Fare pratica con Dio – L’esperienza di Dio vivo in san Giovanni della Croce

Gustavo Gutiérrez ha affermato che tutta l’opera di san Giovanni della Croce è un immenso sforzo per dirci che Dio ci ama. Una buona sintesi che svela molto di Dio – del Dio che Giovanni della Croce sperimentò e che condivide con noi, – molto della persona umana – così come la intende Giovanni della Croce – e molto dello stesso santo carmelitano.

Sacro monte di Varallo, Cappella XXXIII – Ecce Homo, sec XVII

Giovanni della Croce visse tra il 1542 e il 1591. Nel pieno del secolo d’oro spagnolo, un tempo di splendore politico e artistico, un tempo, tuttavia, di contrasti. Quando nasce il santo, la Spagna era molto aperta alle correnti di pensiero dell’Umanesimo rinascimentale provenienti dall’Italia e dal Nord dell’Europa, ma si chiuderà di lì a poco a tutto ciò che viene da fuori.
Era la Spagna dell’Inquisizione e del frate Luis de León, una delle sue vittime, la Spagna dell’Impero su cui non tramonta il sole e la Spagna della fame nera, del picaresco e della miseria.
È in questo tempo di contrasti che la scuola mistica carmelitana fiorisce in due figure immense: Teresa di Gesù e Giovanni della Croce. Essi si sono immersi nella profondità dello spirito umano e lo hanno contemplato alla luce del Dio vivo che desidera entrare in comunione con ciascun uomo. Ci hanno parlato della possibilità di sperimentare la comunione con Dio, che essi stessi hanno sperimentato, e ci hanno invitato a fare questa esperienza. Nelle parole del teologo Oleario González de Cardedal: «La gesta di San Giovanni della Croce, abbandonando la scienza teologica, fu una protesta senza parole, un reclamare da parte dei diritti di Dio di comunicarsi a ogni uomo e del diritto dei poveri a essere i diretti destinatari dell’Evangelo, della conoscenza di Dio, del suo amore illuminante, santificante e salvifico, senza dover passare prima attraverso la teologia, senza dover essere universitari»1.
Questo non significa che Giovanni della Croce abbia sminuito l’immagine del Dio vivo, l’abbia posto in offerta in modo che tutti possano accedere ad essa senza rigore e senza autenticità, fabbricando un Dio a misura di ciascuna persona: difensore della libertà dell’individuo e del suo diritto all’esperienza, «pure San Giovanni sa reagire alle forme estreme e al vago sentimentalismo: “Mi stupisco molto di quanto avviene oggi e cioè che un’anima qualunque con quattro soldi di meditazione, se durante un raccoglimento sente qualcuna di queste locuzioni, la battezza subito come venuta da Dio e suppone che sia così, dicendo: Dio mi ha detto; Dio mi ha risposto; ma la cosa non sta in questo modo, perché, come abbiamo detto, il più delle volte sono esse che si dicono tali parole’ [ 2S 29, 4]”2. Per questo, “egli utilizzerà la teologia scolastica: essa non insegnerà nulla agli spirituali, ma li aiuterà a formarsi un’idea chiara e consapevole di ciò che avviene nella propria anima. Nell’opera dei grandi mistici spagnoli vediamo dunque realizzarsi un equilibrio tra tendenze opposte, che non interessano solo l’esperienza religiosa, ma valgono pure per la vita culturale in generale: sottomettere la sensibilità a una disciplina per non lasciarsi trascinare verso un’adesione a ciò che è semplicemente confuso e vago; costruire una tecnica intellettuale che permetta di andare più in là degli stati distinti senza perdersi nelle torbide regioni della vita affettiva; controllare l’ispirazione per l’analisi; inventare un metodo al posto di accontentarsi a fidarsi dell’istinto; conciliare esperienza personale e vita collettiva»3.
Chi è il Dio di cui ci parla san Giovanni della Croce? Come accostarsi, sotto la sua guida, al Dio vivo? Queste sono alcune delle domande alle quali mi piacerebbe avventurarmi a rispondere, insieme a voi.

Sacro monte di Varallo, Cappella XXXIII- Ecce Homo, sec XVII

Dio è l’immenso Padre: Vicino e trascendente.

Così si riferisce a Lui, in diversi passi della sua opera, Giovanni della Croce. È il Dio vivo e vero: Padre da cui tutto procede, trinitario e familiare; è immenso, insondabile mistero di bontà e di bellezza, che si rivela all’essere umano come amore, contemporaneamente vicino e trascendente.
Per il Santo, Dio è il creatore. Egli non lo descrive come una semplice potenza capace di togliere o dare la vita, bensì come Colui che dà origine e sostiene tutto l’essere per amore, destinando l’uomo a condividere con Lui la sua vita, la vita divina. Radicato nella tradizione biblica, Giovanni della Croce descrive Dio come apparentemente bisognoso di porsi in comunione con l’uomo, di fargli conoscere quanto lo ama, e invita l’uomo a rendersi conto di questa disposizione amorosa e comunicativa di Dio. Così, all’inizio del Cantico Spirituale, Giovanni della Croce mette come condizione, perché una persona possa intraprendere un cammino verso l’unione, il rendersi conto di ciò che Dio ha fatto per lei: «Riconoscendo, d’altra parte, il grande debito di gratitudine che ha verso Dio, per averla creata solamente per sé, per cui gli deve il servizio di tutta la vita, e per averla redenta solamente per sé, per cui gli deve tutto il suo amore, e i mille altri benefici per i quali si sente obbligata a Dio da prima ancora di nascere.»4. Però questo stesso Dio creatore, vicino e desideroso di comunicarsi all’uomo, che benefica ancor prima che l’uomo venga al mondo, è, nello stesso tempo, mistero insondabile, infinito. «Dio sta su in cielo e parla in cammino di eternità; noi, ciechi, sopra la terra, e nulla comprendiamo se non per via della carne e del tempo»5.
Come vicino e trascendente ce lo fa vedere nel famoso poema de La Fonte, il cui titolo completo è Cantico dell’anima che si rallegra di conoscere Dio per fede. In lui Dio è fonte nascosta, di origine ignota perché non ne ha, senza fondo e infinita e, nello stesso tempo, si fa conoscere per fede, anche nella notte, fa bella la sua dimora, il suo posto, è accessibile all’uomo nel pane eucaristico, etc.

Sacro monte di Varallo, Cappella XXVII – Gesù al tribunale di Pilato, sec XVII

Il Santo desidera salvare ambedue gli estremi della natura di Dio per fedeltà alla rivelazione biblica, per fedeltà all’esperienza che egli vive e, come annotammo sopra, per evitare una manipolazione soggettiva della realtà di Dio. Desidera controbattere coloro che pretendono di parlare di un Dio che è solo potere, forse al fine di giustificare il loro modo di esercitare il proprio potere come forma di oppressione; ma desidera affrontare anche quelli che parlano di un Dio amore privo di trascendenza e, pertanto, di capacità di esigere, permissivo e tollerante nei confronti di qualsiasi genere di ingiustizia.

Il Dio di Giovanni della Croce è il Dio di Gesù.

Giovanni della Croce si è aperto ad una esperienza concreta di Dio, l’esperienza del Dio di Gesù. Fra i motivi enumerati vi è uno che giustifica perché san Giovanni della Croce parla di Dio come ne parla, il più importante è la sua fedeltà alla rivelazione biblica, alla parola evangelica di Gesù, che ci ha parlato di un Dio vicino, affermando che egli è il Padre, Abbà; così Gesù si rivolge sempre a Lui: «l’insieme delle orazioni di Gesù raccolte nei quattro evangeli hanno in comune il fatto che, se si eccettua il grido di Gesù sulla croce […] tutte si rivolgono a Dio chiamandolo Padre. […] Gesù dice continuamente Abbà rivolgendosi a Dio»6.
Abbà è la parola più densa teologicamente del Vangelo. Se per l’Antico Testamento è il Dio della Creazione, dell’Alleanza, per Gesù è il Dio della vicinanza (Bultmann): «Egli è il potere presente, che come signore e padre compendia tutto, limitando ed esigendo. Ciò trova la sua manifestazione nella formula dell’orazione. Di fronte alle formule di orazione del giudaismo, magnifiche, commoventi, spesso belle liturgicamente, spesso anche sovraccariche, come per esempio nel caso dell’orazione delle diciotto benedizioni che il pio giudeo deve recitare tre volte al giorno […], la semplice formula «Padre» – lo stesso può dirsi di tutto il Padre nostro – si distingue, per la sua concisa sobrietà, dalle orazioni giudaiche (Mt 6, 9-13; Lc 11, 2-4). Dio è vicino: egli ascolta le preghiere che gli giungono e le capisce come il padre capisce le preghiere di suo figlio (Mt 7, 7-11 par.; cf. 11, 5-8; 18, 1-5)»7.
Questa vicinanza però non esclude la trascendenza che suppone una esigenza di impegno per l’uomo : Abbá e Regno sono inseparabili: “È certo che Gesù interpretò tale sovranità come assoluta benevolenza nei confronti degli uomini, come amore supremo verso gli uomini. La sovranità di Dio implica però per Gesù di fare la volontà di Dio”8. Afferma González: «Il regno dà ragione dell’essere di Dio come Abbá e la paternità di Dio dà fondamento e ragion d’essere al regno. E in questa unità le espressioni di Gesù conservano tutta la loro originalità». Quando i discepoli chiedono a Gesù di insegnare loro a pregare, gli stanno chiedendo un tipo di preghiera che li distingua dagli altri «come Giovanni ha insegnato ai suoi». La risposta di Gesù si riassume in questa doppia espressione: Abbá, venga il tuo regno. Per Gesù, poiché chiamiamo Dio Abbá confessiamo e chiediamo la venuta del suo regno: tutte le altre richieste del padrenostro sono inglobate in questa.

Sacro Monte di Varallo, Cappella XXXVI – La salita al Calvario, sec. XVII

«Quando Gesù si pone alla presenza di Dio, da una parte, lo chiama e lo sperimenta come Padre, assolutamente vicino, buono, tenero. In questo Padre riposa il suo cuore e questo lo colma di gioia. Gesù gioisce nel Padre, gioisce perché Dio è buono. Incontrarsi con Dio per Gesù è lasciarsi incontrare dal Dio buono, nel quale può riposare e nel quale può sempre confidare.
D’altra parte, quando Gesù si pone alla presenza del Padre, lo incontra come Dio, come ultimo mistero ineffabile e non manipolabile, al quale bisogna lasciare essere Dio. Da qui la sua attiva e totale disponibilità nei confronti di Dio, la sua assoluta obbedienza. Gesù, dunque, riposa nel Padre, ma il Padre non lo lascia riposare. Pure nella totale confidenza, Gesù lascia a Dio essere Dio.
Così, crediamo, avviene l’incontro con Dio lungo la storia.
Nelle parole di G. Gutiérrez “bisogna contemplare Dio e bisogna fare pratica con Dio”. Noi ci incontriamo con Dio quando realizziamo la sua bontà, il che è una pratica, e quando gli lasciamo essere Dio, il che è contemplazione. Nell’azione corrispondiamo al Dio buono e il presupposto teologale di questa azione è la bontà di Dio. Nella contemplazione cerchiamo il volto di Dio: cercare e scoprire la sua volontà, come ripeteva sant’Ignazio, sotto il presupposto teologale per cui Dio è mistero, è ciò che bisogna cercare e scoprire.
Questo incontro con Dio, come fiducia, disponibilità e gratitudine, si realizza prima di tutto nella vita reale del credente, nella sua fede, speranza e carità reali. Deve essere tuttavia posto anche in parola. A Lui conduce la natura umana del credente, ma anche il contenuto dell’esperienza. La fiducia e la disponibilità devono essere tradotte in parole, ma soprattutto deve esserlo la gratitudine. Non c’è riconoscenza che possa rimanere silenziosa a lungo.
Innalzare la vivida realtà in parola densa è ciò che possiamo chiamare orazione. Essa non è qualcosa adeguatamente diversa, nemmeno separata dalla vita reale, ma è espressione della vita reale dinanzi a Dio. È esprimere, densamente, il senso di una vivida realtà. Come Gesù, pregare è dire familiarmente: “Padre, nelle tue mani affido il mio spirito”. Come Gesù, è dire in assoluta disponibilità: “Padre, non si faccia la mia volontà, ma la tua”. Come Gesù è dire con gioia e riconoscenza: “Gioisco, Padre, perché i piccoli hanno capito”. Al che noi dovremmo aggiungere pure la preghiera del figlio prodigo: “Padre, ho peccato contro il cielo e contro di te”.
Questa esperienza di Dio, l’incontro con Dio nella storia e la sua traduzione in parole nell’orazione, ha una dimensione strettamente personale e anche comunitaria»9.

Sacro Monte di Varallo, Cappella XXXVIII – Crocifissione, 1530 ca.

Fuggire le nostre proiezioni di Dio.

Questa fedeltà evangelica è vitale per il credente, a giudizio di San Giovanni della Croce, se non vogliamo vivere, credere, confessare e – il che è peggio – predicare un Dio che non è altro se non la proiezione dei nostri sogni o dei nostri incubi, delle nostre paure e complessi o delle nostre personali speranze. È stato detto che Dio ci ha fatto a sua immagine. Non è che ora io voglia porre il problema dell’esistenza di Dio; mi riferisco a quei piccoli idoli, dei falsi che creiamo e poniamo al posto del Dio vivo. Costruiamo il dio che ci conviene, proiettando in lui i nostri desideri interiori, dipingendolo con i tratti di cui abbiamo bisogno in un determinato momento: il paternalismo, ma anche l’incomprensione o inclusa l’intransigenza. In fondo uno strumento che utilizziamo per darci conforto, giustificare alcune delle nostre attitudini – per quanto siano molto ingiuste – e scaricare su di lui le nostre responsabilità, in modo da avere sottomano qualcuno su cui gettare le colpe nel caso succeda qualche catastrofe. Questo è il dio che ci parla dandoci il discernimento quando lo interpelliamo per una questione, il dio che ci punisce e che noi puniamo con la nostra dimenticanza – dubbi di fede, la chiamiamo -, quando non ascolta le nostre richieste – dovrei piuttosto dire comandi? – o non ci benedice con una buona dose di fortuna dopo che ci siamo comportati come Dio comanda.
Forse abbiamo insistito troppo sulla categoria personale di Dio e abbiamo dimenticato che questa è una forma analogica di parlare di Dio. Egli non è una persona come noi, né un Padre, né un Amico, pur essendolo […] È necessario che, senza perdere la familiarità con Dio, senza dimenticare di chiamarlo Abbá, affermiamo nello stesso tempo la sua assoluta sovranità, la sua maestà, la sua libertà. Questo è un tratto essenziale nel Dio di cui ci ha parlato Gesù, ma anche nel Dio vivo di san Giovanni della Croce. L’unico rimedio contro i nostri idoli, falsi dei, è pertanto, che affermiamo la trascendenza di Dio, la sua piena alterità, la sua condizione di totalmente Altro […] che, tuttavia, getta ponti verso l’uomo, cerca sempre vie per arrivare all’uomo, per intavolare un dialogo con lui: «Dato che, così come il sole si alza e batte sulla tua casa per entrare se scopre il buco, allo stesso modo Dio, che nel custodire Israele non sonnecchia (Ps 120, 4), né dorme, entrerà nella tua anima vuota e la riempirà di beni divini».
(Continua)
1 O. GONZÁLEZ DE CARDEDAL, San Juan de la Cruz. El abisso del hombre desde el abisso de Dios, in L. DIAZ CASTILLO, Amor y Luz. Homenaje a San Juan de la Cruz, IV Centenario de su muerte, 1591-1991, Caja de Ahorros de Ávila, Ávila 1991, s. p.
2 J. PÉREZ, Mistica y realidad histórica en la Castilla del siglo XVI, in ACI II, 50-51.
3 F. RUIZ, Mistico y Maestro san Juan de la Cruz, Editorial de Espiritualidad, Madrid 1986, 112.
4 JUAN DE LA CRUZ, Cántico Espiritual, B 1, 1.
5 JUAN DE LA CRUZ, 2 Subida 20, 5.
6 A. Guerra, Oración cristiana. Sociologia-Teologia-Pedagogia, Editorial de Espiritualidad, Madrid, 1984, 53.
7 R. BULTMANN, Teologia del Nuevo Testamento, Sigueme, Salamanca 1982, 62.
8 E. SCHILLEBEECKX, Jesús. La istoria de un vivente, Trotta, Madrid 2002, 129.
9 J. SOBRINO, Espiritualidad y seguimiento de Jesús, en I. ELLACURIA – J. SOBRINO (EDS.), Mysterium liberationis. Conceptos fundamentales de la Teologia de la Liberación. II, Trotta, Madrid 1990, 472-473.

di padre Emilio J. Martinez González ocd – traduzione di Cettina Spoto ocds