La voce del desiderio

La Fonte, di san Giovanni della Croce:
luogo e data di composizione

di Salvador Ros García ocd – trad. Carmela Alessandro

La poesia Qué bien sé yo la fonte, insieme alla Romanza sul Vangelo “In principio erat Verbum”, l’altra Romanza Super Flumina Babilonis e le prime 31 strofe del Cantico Spirituale, fu composta in amare circostanze, durante la prigionia toledana, laddove il poeta mistico rimase prigioniero per un periodo di 9 lunghi mesi (da inizio dicembre del 1577 fino a metà agosto del 1578), in quella che è stata chiamata, eufemisticamente, prigione (ma che in realtà non era altro che «la cavità di un muro, larga 6 passi e lunga 10, priva di luce e di presa d’aria, ma dotata di una apertura in alto larga non più di 3 dita, perché, nel momento in cui era stata allestita come bagno di questa sala, nella quale introdurre un servizio per quando sarebbe stato ospitato qualche alto prelato, non le avevano più fornito luce»), e in condizioni disumane, di assoluto isolamento fisico e spirituale, dato che gli fu negato persino il conforto di celebrare la messa.
In quella prigione, in quelle condizioni che misero a dura prova la forza fisica, psicologica, e spirituale di Giovanni, avvenne il famoso decollo della sua eccezionale lirica. All’inizio, senza foglio, senza inchiostro, persino senza luce e senza nessun altra lettura, oltre quella del libro delle preghiere e un libro di devozioni, il prigioniero inseguì versi che aveva custodito nella sua memoria; dopo, grazie alla benevolenza del suo secondino che gli fornì l’utile e indispensabile, trasferì sul foglio quei versi aurorali, che forse riuscì anche a pulire e completare. Fu così che compose il libretto delle 4 parti poetiche che portò con sé, quando una notte d’agosto inoltrato, e con la complicità del buon secondino, fuggì dalla prigione toledana.
Per quanto riguarda la data esatta nella quale avrebbe composto la poesia che ci interessa, José Vicente Rodrìguez propose già qualche tempo fa, con valide motivazioni, la possibilità secondo la quale il motivo ispiratore sarebbero state le feste liturgiche della Santissima Trinità e del Corpus Christi, che secondo il calendario del 1578 avvennero rispettivamente nei giorni 25 e 29 maggio, quando il prigioniero disponeva già dei suoi strumenti per poter scrivere. Tuttavia, la maggior parte dei critici non sembrano essersi resi conto di una simile proposta, pertanto ancora oggi si continua a ripetere, per inerzia e senza dati certi, della possibilità di una data più tarda: intorno alla festa dell’Assunzione, a metà agosto, alla vigilia della fuga.
L’episodio del carcere fu certamente il più drammatico della sua vita, anche il più suggestivo, a volte quasi l’unico rimasto impresso nella mente di tutti, anche se a dire il vero la cosa più ammirevole di tutta la vicenda è che sia andata così come è andata, che al posto di tirar fuori frustrazione e aggressività sia stato capace di tirar fuori il meglio di sé, fino al punto di arrivare a chiedersi se davvero sarebbe stato in grado di sopravvivere in quelle condizioni e per così tanto tempo senza dedicarsi a comporre quelle poesie. «La poesia – si chiedeva Juan Ramòn Jiménez – nasce dalla vita o la vita dalla poesia?». Nel caso di San Giovanni della Croce: «Non sarebbe più corretto dire che la poesia esiste per far nascere da quei versi la vita che volevano sottrargli, il desiderio più profondo senza il quale nessun essere umano potrebbe sopravvivere? Questa incalzante necessità, come ricorderebbe più avanti Rilke nelle sue Lettere a un giovane poeta, è l’origine di tutta l’opera d’arte:

«Un’opera d’arte è buona quando nasce dalla necessità. In questa indole della sua origine vi è il suo giudizio, non c’è altro. Ecco perché, mio distinto amico, non riuscirei a darle altro consiglio al di fuori di questo: entrare in sé stessi ed esaminare gli abissi dal quale origina la vita. In questa fonte troverà la risposta alla domanda relativa al fatto se è necessario creare».

La creazione poetica di Giovanni della Croce nella prigione di Toledo sembra rispondere, effettivamente, a questo inizio di necessità annunciato da Rilke:

«Entri in se stesso. Esamini questo fondamento che lei chiama scrivere; metta alla prova la capacità di estendere le sue radici fino al luogo più profondo del suo cuore; si domandi se lei morirebbe se le proibissero di scrivere. Questo soprattutto: si chieda nel momento più silenzioso della notte «Devo scrivere?» Scavi in sé stesso, alla ricerca di una risposta profonda. E se quest’ultima dovesse essere di approvazione, se lei dovesse imbattersi in questa terribile domanda con un deciso e semplice devo, allora costruisca la sua vita secondo questa necessità. Provi, quindi, come il primo uomo, a dire ciò che vede e ciò che prova, ama e perde… E anche se si trovasse in un carcere, le cui pareti non lasciassero arrivare ai suoi sensi nessuno dei rumori del mondo «Non continuerebbe a preservare sempre la sua infanzia, questa ricchezza preziosa, regale, il tesoro dei ricordi? Riconcentri lì la sua attenzione. Cerchi di far riemergere le sensazioni sommerse di questo ampio passato».

I commenti di Rilke sembrano condurci alla fonte stessa della lirica sangiovannista, a questi meandri dai quali origina la vita:

Max Hunziker, Illustrazione da Salterio, 1966

«Quello di cui si ha bisogno è solamente questo: solitudine, tanta solitudine interiore. Entrare dentro di sé e non vedere nessuno per ore e ore. Stare da solo, come si stava soli da piccoli, quando i più grandi andavano in giro occupati con cose che sembravano importanti e impegnative, perché i grandi sembravano tanto occupati e perché non si capiva nulla di ciò che facevano…Pensi al mondo che porta dentro di sé, lo chiami come vuole questo pensiero; sarebbe bene definirlo ricordo della propria infanzia o desiderio del proprio futuro, però stia attento davanti a ciò che si scaturisce in sé, e lo metta innanzi a tutto ciò che osserva intorno. Il suo avvenimento più intimo è degno di tutto il suo amore; deve lavorare in esso in un modo o nell’altro, e non perdere né troppo tempo né metterci troppa forza nel spiegare alla gente la sua condizione».

Alla fine, la prigione toledana fu per Giovanni della Croce «come una ricca miniera con molte vene di tesori, nei quali lo spirito non può né arrivare né avere accesso se, non passa prima dalla divina sapienza, mediante la strettoia del patire interiore ed esteriore» (CB 37,4), «perché il più puro patire produce un più profondo e puro comprendere e, di conseguenza, anche un più puro e sublime godere, perché è un più profondo sapere». Qualcosa di simile a quello che un altro illustre prigioniero, frate Luis de Leòn, spiegava della sua prigionia a Valladolid, gli effetti positivi di quel «tempo libero» che gli avrebbe permesso di completare un’altra opera importante della letteratura spagnola:
«Poiché la vita passata, occupata, laboriosa, mi ha impedito di mettere in atto questo mio desiderio e giudizio non credo di perdere l’occasione di questo «svago» in cui mi hanno riposto l’insulto e la cattiva volontà di alcune persone; perché, anche se sono tanti i lavori che mi circondano, hanno placato il mio animo con tanta pace, che, non soltanto nell’emendamento delle mie abitudini, ma anche nel mondo della verità, adesso vedo e posso fare ciò che prima non facevo. E il Signore ha fatto di questo lavoro la mia luce e la mia salute, e con le mani di coloro i quali hanno tentato di farmi del male, ha preso il mio bene».

Struttura della poesia

Oltre al dittico iniziale che funge da titolo, la poesia si presenta chiaramente con una struttura tripartita (tipica di Giovanni della Croce), sviluppata in tre tempi:
a. Nelle prime 5 strofe, il poeta spiega la conoscenza di una fonte misteriosa, distante e intima allo stesso tempo, e delle sue proprietà benefiche;
b. Nelle successive 3 strofe, dice di conoscere anche il dinamismo di quella fonte, che fuoriesce da se stessa, si riversa in alcune grandi correnti che raggiungono le estremità del globo;
c. Nelle ultime 3 strofe, il poeta non parla più di conoscenza, ma di uno stato di unione intima con la fonte, così identificata con essa che sono la stessa cosa.
Per quanto riguarda il suo tema, non bisogna dimenticare che questa poesia nacque insieme alla prima versione del Cantico (CA), nel quale si parla pure di una «sorgente cristallina» (strofa 11) alla quale il poeta mistico chiedeva la realizzazione del suo desiderio, che le riflettesse «gli occhi desiderati / che nelle mie viscere ho impressi», lo sguardo dell’Amato che porta dentro di sé. Questo verso 11 -«Oh sorgente limpida / se in quei tuoi volti argentati / si formassero all’improvviso / gli occhi desiderati / che nelle mie viscere sono impressi» è la chiave nel percorso del Cantico, segna la fine della ricerca da parte dell’amata e la prima apparizione dell’Amato. Come ben disse Josè Angel Valente «è il fulcro del Cantico» per il quale «in qualche modo, il Cantico dovrebbe essere letto dal canto 11». E questo – aggiungiamo- si dovrebbe leggere dalla poesia Qué bien sé yo la fonte, perché anche se in linea di massima sembrano diverse – la fonte del Cantico è statica; quest’altra è dinamica, «sgorga e scorre», dando vita sul suo cammino tutto un brivido cosmico -, in realtà sono uguali, si tratta della stessa spettacolare sorgente notturna – di «volti argentati» nel Cantico, di luminosità spettrale, lo stesso che dice la cadenza ripetitiva «aunque es de noche» -, ed entrambe con lo stesso significato simbolico: la fonte come luogo d’incontro, di assoluta trasparenza, dove si mostra l’obiettività dell’amore, la visione del desiderio.

L’esperienza del contenuto: il «desiderio abissale»

«La poesia è la voce dell’ineffabile – diceva Juan Ramòn Jiménez-. A pochi poeti è stata data quella voce. In Spagna l’ebbe San Giovanni della Croce». Seguendo questa intuizione, si potrebbe dire che per il mistico Carmelitano la poesia è prettamente la voce del desiderio, perché il desiderio, nella sua essenza, è anche ineffabile, la sua origine e la sua finalità vanno al di là delle parole. Giustamente si è detto che il desiderio è il sinus cordis, il seno del cuore dell’uomo (Sant’Agostino), il conatus essendi, l’impulso di completarsi, l’essenza stessa dell’uomo (Spinoza).
Il desiderio è normalmente il desiderio di qualcosa. Desideriamo ciò di cui abbiamo bisogno, che ci è indispensabile per realizzarci in quanto soggetti. A questo primo livello appartengono gli innumerevoli desideri orientati verso i beni concreti, che soddisfano le nostre svariate necessità che servono a giustificare tutto ciò che facciamo. Ma se analizziamo in profondità il mistero del cuore umano, al di sotto di molteplici desideri pulsa un radicale desiderio che non dipende più dal soggetto, prima di lui, nel quale esso è coinvolto e che, più che orientarlo verso il possesso di un bene mondano, suscita in lui una tendenza che nessun bene è in grado di calmare.
Questo è ciò che gli autori medievali chiamavano il desiderium naturale videndi Deum, il desiderio naturale di vedere Dio, cioè il desiderio di Dio stesso, nel quale la sua definizione è allo stesso tempo la sua origine, al quale l’uomo è sempre aperto/disponibile, ma con il quale non riesce a coincidere perché è l’origine dal quale costantemente si delinea; e naturale perché non è un desiderio aggiunto allo spirito umano, ma costitutivo del suo essere, espressione dell’essere umano come essere-per-Dio.
Anche San Giovanni della Croce fa riferimento a quel livello profondo del desiderio quando fa una distinzione tra i tanti desideri e ciò che desidera il proprio cuore «Nega i tuoi desideri e scoprirai ciò

Max Hunziker, Illustrazione da Salterio, 1966

che desidera il tuo cuore», cioè, il desiderio che è il tuo cuore. E per mostrare la profondità di quel desiderio, che è il cuore dell’uomo, utilizza un aggettivo proprio «desiderio profondo», cioè desiderio abissale, desiderio incomprensibile per l’uomo come lo sono gli abissi.
Dunque, al di sotto dei desideri che l’uomo produce, esiste il desiderio che li rappresenta, il desiderio di infinito che soltanto l’infinito è riuscito ad imprimere su di noi facendoci a sua immagine – «il desiderio dell’uomo è il desiderio dell’Altro» – ed è per questo che parla ad alta voce di coloro i quali l’hanno riposto in noi e ci guida costantemente oltre ciò che ci offrono i diversi oggetti mondani che coincidono con i nostri desideri a noi più vicini. Il contenuto di quel desiderio radicale è il Sommo Bene, o con un altro nome la felicità, qualcosa che ogni uomo vede nel proprio cuore, che «desidera in modo naturale e soprannaturale» (CB 38,3). In questo senso si potrebbe definire Dio come la fonte del desiderio «perché il desiderio di Dio è la volontà di unirsi a lui» (LIB 3,26).
L’uomo appare così come un essere che aspira a essere qualcosa che può diventare realtà solo mediante il dono di colui al quale aspira il suo desiderio. Di conseguenza, il viaggio dell’anima verso Dio, secondo San Giovanni della Croce, si riassume in quella fase di purificazione dei molteplici desideri di appetito che portano l’uomo fuori di sé, verso gli oggetti di quei desideri, quello che davvero desidera il suo cuore, verso la presenza di colui che procede e con il quale può ritrovarsi soltanto andando oltre sé stesso.
Ebbene, questa esperienza del «desiderio abissale» è quella che il poeta mistico canta e racconta nella poesia Qué bien sé yo la fonte que mana y corre, la scoperta del contenuto finale del soggetto, in cui si può dire senza una traccia di panteismo che «il centro dell’anima è Dio» (LIB 1,12) e che si raggiunge in una discesa analoga a quella descritta da Teilhard de Chardin:

«Dunque, forse per la prima volta in vita mia (io che dovrei meditare ogni giorno) presi una lampada e abbandonando la zona delle mie attività e delle mie relazioni quotidiane, che sembrava chiara/esplicita, raggiunsi la parte più intima

Max Hunziker, Illustrazione da Salterio, 1966

di me stesso. Ad ogni gradino che scendevo, scoprivo in me l’esistenza di un altro personaggio, a cui non potevo dare un nome esatto e che non mi obbediva più. E quando dovetti interrompere la mia esplorazione, perché mi mancava il terreno sotto i piedi, mi ritrovai in un abisso senza fondo, dal quale originava, provenendo da non so dove, il flusso che oso chiamare la mia vita. Fu allora che, emozionato per la mia scoperta, volli uscire alla luce del sole, dimenticare l’inquietante enigma nell’ambiente rassicurante delle cose familiari, ricominciare a vivere in superficie, senza sondare incautamente gli abissi. Ma è qui che, sotto lo stesso spettacolo delle agitazioni umane, vidi riapparire davanti ai miei occhi la persona sconosciuta che voleva fuggire. Questa volta non si stava nascondendo nel profondo di un abisso: si nascondeva ora sotto la moltitudine di pericoli ingarbugliati, dove si forma l’ordito dell’Universo e quella della mia piccola individualità. Però era lo stesso mistero: l’ho riconosciuto… Si, Dio mio, ci credo: e ci credo molto fermamente, in quanto in esso non è in gioco solo la mia tranquillità, ma la mia realizzazione; Tu sei colui che sta all’origine dell’impulso e al termine di quell’attrazione. Nella vita che scorre in me, in questa materia che mi sostiene, trovo qualcosa di meglio dei tuoi doni: scopro te stesso; Te, che mi rendi partecipe del tuo essere e che mi plasmi».

Un’esperienza che nel linguaggio religioso del mistico Carmelitano corrisponde con il fidanzamento spirituale, «l’anima, in questo stato di fidanzamento spirituale, si trova con quella grande forza di desiderio abissale per l’unione con Dio, così come la pietra quando con grande impeto e velocità raggiunge il suo centro» (CB 17,1), «Dio essendo qui l’amante principale, che con l’onnipotenza del suo amore abissale assorbe l’anima in sé stesso con maggiore efficacia e forza di un torrente di fuoco» (CB 31,2).

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