Francesco Iganzio Giona

Il nuovo papa dice come e perché ha scelto di chiamarsi come il santo di Assisi. Ma si è già richiamato anche al fondatore della Compagnia di Gesù. E come il profeta, vuole predicare alla moderna Ninive il perdono di Dio. Un’intervista rivelatrice

ROMA, 16 marzo 2013 – Ai seimila giornalisti che questa mattina gremivano l’aula delle udienze, Jorge Mario Bergoglio ha dato una notizia di prima mano.Ha raccontato come e perché gli è venuto in mente di scegliere come papa il nome di Francesco, proprio mentre in conclave i voti cadevano su di lui: “Nell’elezione, io avevo accanto a me l’arcivescovo emerito di San Paolo e anche prefetto emerito della congregazione per il clero, il cardinale Claudio Hummes: un grande amico, un grande amico! Quando la cosa diveniva un po’ pericolosa, lui mi confortava. E quando i voti sono saliti a due terzi, viene l’applauso consueto, perché è stato eletto il papa. E lui mi abbracciò, mi baciò e mi disse: ‘Non dimenticarti dei poveri!’. E quella parola è entrata qui: i poveri, i poveri. Poi, subito, in relazione ai poveri ho pensato a Francesco d’Assisi. Poi, ho pensato alle guerre, mentre lo scrutinio proseguiva, fino a tutti i voti. E Francesco è l’uomo della pace. E così è venuto il nome, nel mio cuore: Francesco d’Assisi. È per me l’uomo della povertà, l’uomo della pace, l’uomo che ama e custodisce il creato; in questo momento anche noi abbiamo con il creato una relazione non tanto buona, no? È l’uomo che ci dà questo spirito di pace, l’uomo povero… Ah, come vorrei una Chiesa povera e per i poveri!”.

E ha chiuso così:

“Dopo, alcuni [cardinali] hanno fatto diverse battute. ‘Ma tu dovresti chiamarti Adriano, perché Adriano VI è stato il riformatore, bisogna riformare…’. E un altro mi ha detto: ‘No, no: il tuo nome dovrebbe essere Clemente’. ‘Ma perché?’. ‘Clemente XV: così ti vendichi di Clemente XIV che ha soppresso la Compagnia di Gesù!'”.

Per ironia della sorte Clemente XIV, il papa che nel Settecento chiuse l’ordine dei gesuiti al quale Bergoglio appartiene, era francescano.

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Papa Francesco, nelle sue prime giornate da papa, non ha mancato però di richiamarsi anche al fondatore del suo ordine, sant’Ignazio di Loyola.

Il 15 marzo, nella messa che ha celebrato di prima mattina nella cappella della Domus Sanctae Martae assieme ad alcuni cardinali, ha improvvisato una breve omelia.

 

E in essa ha citato sant’Ignazio là dove nelle regole del discernimento consiglia che “nel tempo della desolazione non si facciano mai mutamenti, ma si resti saldi e costanti nei propositi e nelle decisioni che si avevano nel tempo della consolazione”.

 

Altrimenti – ha aggiunto –, se si cede e ci si allontana, quando il Signore torna a rendersi visibile “rischia di non trovarci più”.

 

Poco prima, nella messa, si era letto il libro della Sapienza là dove gli empi vogliono mettere alla prova il giusto “con violenze e tormenti, per conoscere la sua mitezza e saggiare il suo spirito di sopportazione”. Ma essi “non conoscono i misteriosi segreti di Dio, né credono a un premio per una vita irreprensibile”.

 

Sull’esigenza racchiusa in quest’ultima parola, “irreprensibile”, il papa ha fortemente insistito.

 

Questa breve omelia non è stata resa pubblica. Ma ne ha riferito Cristiana Caricato su ilsussidiario.net avvalendosi della confidenza di un cardinale che aveva celebrato la messa col papa.

 

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Ma oltre a Francesco d’Assisi e a sant’Ignazio, nel “cielo” di Jorge Mario Bergoglio brilla anche il profeta Giona.

 

In un’intervista del 2007 alla rivista internazionale “30 Giorni”, molto rivelatrice di come egli vede la sua missione di pastore della Chiesa, l’allora arcivescovo di Buenos Aires chiese improvvisamente all’intervistatrice, Stefania Falasca:

 

“Conosce l’episodio biblico del profeta Giona?”.

 

“Non lo ricordo. Racconti”, rispose l’intervistatrice.

 

E Bergoglio:

 

“Giona aveva tutto chiaro. Aveva idee chiare su Dio, idee molto chiare sul bene e sul male. Su quello che Dio fa e su quello che vuole, su quali erano i fedeli all’Alleanza e quali erano invece fuori dall’Alleanza. Aveva la ricetta per essere un buon profeta. Dio irrompe nella sua vita come un torrente. Lo invia a Ninive. Ninive è il simbolo di tutti i separati, i perduti, di tutte le periferie dell’umanità. Di tutti quelli che stanno fuori, lontano. Giona vide che il compito che gli si affidava era solo dire a tutti quegli uomini che le braccia di Dio erano ancora aperte, che la pazienza di Dio era lì e attendeva, per guarirli con il suo perdono e nutrirli con la sua tenerezza. Solo per questo Dio lo aveva inviato. Lo mandava a Ninive, ma lui invece scappa dalla parte opposta, verso Tarsis”.

 

“Una fuga davanti a una missione difficile?”, chiese l’intervistatrice.

 

“No. Quello da cui Giona fuggiva non era tanto Ninive, ma proprio l’amore senza misura di Dio per quegli uomini. Era questo che non rientrava nei suoi piani. Dio era venuto una volta, ‘e al resto adesso ci penso io’: così si era detto Giona. Voleva fare le cose alla sua maniera, voleva guidare tutto lui. La sua pertinacia lo chiudeva nelle sue strutturate valutazioni, nei suoi metodi prestabiliti, nelle sue opinioni corrette. Aveva recintato la sua anima col filo spinato di quelle certezze che invece di dare libertà con Dio e aprire orizzonti di maggior servizio agli altri avevano finito per assordare il cuore. Come indurisce il cuore la coscienza isolata! Giona non sapeva più come Dio conduceva il suo popolo con cuore di Padre”.

 

“In tanti ci possiamo identificare con Giona”, interloquì l’intervistatrice.

 

Bergoglio: “Le nostre certezze possono diventare un muro, un carcere che imprigiona lo Spirito Santo. Colui che isola la sua coscienza dal cammino del popolo di Dio non conosce l’allegria dello Spirito Santo che sostiene la speranza. È il rischio che corre la coscienza isolata. Di coloro che dal chiuso mondo delle loro Tarsis si lamentano di tutto o, sentendo la propria identità minacciata, si gettano in battaglie per essere alla fine ancor più autoccupati e autoreferenziali”.

 

“Che cosa si dovrebbe fare?”.

 

Bergoglio: “Guardare la nostra gente non per come dovrebbe essere ma per com’è e vedere cosa è necessario. Senza previsioni e ricette ma con apertura generosa. Per le ferite e le fragilità Dio parlò. Permettere al Signore di parlare. Perché in un mondo che non riusciamo a interessare con le parole che noi diciamo, solo la Sua presenza che ci ama e ci salva può interessare. Il fervore apostolico si rinnova se siamo testimoni di Colui che ci ha amato per primo”.

 

Ultima domanda: “Per lei, quindi, qual è la cosa peggiore che può accadere nella Chiesa?”.

 

Bergoglio: “È quella che Henri De Lubac chiama ‘mondanità spirituale’. È il pericolo più grande per la Chiesa, per noi, che siamo nella Chiesa. ‘È peggiore – dice De Lubac –, più disastrosa di quella lebbra infame che aveva sfigurato la Sposa diletta al tempo dei papi libertini’. La mondanità spirituale è mettere al centro sé stessi. È quello che Gesù vede in atto tra i farisei: ‘Voi che vi date gloria. Che date gloria a voi stessi, gli uni agli altri'”.

 

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La parola “mondanità” è tornata più volte, come pericolo anche per “preti, vescovi, cardinali, papi”, nella prima omelia pronunciata da Bergoglio dopo la sua elezione a papa, nella Cappella Sistina:

 

> “Quando camminiamo senza la croce…”

 

Ma nell’intervista sopra citata c’era anche un altro passaggio nel quale l’allora arcivescovo di Buenos Aires delineava la missione della Chiesa e ne denunciava le tentazioni “gnostiche” e “autoreferenziali”.

 

Alla domanda su che cosa Bergoglio avrebbe voluto dire al papa e ai cardinali nel concistoro del 24 novembre 2007, al quale non poté partecipare, l’intervista così proseguiva:

 

R. – Avrei parlato di due cose delle quali in questo momento si ha bisogno, si ha più bisogno: misericordia e coraggio apostolico.

 

D. – Cosa significano per lei?

 

R. – Per me il coraggio apostolico è seminare. Seminare la Parola. Renderla a quell’uomo e a quella donna per i quali è data. Dare loro la bellezza del Vangelo, lo stupore dell’incontro con Gesù. E lasciare che sia lo Spirito Santo a fare il resto. È il Signore, dice il Vangelo, che fa germogliare e fruttificare il seme.

 

D. – Insomma, chi fa la missione è lo Spirito Santo.

 

R. – I teologi antichi dicevano: l’anima è una navicella a vela, lo Spirito Santo è il vento che soffia nella vela per farla andare avanti, gli impulsi e le spinte del vento sono i doni dello Spirito. Senza la sua spinta, senza la sua grazia, noi non andiamo avanti. Lo Spirito Santo ci fa entrare nel mistero di Dio e ci salva dal pericolo di una Chiesa gnostica e dal pericolo di una Chiesa autoreferenziale, portandoci alla missione.

 

D. – Ciò significa vanificare anche tutte le vostre soluzioni funzionaliste, i vostri consolidati piani e sistemi pastorali…

 

R. – Non ho detto che i sistemi pastorali siano inutili. Anzi. Di per sé tutto ciò che può condurre per i cammini di Dio è buono. Ai miei sacerdoti ho detto: ‘Fate tutto quello che dovete, i vostri doveri ministeriali li sapete, prendetevi le vostre responsabilità e poi lasciate aperta la porta’. I nostri sociologi religiosi ci dicono che l’influsso di una parrocchia è di seicento metri intorno a questa. A Buenos Aires ci sono circa duemila metri tra una parrocchia e l’altra. Ho detto allora ai sacerdoti: ‘Se potete, affittate un garage e, se trovate qualche laico disposto, che vada! Stia un po’ con quella gente, faccia un po’ di catechesi e dia pure la comunione se glielo chiedono’. Un parroco mi ha detto: ‘Ma padre, se facciamo questo la gente poi non viene più in chiesa’. ‘Ma perché?’, gli ho chiesto: ‘Adesso vengono a messa?’. ‘No’, ha risposto. E allora! Uscire da sé stessi è uscire anche dal recinto dell’orto dei propri convincimenti considerati inamovibili se questi rischiano di diventare un ostacolo, se chiudono l’orizzonte che è di Dio.

 

D. – Questo vale anche per i laici…

 

R. – La loro clericalizzazione è un problema. I preti clericalizzano i laici e i laici ci pregano di essere clericalizzati. È proprio una complicità peccatrice. E pensare che potrebbe bastare il solo battesimo. Penso a quelle comunità cristiane del Giappone che erano rimaste senza sacerdoti per più di duecento anni. Quando tornarono i missionari li ritrovarono tutti battezzati, tutti validamente sposati per la Chiesa e tutti i loro defunti avevano avuto un funerale cattolico. La fede era rimasta intatta per i doni di grazia che avevano allietato la vita di questi laici che avevano ricevuto solamente il battesimo e avevano vissuto anche la loro missione apostolica in virtù del solo battesimo. Non si deve aver paura di dipendere solo dalla tenerezza di Dio.

 

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A proposito di quest’ultimo riferimento alla centralità del battesimo è esemplare la battaglia che l’allora arcivescovo di Buenos Aires ha combattuto nella Chiesa argentina contro coloro che tendono a negare il battesimo ai nuovi nati di chi è lontano dalla pratica religiosa:

di Sandro Magister

http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1350469