Il senso delle cose e il senso di Gesú Cristo

Paul Gauguin, Cristo giallo, Buffalo (USA), Albright-Knox Art Gallery

Cristo, nostro segno infinito di Alessandro Romano ocds

La domanda sul senso totale dell’esistenza è propria di coloro che, cercando la verità, trovano Dio e il suo eterno abbraccio d’amore. Esistono, ci sono sempre state, le anime assetate di quella Verità che sostiene ogni cosa e che gli è quasi di garanzia per l’avventura sulla ricerca del senso della vita a partire dalla questione del tutto. Tracciamo ora un breve itinerario che dalla vanità delle cose finite si orienta verso la pienezza tanto metafisica quanto spirituale dell’esperienza cristiana.
Partendo dalla Scrittura, lasciamoci provocare da un certo scandalo pessimista, formulato in uno dei libri più severi della Scrittura, il Qoelet (o Ecclesiastico), che così si apre ed anche si chiude: «Vanità delle vanità, tutto è vanità». Queste santissime parole appartengono a un realismo che non può recar alcun danno alla vita spirituale della Chiesa di oggi, di ieri e di domani; può e deve anzi nutrirla con una Parola ringiovanita dalla preghiera e nella preghiera.
Realismo: ancor più che una corrente filosofica, una virtù, modus vivendi particolarmente caro alla fede cristiana. Ciò che è reale, la primizia, per così dire, del reale, per noi figli della luce è il Verbo fatto carne, «per mezzo del quale sono state create tutte le cose». Ma prima di coronare la questione con la Risposta prima ed ultima che è Cristo Gesù, rimane da chiedersi anzitutto: per quale ragione “tutto è vano”? Quale visione della realtà sussiste al di là della forma un po’ cinica di un tale messaggio?
La soluzione è chiaramente espressa dall’autore sacro lungo tutto il suo breve libro, che delinea i fenomeni quotidiani della vita (cose, persone, azioni, desideri) così come si mostrano all’occhio contemplativo di chi cerca la verità tutta intera (Gv 16,13), e cioè fenomeni effimeri, fugaci e perciò insignificanti. Persino il sentiero più elevato, quello teologico della dedizione alla Legge, sotto questa luce, subisce una drastica riduzione 1. Tutto ciò che esiste è comunque destinato all’oblio, tutto ciò che è soggetto alla tirannia del tempo è oblio: la fine, questo nulla, assorbe il vissuto umano fino ad annullarlo.
Il motivo che soggiace al terribile sguardo disincantato di Qoelet risiede pertanto nel seguente sillogismo: se la cifra della vita dell’uomo è la finitudine; e se di quanto l’uomo si sforza a compiere non resta che polvere; allora la vita stessa, poiché mortale, non ha alcun senso, e non c’è nulla che non sia vissuto, e a ragione, come vanità. In questo stato di cose noi assisteremmo dunque inermi al dramma del divenire, l’inesorabile corso dell’esistenza creaturale, il segmento vitale tra la nascita e la morte che, almeno in senso logico e morale, ci sconfigge in partenza.
Come scrisse lo stagista inglese William Hazlitt: «La morte è il male più grande, perché recide la speranza» 2. Ma se anziché la speranza, ad essere reciso fosse lo stesso “male più grande” costituito dalla morte, la speranza non avrebbe forse motivo di riaccendere nel cuore e nella mente la sua luce? Se ci fosse stato dato qualcosa (o Qualcuno) a garanzia del fatto che la vita eterna è una realtà non solo possibile ma per di più germinata nel mondo, ed in modo sacramentale, come continuare a qualificare questo tempo reso sacro dalla grazia “vanità delle vanità”? Quando colui che cerca la verità trova un segno per il quale la morte non ha l’ultima parola sulla vita, il senso vacuo di Qoelet cede il posto alla sovrabbondanza della grazia di Dio in Gesù Cristo. Il segno per il quale potere “varcare la soglia della speranza” e vincere la vanità della vita lo riceviamo pertanto nella Resurrezione di Cristo, non soltanto perché è in Se Stesso garanzia di vita ultraterrena, ma molto di più perché qualifica questa vita terrena come cominciamento infinito della Città di Dio fra gli uomini.

Paul Gauguin, Autoritratto con il Cristo giallo, 1890-91, Parigi, Musée d’Orsay

A partire dal segno infinito del Cristo Risorto l’esistenza cristiana, nella vertigine della sua panica totalità, diventa integralmente sensata, perché nonostante sia vita terrena essa è radicata nel mistero di Dio. Capovolgendo Qoelet, proclamiamo con fede salda un nuovo ritornello che è l’inverso dell’elogio della vanità: “grazia delle grazie, tutto è grazia”. Pensando all’oggi non più come tempo morto e vano ma come kairos, cioè come quel tempo santificato dall’Eterno che lo ha assunto e trasfigurato, la dimensione umana si colora del medesimo oro con cui le icone sacre risplendono al sole, trasfigurandosi in una vita non più soltanto umana ma divina, l’anticipazione di quel Regno dei Cieli che Qoelet, a differenza nostra, non poteva conoscere.
Ma al contrario di lui, noi figli della Chiesa e del Carmelo, noi che «cerchiamo le cose di lassù perché siamo risorti con Cristo» (Col 3,1), noi «concittadini dei santi e familiari di Dio» (Ef 2,19), noi possiamo e dobbiamo ripetere a voce alta la mistica provocazione di Teresa di Gesù Bambino sulla totalità dell’essere: «tutto è grazia». Il Figlio trasfigura a Sé chi ha la volontà di farsi povero, casto e obbediente per il Regno, ed allora sì il verme «si rinchiude e muore, ma poco dopo esce dal bozzolo» (vanità delle vanità) «una piccola farfalla bianca, molto graziosa» 3. La vicenda umana è santificata dal Sangue del Signore: perseverare sulla via della vanità di Qoelet, come se la Pasqua di Cristo non avesse graziato la storia, equivarrebbe a una bestemmia; il realismo suddetto di questo messaggio addita pertanto Gesù Cristo come l’esclusiva speranza della vita, senza neanche temere di peccare di assolutismo verso Colui che, in quanto Dio, è l’Assoluto. […] Nondimeno in questa visione contemplativa della realtà non dobbiamo, di contraccolpo alla vanità, cadere nella trappola della esagerazione opposta, che vorrebbe fare della fede cristiana un idillio fascinoso astorico, cristallino e sospeso, come se la salvezza non passasse dal Sangue del Verbo fatto Carne […] Già nel 2009 il cardinal Georges Cottier ci metteva in guardia dal pericolo di una gnosi soggiacente alla formula “tutto è grazia” 4. San Paolo rivolge ai Romani un messaggio che lo Spirito continua a rivolgere ai credenti di tutti i luoghi e tempi: «Del resto, noi sappiamo che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio, che sono stati chiamati secondo il suo disegno».
E inoltre, dato lo scacco del male, della sofferenza e della drammaticità dell’esistere, ci si domanda ancora intorno alla veridicità di quanto detto […] Lasciamoci chiarire dal Doctor Angelicus che ci viene teologicamente in soccorso, spiegandoci come possa essere giustificata tale concezione: «Dio, essendo sommamente buono, non permetterebbe in nessun modo che nelle sue opere ci fosse del male, se non fosse tanto potente e buono da saper trarre il bene anche dal male» 5.
E nello specifico, questo “bene” non può che essere oblativo: il male, la natura con ogni suo limite si trasforma in occasione di grazia se vissuti nell’eroismo del sacrificio offerto in remissione dei peccati, a conformazione ed imitazione del Servo Sofferente, il Crocifisso, Colui che toglie il peccato dal mondo.
Completando in noi la Pasqua del Signore per la salvezza, tutto diventa grazia, ed al centro della storia sacra non troviamo più il luciferino schiamazzo dei demoni, ma l’Altare (Gesù Cristo) su cui i santi offrono se stessi come sacrificio vivente a Dio gradito ed attorno al quale la Sposa danza e canta la gioia di celebrare il Re dei re.
Dio solo è infinito ed eterno, ed è proprio per questa logica (Logos!) che, tra le infinite vanità dell’esperienza umana, «solo Lui basta».

NOTE

1 «Quando mi sono applicato a conoscere la sapienza e a considerare l’affannarsi che si fa sulla terra – poiché l’uomo non conosce riposo né giorno né notte – allora ho osservato tutta l’opera di Dio, e che l’uomo non può scoprire la ragione di quanto si compie sotto il sole; per quanto si affatichi a cercare, non può scoprirla. Anche se un saggio dicesse di conoscerla, nessuno potrebbe trovarla» (Qo 8, 16-17).
2 Characteristics: In the Manner of Rochefoucault’s Maxims (“Caratteristiche: alla maniera delle Massime di Rochefoucault”, opera aforistica del 1823).
3 Castello interiore, V Mansioni, 2,2.
4 «Un altro travisamento, riguardo a quello che Péguy definiva «il mistero e l’operazione della grazia», è il vezzo di vedere grazia dappertutto, che appare molto diffuso in ambiente ecclesiastico, anche tra molti autori e oratori che si ritengono esperti di questioni spirituali. È vero che anche santa Teresina di Lisieux, sul letto di morte, ripete la frase «tutto è grazia» per esprimere il proprio abbandonarsi nelle braccia della misericordia divina. La stessa espressione si ritrova nell’ultima pagina del Diario di un curato di campagna di Bernanos. Ma spesso proprio le espressioni che vorrebbero nelle intenzioni affermare la necessità e la libertà dell’azione della grazia finiscono per spargere idee fuorvianti e confondere gli animi. Come nel caso di incontri noiosi e pieni di formalismo che vengono retoricamente definiti “fatti di grazia” a scatola chiusa, magari ancor prima di cominciare. Si diffonde così un’immagine fuorviante, come se la grazia fosse una specie di pioggia che cade indistintamente su tutta la realtà e avvolge tutte le cose», 30 giorni, Card. Georges Cottier, 10/11 (2009).
5 San Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I, q. 2, a. 3, ad 1.

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