domani). La moderna esegesi prende le distanze da questa interpretazione dei padri, pur tuttavia l’arte cristiana è profondamente segnata dalla loro intuizione. Abramo, sofferente per la circoncisione, incontra tre personaggi ma si rivolge loro parlando a un singolo. Parlò con quell’Uno di cui conosceva l’identità, ma già ricevette, quale amico di Dio, la rivelazione della Trinità.

 

Chagall dipinse questa scena prendendo a modello l’icona dell’artista russo Andrej Rublev dal titolo, appunto, la Trinità. Benché esplicita la citazione di Chagall dell’artista conterraneo, le differenze raccontano il modo dell’uomo contemporaneo di confrontarsi col Mistero. L’oro in cui è immerso il banchetto di Rublev è diventato in Chagall rosso fuoco, come le trame tormentose della storia moderna. La tavola aperta, con gli angeli frontali che lasciano libero un lato della mensa per invitarci a sedere, lasciano il posto a tre angeli colti di spalle, i quali non ci guardano affatto e la cui mensa è nascosta dalle loro stesse ali. Che cosa è accaduto fra Rublev e Chagall? Fra i due passa il secolo dei lumi, la rivoluzione francese, le grandi filosofie moderne, fra Rublev e Chagall passa l’identità di un uomo che ha perso la sua origine. Abramo parla con l’unico angelo di profilo, i colori dell’abito del patriarca, infatti, si riflettono in quelli dell’angelo che rappresenta Dio Padre. Gli altri due angeli, invece, sono più decisamente di spalle e hanno ali bianchissime. Uno (a destra) ha la tunica viola, il colore che Chagall assegna alla sofferenza. È l’immagine di Cristo, il più vicino al Padre. L’altro angelo, invece, bianco con una striatura verde – colore della vita –, rappresenta lo Spirito Santo. È lui che indica con la mano quel banchetto. È per lo Spirito infatti che pane e vino divengono Corpo e Sangue di Cristo.

 

In questa immagine biblica della prima teofania della Trinità Chagall ci racconta molto dell’uomo moderno il quale, avendo perduto l’intimità di quel banchetto divino, volta le spalle al Mistero. Così facendo però volta le spalle a se stesso e alla sua origine. Forse per questo Chagall pone sullo sfondo la mano di Dio che chiama Abramo a uscire da Ur dei Caldei, vale a dire dalla fornace ardente dell’idolatria per andare verso se stesso (leck leckà). Ritroviamo il patriarca (seguendo la direzione della mano di Dio) nell’angolo destro della tela. Lì Abramo in mezzo ai tre angeli scopre la sorte di Sodoma e Gomorra e intercede per le due città.

 

Così Chagall addita all’uomo, che non percepisce più Dio come una presenza amica, all’uomo che annaspa dentro il panorama arrossato della sua solitudine, la via per ritrovare se stesso, quella stessa che fu di Abramo (leck leckà! Va verso te stesso), la via per uscire da Sodoma e Gomorra: ed è precisamente la via della familiarità con Dio, quella che conduce alla mensa con lui.

http://www.avvenire.it/Commenti/Pagine/familiaridellaTrinita.asp

 

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