Le linee guida del pontificato.Omelie, discorsi, interventi durante gli anni di Buenos Aires.Certo, il magistero di un Papa è qualcosa che va oltre a ciò che il vescovo di Roma eletto nella Sistina diceva alla sua vecchia diocesi. Ma la rivoluzione di Francesco arriva da lontano e una conoscenza di sfondo è necessaria, se non altro per evitare le tòpiche di chi interpreta come «relativista» la spiritualità di un pastore che esorta a «non mercanteggiare la verità» («La tentazione per la Chiesa è stata e sarà sempre la stessa: eludere la croce»), o per non stupirsi troppo della fiducia che mostra nella capacità della coscienza di distinguere il bene dal male, anche tra i non credenti, come se non fosse proprio la coscienza il luogo del giudizio morale e, in una prospettiva di fede, dell’incontro con Dio. L’arbitrio individuale non c’entra nulla. Piuttosto, un principio chiave della spiritualità dei gesuiti è che «Dio lavora e opera per me in tutte le cose create sulla faccia della terra», come si legge negli Esercizi Spirituali di Ignazio di Loyola: l’idea che Dio è già all’opera prima che arriviamo. Così il compito di una guida spirituale è «accompagnare» chi riceve gli esercizi, senza interporsi tra la persona e Dio. Proprio come spiega nel libro il cardinale gesuita di Buenos Aires: un «educatore» è colui che, alla lettera, «tira fuori ciò che sta dentro e conduce», dal latino educere ; e «autorità», da augere , non significa esercitare il potere ma «nutrire e far crescere». Di qui l’importanza della coscienza: chi educa ed esercita l’autorità «diventa colui che guida lungo il cammino dell’interiorità verso la fonte che nutre, ispira, fa crescere, consolida e spinge alla missione».
Del resto, il libro uscì in Argentina nel 2007 con il titolo El verdadero poder es el servicio , «Il vero potere è il servizio».
Quell’anno era destinato a diventare importante nella storia della Chiesa, non solo sudamericana. Per poco più di una settimana, dal 13 al 21 maggio, in una cittadina brasiliana che ospita il più grande santuario mariano del mondo, Aparecida, si riunì la V Conferenza generale dell’episcopato latinoamericano e dei Caraibi, aperta da Benedetto XVI.Ne uscì un testo che conteneva in nuce le linee fondamentali del pontificato di Francesco, anche perché il cardinale Bergoglio era stato scelto dagli altri vescovi a guidare la commissione incaricata di scriverlo. E basterebbe il passo del documento di Aparecida che l’arcivescovo di Buenos Aires cita nella lettera ai catechisti, alla fine del libro: «Non può resistere agli urti del tempo una fede cattolica ridotta a un bagaglio di conoscenze, a un’elencazione di alcune norme e proibizioni, a pratiche frammentate di devozioni, a un’adesione selettiva e parziale alle verità della fede, alla partecipazione occasionale ad alcuni sacramenti, alla ripetizione di principi dottrinali, a moralismi blandi o esasperati che non trasformano la vita dei battezzati. La minaccia più grande per noi è il grigio pragmatismo della vita quotidiana della Chiesa, nel quale in apparenza ogni cosa procede normalmente, ma in realtà la fede si logora e decade nella meschinità. Tocca a tutti noi ricominciare da Cristo, riconoscendo che all’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva».
A fine luglio Francesco, durante la Gmg di Rio de Janeiro, ha rivolto ai vescovi brasiliani un discorso memorabile su Aparecida come «chiave di lettura della missione della Chiesa», a partire dall’evento che ha dato il nome alla cittadina: la Madonna «apparsa» nelle acque del fiume, la statuetta di terracotta che tre poveri pescatori tirarono a bordo nel 1717, la necessità di ritornare all’essenziale del Vangelo e la «grammatica della semplicità» come «lezione» da reimparare, altrimenti «la nostra missione è destinata al fallimento». In quell’occasione il Papa, per rappresentare la situazione della Chiesa, ha evocato l’episodio evangelico dei discepoli che scappavano da Gerusalemme verso Emmaus, dopo la crocifissione e quello che ritenevano il «fallimento» del Messia. Il «mistero» delle persone che si allontanano: come Gesù a Emmaus, «serve una Chiesa che non abbia paura di uscire nella loro notte, di intercettare la loro strada». Nel libro ricorre un’immagine biblica affine, l’icona di un’altra fuga: il profeta Giona che Dio aveva inviato a Ninive, «la grande città, simbolo di tutti i reietti ed emarginati», e invece scappa in direzione opposta.
La fuga, come la chiusura in se stessi, non è mai la soluzione migliore. «L’incontro con Dio è sempre una novità e ci sprona a rinunciare alle abitudini, a metterci in marcia verso le periferie e le frontiere, là dove si trova l’umanità più ferita e dove i giovani, dietro la loro apparenza di superficialità e conformismo, non si stancano mai di cercare una risposta alle proprie domande sul senso della vita». Sono cose che diceva dagli anni in cui guidava la diocesi di Buenos Aires, aveva scelto una stanzetta disadorna nel palazzo anziché l’appartamento dell’arcivescovo, girava la città in bus e metrò e la sera andava in incognito nella favela Villa 21. Sempre a partire dal kerygma , dal nucleo essenziale della fede, come in un’omelia del 25 dicembre: «Nonostante riviviamo il Natale ogni anno, abbiamo bisogno di stupirci ancora una volta di fronte a un Dio che sceglie la periferia della città di Betlemme e la periferia esistenziale dei poveri e degli emarginati del suo tempo per manifestarsi al mondo».
Uscire «dalle grotte», aprirsi al mondo. «A uno sguardo superficiale, una persona aperta potrebbe sembrare una che lascia correre o che ci sa fare, che non è rigida. Ma dietro gli atteggiamenti puramente esteriori si cela sempre un’essenza profonda, e la gente la percepisce. Un sacerdote aperto, in quest’ottica, è un sacerdote capace di ascoltare gli altri, pur rimanendo saldo nelle proprie convinzioni». La rivoluzione di Bergoglio è anzitutto di stile, di atteggiamento. Si tratta di saper ascoltare tutti, perché «è impossibile amare Dio e il prossimo senza compiere questo primo gesto: ascoltarli». E di cambiare sguardo: gli «occhi dell’amore» sono quelli che «nobilitano» ciò che osservano. Anche perché sanno che Dio è già all’opera, come dice Bergoglio in uno dei passi più belli del libro: «Sebbene nella nostra vita, in modi diversi, cerchiamo Dio, in verità è Lui a cercare noi, è Lui ad attenderci. Egli è come il fiore di mandorlo, caro ai profeti perché sboccia prima degli altri: così, il Signore “ci anticipa” nell’amore. E lo fa ormai da secoli. Gesù ci precede e ci aspetta in Galilea da duemila anni: nel luogo del primo incontro con Lui, quello che ciascuno di noi custodisce in un angolino del proprio cuore. Dobbiamo accelerare il passo per andargli incontro».
Commenti