Più che riguardare solo il “fare”, la nuova evangelizzazione dipende in primo luogo dalla preghiera – una lezione che il monachesimo insegna bene.
di Colin O’Brien
Quando parliamo di “nuova evangelizzazione”, tendiamo a pensare ai tanti modi attivi in cui la Chiesa cerca di impegnare il mondo e di condividere il Vangelo con esso. Dagli eventi speciali su larga scala come le Giornate Mondiali della Gioventù e l’Anno della Fede terminato di recente all’opera quotidiana a livello diocesano e parrocchiale nell’evangelizzazione, nella catechesi, nel ministero pro-vita e nel servizio ai poveri e ai sofferenti, agli sforzi di laici e clero nei social media per spiegare la fede in blog, conferenze e pubblicazioni – è facile verificare come siamo una Chiesa davvero impegnata che fa molto per promuovere la Buona Novella. A livello di vocazioni, una delle crescite più consistenti negli ultimi anni si è verificata in ordini con apostolati visibili e attivi, come quelli dei frati domenicani della Provincia Orientale e le suore dominicane di Ann Arbor (Michigan, USA) e Nashville (Tennessee, USA). Un aspetto meno evidente ma non meno necessario di questo grande sforzo si trova nella vita di contemplazione, soprattutto in quella degli ordini monastici contemplativi. Per avere un quadro più completo di questo sforzo di condividere la Buona Novella, dobbiamo esplorare il ricco dono della testimonianza culturale, della preghiera e della santità personale che gli ordini monastici (in particolare l’ordine benedettino e quello cistercense) hanno dato alla Chiesa nella storia fino ad oggi.
Una chiamata a qualcosa di più grande
Fin dai primi giorni della Chiesa, uomini e donne sono stati chiamati da Dio a vendere ciò che possedevano, a rinunciare all’attaccamento ai beni del mondo e a scegliere una vita di preghiera, solitudine e più intima unione a Dio. Seguendo l’esempio di Gesù che pregava e digiunava nel deserto prima di iniziare il suo ministero pubblico, hanno lasciato paesi e città per condurre una vita eremitica nel deserto egiziano. Sappiamo di questi primi monaci e monache – i Padri e le Madri del Deserto – attraverso la loro saggezza, registrata e trasmessa a noi nel corso dei secoli. Il grande monaco egiziano Sant’Antonio, la cui vita viene narrata da Sant’Atanasio, è un primo esempio di uomo che vendette tutto ciò che aveva e si ritirò nel deserto. Dopo molti anni di digiuno rigoroso, preghiera, tentazioni e attacchi del demonio, Sant’Antonio divenne noto come uomo santo. Sant’Atanasio scrive di lui come di un uomo divinizzato dal suo abbandono di sé e dal suo attaccamento a Cristo.
Questi eremiti del deserto iniziarono ad attirare discepoli, e nel corso del tempo iniziò a prendere forma un nuovo stile di vita: quella cenobita, o vita di comunità. Più che vivere come eremiti solitari, uomini e donne iniziarono a formare comunità come luoghi in cui dei maestri spirituali potevano impartire il proprio insegnamento ad altre persone dalla mentalità simile alla loro che desideravano crescere in santità. Da questa esperienza comune derivarono le regole monastiche, il governo della comunità sotto un abate, la vita liturgica comune e l’attività commerciale come
mezzo di autosostentamento.
Nella Chiesa occidentale, la grande e definitiva innovazione culturale della Regola di San Benedetto si è verificata nel VI secolo. La sua semplice Regola presenta principi organizzativi per una vita di preghiera, fraternità e carità comunitaria. Un conseguente rinnovamento della fede sotto la Regola benedettina da parte dei fondatori cistercensi nel 1098 portò una nuova vitalità alla Chiesa che serve come buon esempio per noi oggi di tre principi essenziali: testimonianza culturale, preghiera e santità personale.
La testimonianza culturale della vita monastica serve come correttivo di alcuni eccessi e mancanze della cultura secolare in molti modi unici, perfino in contrasto con altre forme di vita consacrata cattolica. Il più visibile di questi è forse la vita monastica stabile, in cui un monaco o una monaca professo fa il voto di restare nella propria comunità fino alla morte. Con questo voto, il monaco o la monaca si impegna a rimanere nel monastero e con la comunità di fratelli o sorelle. In un’epoca non solo di grande instabilità familiare a causa del divorzio e di altre offese contro la lealtà e l’impegno interpersonale, ma anche di grande mobilità, è un atto singolarmente “controcultura” dire “Rimarrò qui, su questo pezzo di terra e in questi edifici, con questo gruppo di fratelli, fino alla morte”. Il cimitero monastico serve come promemoria silenzioso di questo voto, e perfino i membri defunti della comunità monastica sono ricordati e inclusi nella vita del monastero. Questo voto di stabilità è tipico della vita benedettina; mentre altri ordini religiosi osservano voti di povertà, castità e obbedienza, gli ordini monastici fanno il voto di stabilità, obbedienza e “conversione di vita”, perché un monaco o una monaca si impegna a conformarsi sempre più da vicino a Dio, ai precetti della Regola e alle caratteristiche della comunità monastica specifica.
Vedere la gloria nelle cose ordinarie
Il tratto della vita monastica forse più preminente è la disciplina del silenzio. Malgrado l’immaginario popolare, non c’è alcun “voto del silenzio” monastico; i monaci, piuttosto, parlano quando è necessario nel corso delle attività lavorative, o quando si incontrano privatamente in aree appositamente designate del monastero. I pasti sono consumati in silenzio, con uno dei fratelli che legge un libro mentre gli altri mangiano. Questa cultura del silenzio si estende al di là dei semplici discorsi; radio, televisione, film, telefoni cellulari e perfino i colori squillanti sono del tutto assenti. Questa “deprivazione sensoriale” fatta di silenzio, colori neutri ed eliminazione di ogni distrazione aiuta i monaci a rivolgere il proprio pensiero a Dio. Questa testimonianza di silenzio è assai potente in un mondo che sembra assalire i suoi abitanti con sempre più stimoli. Nel silenzio, ci confrontiamo con il nostro vero io: i nostri ricordi, i nostri desideri, le nostre tentazioni, le nostre lotte e le nostre gioie. Nel fare questo, iniziamo a vedere il nostro profondo bisogno di Dio, e del Suo amore per noi. È stato in questo intenso silenzio e in questa solitudine che sono giunto a vedere quanto fosse gravosa la mia peccaminosità, e, per estensione, quanto sia grande l’amore di Dio per noi, al punto da mandare Suo figlio per prendere il peso di tutti i nostri peccati per l’eternità.
Un altro aspetto della testimonianza culturale monastica si ritrova nella vita di lavoro manuale e di preghiera. Le comunità di monaci e di monache hanno sempre cercato di sostenersi attraverso un lavoro manuale di qualche tipo più che mediante donazioni, come negli ordini mendicanti come i domenicani e i francescani. Il lavoro monastico è stato tradizionalmente agricolo e zootecnico, e i monasteri si sostenevano con la vendita dei prodotti; questa tradizione è particolarmente forte tra i trappisti e i cistercensi. In contrasto con una cultura diffusa che spesso valorizza la produttività, l’efficienza e un lungo orario lavorativo, l’approccio monastico al lavoro è “controcultura” come il voto di stabilità. I monaci trappisti dell’abbazia di New Melleray, ad esempio, svolgono ogni giorno tra le 4 e le 4 ore e mezza di lavoro manuale, lavorando in giardino, svolgendo i compiti assegnati intorno al monastero o lavorando nella fabbrica di bare che fornisce la maggior parte degli introiti della comunità. Quest’opera è intesa come un’estensione più che come un’interruzione della vita di preghiera del monaco; è quindi richiesto uno spirito di devota attenzione per il lavoro manuale. Nulla è fatto in modo frettoloso o avventato, o annunciato rumorosamente. Papa Benedetto XVI lo ha riassunto al meglio nel suo discorso ai rappresentanti del mondo della cultura durante la sua visita in Francia nel 2008: “il lavorare degli uomini doveva apparire come un’espressione particolare della loro somiglianza con Dio e l’uomo, in questo modo, ha facoltà e può partecipare all’operare di Dio nella creazione del mondo” [1].
Questo atteggiamento nei confronti del lavoro si riflette nella Regola benedettina, che chiede di non preferire nulla al lavoro di Dio, ovvero alla preghiera liturgica comune dell’Ufficio Divino. Questa enfasi sulla vita di preghiera è il secondo aspetto del ruolo contemplativo nella nostra nuova evangelizzazione; ponendo al primo posto la preghiera liturgica, il monaco cerca di santificare il tempo in sé seguendo lo stesso schema di preghiera liturgica giorno dopo giorno e anno dopo anno nello stesso modo, e cerca di santificare un luogo fisico specifico mediante il suo voto di stabilità. Osservando la devozione dei monaci per l’Ufficio Divino, ci viene ricordato che l’Ufficio è un’altra grande azione liturgica della Chiesa oltre alla Santa Messa.
Essere nel mondo ma non del mondo
Anche se i monaci e le monache conducono vite nascoste in silenzio, offrono le proprie preghiere per la Chiesa e per il mondo. Grazie alle preghiere costanti e potenti delle comunità contemplative a favore di quanti non possono o non vogliono pregare, e per la conversione di tutti i popoli a Cristo, sono spesso paragonati a un “cuore” o a un “motore” per la missione evangelizzatrice della Chiesa. Il Concilio Vaticano II, nel suo documento “Ad Gentes” sull’attività missionaria della Chiesa, afferma che “gli istituti di vita contemplativa con le loro preghiere, penitenze e tribolazioni, hanno la più grande importanza ai fini della conversione delle anime; perché è Dio che, in risposta alla preghiera, invia operai nella sua messe, apre lo spirito dei non cristiani perché ascoltino il Vangelo, e rende feconda nei loro cuori la parola della salvezza” [2]. Ci viene quindi ricordato che non è mediante i nostri sforzi, ma piuttosto attraverso la grazia di Dio che si realizza l’evangelizzazione del mondo. I monaci dell’abbazia di New Melleray concludono una delle loro veglie di preghiera mattutine con una preghiera toccante e bellissima per “coloro che sono malati, coloro che non riescono a dormire, coloro che stanno usando questa notte per scopi malvagi e coloro che temono l’arrivo del giorno”. Che grande rassicurazione è sapere che questi uomini e queste donne stanno pregando per noi!
Incontrare monaci e monache è sperimentare l’ultimo elemento chiave del ruolo dei contemplativi monastici nella Nuova Evangelizzazione: la santità personale del singolo monaco o della singola monaca. In termini semplici e materialistici, la vita contemplativa sembra quasi inutile; a differenza dei religiosi che educano, curano i malati, assistono le donne con gravidanze critiche, fanno fronte ai bisogni materiali dei poveri o si recano in terre lontane per predicare il Vangelo, i monaci e le monache non sembrano “fare” molto. Recitano l’Ufficio Divino, assistono alla Messa, leggono le Scritture e accolgono gli ospiti che arrivano nei loro monasteri. La formazione continua nel silenzio, nella preghiera, nella lectio divina, nella penitenza e nella solitudine li aiutano però a raggiungere un’unione sempre più profonda con Dio. È stata questa la motivazione dei primi Padri e delle prime Madri del Deserto, così come dei monaci dell’XI e del XII secolo e anche dei monaci e delle monache della nostra epoca. San Bernardo di Chiaravalle, il più grande padre cistercense e dottore della Chiesa, ha scritto che “la causa dell’amore di Dio è Dio stesso, e la sua misura è amare senza misura”.
Venendo trasformati da questo amore smisurato per Dio, i monaci e le monache sperano di diventare simili a Lui, come Sant’Antonio. Paradossalmente, le loro lampade non possono essere nascoste sotto il moggio dei loro monasteri: San Bernardo ha esortato a predicare, a incoraggiare e a ingaggiare dispute; Sant’Anselmo è stato nominato arcivescovo di Canterbury; l’erudito benedettino Jean LeClercq, scrivendo di San Gregorio Magno, lo ha descritto come un “contemplativo condannato all’azione”[3]. Il mondo, desiderando ardentemente di ascoltare la Buona Novella, ha cercato nel corso della storia la santità e la saggezza dei monaci e delle monache contemplativi, e oggi non dovrebbe essere diverso se vogliamo che la Nuova Evangelizzazione abbia successo. Possiamo farlo pregando per gli ordini monastici, visitando i monasteri per dei ritiri e imparando la spiritualità e la storia monastiche attraverso gli scritti dei grandi teologi e maestri monastici. Nella sua enciclica sugli insegnamenti di San Bernardo di Chiaravalle, papa Pio XII metteva in guardia sulla necessità di quella che oggi chiamiamo Nuova Evangelizzazione scrivendo: “Un che d’inquieto, d’angustioso e di trepido penetra nell’animo umano: c’è proprio da temere che, se la luce del Vangelo a poco a poco diminuisce e languisce in molti, o – peggio ancora – se viene respinta del tutto, verranno a crollare i fondamenti stessi della civiltà e della vita domestica; e in tal modo verranno tempi anche peggiori e più infelici” [4]. Dio ascolti le preghiere dei nostri monaci e delle nostre monache, possa sempre aumentarne il numero e la santità e possa garantirci la Sua salvezza.
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Notes:
1. Papa Benedetto XVI, Incontro con il mondo della cultura al Collège des Bernardins, Parigi, 12 settembre 2008.
2. Concilio Vaticano II, decreto Ad Gentes sull’attività missionaria della Chiesa, #40.
3. LeClercq, Jean, “The Love of Learning and the Desire for God: A Study of Monastic Culture”, p. 28. New York, Fordham University Press, 1961.
4. Papa Pio XII, enciclica Doctor Mellifluus, 24 maggio 1953.
Colin O’Brien ha completato un’osservazione di sei settimane con la comunità trappista dell’abbazia di New Melleray vicino Dubuque (Iowa, Stati Uniti) nella primavera 2013, ed è affiliato al monastero come laico attraverso il suo programma Monastic Center. Attualmente lavora nel Dipartimento per le Comunicazioni della Conferenza dei Vescovi Cattolici Statunitensi* (USCCB), e in precedenza ha lavorato in campo giuridico a New York City. Aggiorna periodicamente il suo blog personale, “Fallen Sparrow”, e canta nel coro della sua parrocchia.
È originario di Minneapolis e ha studiato Filosofia all’Università del Minnesota. Risiede nell’area di Washington, D.C..
(*Il commento precedente rappresenta la visione personale di O’Brien e non riflette quella della USCCB)
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