La questione del pro multis, sulla quale il Papa si è pronunciato con la lettera del 14 aprile scorso ai vescovi tedeschi, continua a essere approfondita a livello accademico da teologi e liturgisti con contributi sensibili alla riflessione di Benedetto XVI. Tra questi quelli di Francesco Pieri, sacerdote bolognese e docente di liturgia, e di Silvio Barbaglia, presbitero novarese e docente di esegesi dell’Antico e Nuovo Testamento. Il primo ha dedicato all’argomento un libro in uscita per i tipi della Dehoniana Libri (Per una moltitudine. Sulla traduzione delle parole eucaristiche). Il secondo un saggio sulla rivista Fides et Ratio dell’Istituto Superiore di Scienze religiose “Romano Guardini” di Taranto.
In discussione non è in alcun modo l’indicazione pontificia di adottare il pro multis nella liturgia, ma il modo migliore di tradurre l’espressione latina in italiano, dove – come hanno evidenziato autorevoli studiosi e numerosi pastori – dire semplicemente «per molti», dopo decenni di «per tutti», potrebbe anche risultare disorientante. Problema che nella traduzione in tedesco non è stato ravvisato e, infatti, in Germania sta per essere adottata la formula «für viele» e anche in altre parti del mondo (America Latina, Spagna, Ungheria, Stati Uniti) si sta tornando all’uso del «per molti», mentre in Francia si è optato da tempo per l’espressione «per la moltitudine». Una scelta, questa, ritenuta valida sia da Pieri, sia da Barbaglia, il quale ultimo tra l’altro dichiara di essere partito dall’intenzione di dimostrare la maggiore plausibilità della traduzione «per tutti», ma di aver cambiato idea nel corso della sua ricerca.
Vediamo più da vicino la questione. Attualmente al momento della consacrazione del vino il sacerdote dice: «Prendete e bevetene tutti: questo è il calice del mio sangue, per la nuova ed eterna alleanza, versato per voi e per tutti in remissione dei peccati». Questa traduzione, entrata in uso con il Messale di Paolo VI, come ricorda Pieri nel suo saggio, era imperniata su un’interpretazione – detta tecnicamente inclusiva e all’epoca unanimemente accolta dagli esegeti – secondo cui il «per molti» di fatto equivarrebbe al «per tutti». Ora, però, come ha ricordato il Papa nella sua lettera ai vescovi tedeschi, su questa tesi non c’è più il «consenso esegetico» di qualche decennio fa. E si impone, dunque, una maggiore fedeltà agli originali neotestamentari che fondano il testo liturgico. I quali originali sono in particolare due: Marco 14,24 e Matteo 26,28. Il pro multis ripreso dalla liturgia latina nelle parole sul calice deriva esattamente da qui.
Ed eccoci al problema della traduzione in italiano. Sia Pieri nel suo testo, sia il teologo Severino Dianich, nella prefazione, ricordano che nella lingua ebraica e nelle lingue antiche l’espressione «per molti» indica semplicemente un grande numero, senza specificare se esso corrisponde o meno alla totalità. Ecco perché Pieri conclude: «Nel caso del pro multis riteniamo che esista una soluzione per avvicinarsi alla lettera della formula senza tradirne il senso. Essa è rappresentata dalla felicissima traduzione del Messale francese, pour la multitude, che sarebbe senza difficoltà adottabile in italiano e probabilmente anche nelle altre lingue romanze: “per la moltitudine” o se si preferisce “per una moltitudine”. Una tale traduzione, più vicina alla lettera del Messale romano di quella attualmente in uso, aiuterebbe a dischiudere a un maggior numero di fedeli il cuore stesso della preghiera eucaristica».
Anche per Barbaglia la parola «molti» è portatrice di una natura «indefinita», funzionale ad aprire in termini universali ex parte Dei la destinazione del dono salvifico». Solo Dio conosce l’identità e il numero dei molti. Per cui il biblista piemontese propone di tradurre «per voi e per moltitudini», eventualmente aggiungendo l’aggettivo «immense» , proprio per sottolineare la dimensione indefinita.
Sin qui il dibattito accademico. Resta il fatto che Gesù ha detto «per molti» e non «per tutti». Ma egli non è forse venuto a salvare tutti gli uomini? La risposta di Benedetto XVI è nella già ricordata lettera all’episcopato tedesco: «La ragione vera consiste nel fatto che Gesù in tal modo si è fatto riconoscere come il Servo di Dio di Isaia 53». Cioè, dice il Papa, in tal modo «egli si è rivelato con la figura annunciata dalla profezia».
Mimmo Muolo
fonte: www.avvenire.it/Chiesa/Pagine/promultis.aspx
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