Elisabetta della Trinità

Figlia spirituale di san Giovanni della Croce

L’incontro di Sr. Elisabetta della Trinità con san Giovanni della Croce coincide in qualche modo con 1’ incontro del Carmelo, non solo come realtà a lungo desiderata, ma come meta finalmente raggiunta. Entrando in clausura ella scopre stupita l’ampiezza e la preziosità di ogni particolare, e specialmente le Opere del Santo Dottore. In una lettera scritta poco più di un anno dal suo ingresso in monastero (L 113), mentre esorta un’amica d’infanzia ad essere “carmelitana nell’anima”, descrive il mondo del Carmelo con l’entusiasmo di chi presenta i componenti della propria famiglia ad un amico che sta per diventare intimo ad essa. Al primo posto c’è la Vergine Maria: «Ami il silenzio, l’orazione che è l’essenza della vita del Carmelo, chieda alla Regina del Carmelo, nostra Madre, che le insegni ad adorare Gesù in raccoglimenti profondi. Il Carmelo è il suo Ordine privilegiato ed essa ama tanto le sue figlie. È lei la nostra prima Patrona!»
Segue la Santa Riformatrice: «Preghi anche la nostra serafica Madre santa Teresa. Ha tanto amato, è morta d ’ amore. Le chieda la sua passione per Iddio, per le anime. La carmelitana dev’essere apostolica: tutte le sue preghiere, tutti i suoi sacrifici tendono a questo!».
Quindi san Giovanni della Croce: «Conosce san Giovanni della Croce? È nostro Padre ed è sceso così a fondo nelle profondità di Dio! […] Ascolti quel che dice il nostro Padre Giovanni della Croce che è pure il suo Padre, dal momento che lei è assolutamente la mia sorellina».
Senza dimenticare le radici: «Prima ancora di lui, avrei dovuto parlarle del profeta Elia, nostro primo Padre. Vede quanto antico è il nostro Ordine, che risale fino ai Profeti. Oh come vorrei cantare tutte le sue glorie! Amiarno il nostro Carmelo, è incomparabile!»
E neppure la Regola: «Quanto alla Regola, mia piccola Germana, vedrà un giorno come è bella. Ne viva lo spirito fin d’ora!». E conclude con il suo cognome religioso: «Mi chiamo sempre Elisabetta, ma porto anche il nome della SS. Trinità. Non le pare un bel nome il mio?»
Ma l’ampiezza del Carmelo è dimostrata dall’inclusione della lettera. Essa inizia ricordando: «Questa lettera le arriverà il 17: quel giorno farò la Santa Comunione per lei e, se vuole darmi la sua anima, la consacrerò alla SS. Trinità perché la introduca nella profondità del suo mistero e questi ‘Tre’ che tutt’e due amiamo tanto siano veramente il centro in cui scor+’e la nostra vita!».
E conclude: «A Dio, mia piccola sorella, io prego molto per lei. La mia anima vive in comunione con la sua e faccio tutto in unione con lei. Nell’orazione, durante la recita del divino Ufficio, dappertutto, è con me perché la tengo nella mia anima accanto a lui. Così ci perdiamo insieme nella SS. Trinità».
Tutto questo è il Carmelo. Ma questa è anche l’anima di Elisabetta, la “casa di Dio” e perciò il luogo in cui ogni cosa viene accolta e valorizzata secondo il disegno divino. E in questa casa trova posto anche Giovanni della Croce.

La storia di un incontro

Se le opere di santa Teresa d’Avila, in particolare il Cammino di Perfezione, erano conosciute e lette presso la famiglia Catez,

San Giovanni della Croce, Monte Carmelo, copia dell’originale del 1580, conservato a Madrid, Biblioteca Nazionale Ms.6296

non si può dire lo stesso di san Giovanni della Croce.
Alla vigilia della sua entrata al Carmelo la signora Rostang e sua figlia Yvonne, amiche di Elisabetta da vecchia data, le regalarono il terzo volume della Vie et Oeuvres […] de saint Jean de la Croix (Paris-Poitiers, Oudin, 1893), che conteneva la Salita del monte Carmelo e La Notte oscura. Niente però sembra indicare che Elisabetta lo abbia letto.
Miglior fortuna ebbe invece un altro tomo delle medesime Opere, ricevuto sei mesi dopo l’entrata in clausura. Era il quarto volume e conteneva Cantico Spirituale e Fiamma viva d’Amore. La traduzione, ad opera delle Carmelitane di Parigi, era molto fedele al testo originale, ma letterariamente piuttosto scadente. Comunque il 10 febbraio 1902 la donatrice, Antonietta de Bobet, ricevette una lettera vibrante di riconoscenza: «Carissima Signora, non so come ringraziarla, mi ha abituata talmente male! Se sapesse che piacere m’ha fatto! Desideravo tanto questo bel Cantico di san Giovanni della Croce che ora come regalo suo e con questo grazioso pensiero in prima pagina, mi è doppiamente caro. È lì, sul piccolo tavolo, nella nostra cara celletta» (L 96).
Effettivamente «Sr. Elisabetta si servì molto di quel libro. Vi è stato trovato dentro un foglio su cui erano segnati di sua mano i numeri di diciassette pagine della Fiamma viva, accompagnati, nove volte, da una lettera o da un segno che certo dovevano ricordare, per lei sola, il pensiero dominante che l’aveva colpita e di cui si può cogliere l’eco in alcune lettere scritte in seguito”» (M.-D. POINSENET, Questa presenza di Dio in te, Milano 1971, p. 208. 209) Citando il Santo mostra una devozione tutta particolare: non è solo “il nostro Padre”, come abitualmente è chiamato tra i religiosi carmelitani (cf. L 113, 153, 176, 184, 246), ma anche “il mio beato Padre” (L 115, 165 ), e qualche anno più tardi l’amica Antonietta ricevette questa confidenza: «Sa che il suo libro di san Giovanni della Croce è tutto il nutrimento della mia anima» (L 211). Anche un novizio carmelitano viene confermato da questa convinzione: «San Giovanni della Croce, il nostro beato Padre, ha scritto […] delle pagine divine, nel suo Cantico e nella sua Fiamma viva d’Amore. Questo caro libro costituisce la gioia della mia anima, che vi trova un nutrimento assai sostanziale» (L 299, ed. franc.).
Singolare è la vicenda di questo libro. Tenuto in uso dalla Beata per tutto il tempo della sua vita religiosa, fu però prestato alla sorella, alla quale scrive ,- nell’ agosto – 1905 «Oh Guite, questo cielo, questa casa del Padre nostro, è nel centro della nostra anima. Come potrai vedere in san Giovanni della Croce, quando siamo nel più profondo centro di noi Stessi siamo in Dio». E conclude: «Sono contenta che tu ami san Giovanni della Croce. Ne ero ben certa, conosco la mia piccola» (L 210).
Che si tratti dello stesso volume lo fa pensare la richiesta fatta alla sorella due mesi dopo, alla vigilia degli esercizi annuali: «Vengo a chiederti san Giovanni della Croce per questo mio grande viaggio. Dopo te lo renderò per tutto il tempo che vorrai. Sono ben lieta che continui a farti del bene» (L 215). Quando Elisabetta è ormai in infermeria – giugno 1906 -riceve da un’altra amica, la signora Hallo, il libro Maximes et avis spirituel de notre bien hereux pere saint Jean de la Croix, pubblicato l’anno precedente. Anche qui il ringraziamento non si fa attendere «Grazie del libriccino con le Massime del nostro Padre san Giovanni della Croce che formano la delizia della mia anima. Che tesoro mi ha inviato e come sono felice di averlo a mia disposizione e di potervi attingere in ogni mia necessità» (L 246).
Che tra gli autori carmelitani san Giovanni sia stato il più caro, lo confermano poi alcune testimonianze: «I Souvernirs raccontano che ella non abbia avuto tra le mani come libri di lettura ordinari che le lettere di san Paolo e san Giovanni della Croce. Questo è perfettamente esatto» (S 406).
E in modo particolare il Cantico Spirituale: «Il Cantico Spirituale di san Giovanni della Croce, che ella ebbe sempre a suo uso, le è particolarmente servito durante tutte le fasi della sua vita religiosa; “era la sua attrattiva costante”» (S ffi0).
«Ciò che ancora rivela bene la forma della sua preghiera, è il fatto ch’ella si nutriva del Cantico Spirituale di – san Giovanni della Croce” (S 184).
Giustamente perciò non si deve ritenere di circostanza la conclusione del rinformatio super virtutibus, che descrive Elisabetta «umile e grande figlia di s. Teresa di Gesù ed esimia discepola di san Giovanni della Croce» (.2??)
Se scorriamo l’indice delle citazioni delle Oeuvres complètes di Sr. Elisabetta innumerevoli sono i richiami sanjuanisti, perlo più riferiti al Cantico e alla Fiamma viva. Dunque, se presumibilmente al Carmelo di Digione si trovavano i quattro volumi delle opere di san Giovanni curati dalle Carmelitane di Parigi, a Sr. Elisabetta bastò il volume regalatole dall’amica Antonietta. D’altra parte la stessa cosa si può dire per le opere della S. Madre. Oltre il Cammino di Perfezione pare che Elisabetta non sia andata.
In fondo non le interessò accostare il santo Dottore con le stesse preoccupazioni che, ad esempio, ebbe Edith Stein quarant’anni più tardi. A Elisabetta interessò san Giovanni come colui che fornisce linguaggio e dottrina utili a descrivere una esperienza già in atto.
La completezza dello studio esigerebbe un’ analisi di tutti i riferimenti. Qui ci limitiamo sostanzialmente a quei testi di cui la Santa carmelitana riconosce esplicitamente la fonte sanjuanista. Sono circa una ventina di citazioni, ma sufficienti ad offrire uno spaccato del caratteristico rapporto tra un Padre fondatore e una sua “esimia discepola”.

Sulle tracce del Cantico Spirituale

«Importa perciò sapere dove dobbiamo vivere con lui per realizzare il suo sogno divino. Il luogo dove è nascosto il Figlio di Dio è il seno del Padre, l’essenza divina, invisibile ad ogni sguardo mortale, inaccessibile ad ogni intelligenza umana, che fa dire ad Isaia: “Voi siete veramente un Dio nascosto” (CB l ,3)» (Rl, 1).
La domanda sul luogo dove Cristo sia oggi ancora incontrabile, che il Santo Padre esprime sullo sfondo polemico provocato dalla Riforma, è assunta da “Casa di Dio” con la pacifica certezza di chi ben conosce la risposta: «Tu sei la più bella delle creature, anima che desideri ardentemente conoscere il luogo dove si trova il tuo diletto per cercarlo e unirti a lui, tu sei, tu stessa, l’angolo del suo rifugio, la dimora dov’egli si nasconde. Il tuo diletto, il tuo tesoro, la tua unica speranza, è tanto vicino a te che abita in te stessa; e, a dir la verità, tu non potresti essere senza di Lui» (CB 1,7; L 113).

Luca Giordano (?), Teresa D’Avila e Giovanni della Croce, sec XVIII, Cambridge (Massachusetts) Harvard Art Museum

Da san Giovanni riprende l’immagine del «più profondo centro» (FB str. 1 ; cf. L 210). Si tratta non solo di una realtà oggettiva ma anche di un compito: «San Giovanni della Croce dice che Dio è il centro dell’anima. Quando l’anima conoscerà Dio perfettamente, nella misura di tutte le sue energie, l’amerà e ne godrà interamente, allora sarà arrivata al centro più profondo che possa attingere in lui. Prima di essere arrivata fin là, l ’anima è già in Dio che è il suo centro, ma non ancora nel suo centro più profondo, potendo andare più oltre. Poiché è l’amore che unisce l’anima a Dio, più intenso l’amore, più essa entra profondamente in Dio e si concentra in lui. Quando possiede un solo grado d’amore, è già nel suo centro, ma quando questo amore avrà raggiunto la sua perfezione, l’anima sarà penetrata nel suo centro ‘più profondo’. E là sarà trasformata a tal punto da diventare somigliantissima a Dio» (FB 1,12-13; R 2,1).
Se Dio è un Dio che si rivela come mistero, come colui che si nasconde, è nel nascondimento e nella solitudine che va cercato: «Devo solo nascondermi nel centro del mio cuore e perdermi per sempre nella tua divina Essenza» (P 103). «È proprio questa unione divina e tutta intima che forma la nostra vita del Carmelo, ne costituisce l’essenza e ci rende tanto cara la nostra solitudine. Come infatti dice il nostro Padre san Giovanni della Croce: […] “due cuori che si amano preferiscono la solitudine a tutto” (CB 36,1)» (L 184). «San Giovanni della Croce dice che l’anima deve tenersi in un silenzio e in una solitudine assoluta perché l’Onnipotente possa attuare in lei i suoi desideri e portarla come una mamma, per così dire, prende fra le braccia il suo bambino. Assumendosi egli stesso il governo intimo dell’anima, regna in lei con l’abbondanza della tranquillità e della pace che vi diffonde» (L 198).
Elisabetta insiste su questo tema: «In questo nuovo anno che il Signore ci concede per santificarci e unirci sempre di più a lui, facciamolo crescere nelle nostre anime, lui solo e al centro di tutto (Gardons-le seul et séparé)” (L 189). «Seul et séparé» è Dio che prende posto nell’anima (L 234; L 293 ed. franc.). Per Elisabetta è un principio programmatico: «Ecco come io intendo essere ‘della casa di Dio’: vivendo in seno alla beata Trinità nel mio abisso interiore, in quella fortezza inespugnabile del santo raccoglimento di cui parla san Giovanni della Croce» (CB 40,3; UR 18).
La solida certezza e sicurezza che conclude Ultimo Ritiro è dunque espressa dal testo finale del Cantico Spirituale, ma tutto questo esige un cammino segnato dalla fede. Sulla fede e sulla oscurità che essa produce Elisabetta non solo è sobria nel citare il santo Dottore, ma più in generale dell’oscurità della sua anima, tranne pochi intimi, tiene all’oscuro i suoi confidenti: «San Giovanni della Croce ci dice che (la fede) ci serve di base per andare a Dio e che rappresenta il possesso allo stato di oscurità, che essa sola ci può dare dei veri lumi su colui che ami amo e che dobbiamo accoglierla come il mezzo per arrivare all’unione beata» (R 6,1).
Ma in questa solitudine si è certi di trovare Dio; ne dà testimonianza questa lettera scritta durante l’anno di noviziato, quando Elisabetta si trova nel tunnel oscuro della purificazione: «È appena un anno che mi ha introdotta nell’arca benedetta ed ora, come dice il mio beato Padre san Giovanni della Croce, nel suo Cantico: “la tortorella ha trovato sulle rive verdeggianti il suo compagno tanto desiderato!” (CB str. 34). Sì, ho trovato colui che la mia anima ama, quell’unico necessario che nessuno mi può rapire» (L 115).
Questa solitudine è dunque riempita dall’esercizio dell’amore (cf. CB str. 28): e l’anima fa questo «perfino attraverso le relazioni che ha col mondo, in mezzo alle sollecitudini della vita» (R 4,2). Non è più isolamento infatti il ritirarsi nel centro del proprio cuore, se questo centro è la dimora dell’infinito: «San Giovanni della Croce dice che a Dio non piace che l’amore. Noi non potremmo dargli niente, né soddisfare il suo desiderio che è quello di realizzare la dignità della nostra anima. Se qualche cosa è di suo gradimento, è che l’anima cresca; ma nulla può elevarla tanto quanto divenire, in certo modo, uguale a Dio. Ecco perché egli esige da lei il tributo del suo amore. Questa infatti è la proprietà dell’amore, uguagliare chi ama a colui che è amato. L’anima che possiede questo amore prende il nome di sposa del Figlio di Dio e appare al suo stesso livello perché la loro reciproca affezione rende tutto comune tra l’uno e l’altro. L’amore stabilisce unità» (CB 28,1; L 233). Ecco la radice dell’apostolato. Si è pieni di Dio, e perciò onnipotenti: «Uno sguardo, un desiderio diventano una preghiera irresistibile che può ottenere tutto perché, in certo modo, è Dio stesso che offriamo a Dio» (FB 3,78.81; L 171).
Le dimensioni del “profondo centro” inabitato da Dio sono esplorate dalla corrispondenza d’amore a colui che è l’Amore, perché «l’amore non si ripaga se non con l’amore» (CB 9,7; L 180). Ma che cosa questo significhi, Elisabetta lo comprenderà più appieno durante la sua malattia. «Gesù ci ha dato la Croce, perché la Croce ci doni l’Amore»: con queste parole Antonietta de Bobet ha dedicato le opere di san Giovanni a Sr. Elisabetta. E lei esistenzialmente dimostrerà questa profonda verità, vale a dire la stretta unità tra esperienza del dolore e rivelazione dell’amore. Se infatti è vero che «la croce è l’eredità del Carmelo», e che «O patire o morire» e «Soffrire ed essere disprezzato per Te» sono stati i motti dei santi Riformatori (cf. L 176), è pur vero che «san Giovanni della Croce dice che saremo giudicati sull’amore» (L 192).

Baldassare Franceschini, il Volterrano (1611 – 1690), Visione di san Giovanni della Croce, Londra, British Museum

Abbiamo volutamente accostare questi due testi, indirizzati alla medesima persona (la signora Angles), perché al centro di un significativo episodio ricordato da Sr. Maria della SS.Trinità.
«Un anno prima della sua morte, io feci un ritiro che si concludeva il 24 novembre, festa di san Giovanni della Croce, e confidai a Sr. Elisabetta il mio desiderio di comprendere praticamente il motto del nostro beato Padre: “Pati et contemni pro te”. Grande fu la mia sorpresa, quando l’ultimo giorno del mio ritiro, arrivando al mattutino, trovai nel mio breviario un’immagine di san Giovanni della Croce, alla cui base si trovava questo pensiero scelto da lei stessa: “Alla sera della vita saremo giudicati sull’amore”. Sul verso dell’immagine aveva scritto: “Caritas numquam excidit”. All’uscita dal ritiro, le chiesi la spiegazione. Ella mi rispose: “Io ho avuto un forte movimento che la mia piccola Madre ed io non potremmo arrivare all’amore dell’umiliazione e della sofferenza che amando il divin Crocifisso, e occorre soprattutto che noi ci occupiamo di amarlo” (S 65.).
Questa strada Elisabetta la percorse fino in fondo. Le fu preziosa indicazione una espressione della beata Angela di Foligno che lesse negli ultimi mesi di vita: “Ho letto qualcosa di tanto bello: ascolta: “Dove abitava Gesù se non nel dolore?” Oh piccola mia, mi sembra di aver trovato la mia abitazione: è questo immenso dolore che fu quello del mio Maestro, in una parola, è Lui stesso, l’Uomo dei dolori”» (L 264).
La “casa di Dio” è come ridisegnata dalle fondamenta; il profondo centro, «rassomiglia a quei pozzi di cui parla san Giovanni della Croce, che ricevono le acque scendenti dal Libano» (FB 3,7) e si può dire vedendolo: «L’impetuosità del fiume rallegra la città di Dio» (UR 8).
Essa diventa il tempio dove esercitare il suo sacerdozio: «Sì, voglio prendere questo calice imporporato del sangue del mio Maestro, e, nel rendimento di grazie, al colmo della gioia, mescolare il mio sangue a quello della Vittima santa! Così il mio sangue acquista in un certo senso un valore infinito e può rendere al Padre una splendida lode. Allora la mia sofferenza è un messaggio che trasmette la gloria dell ’Eterno. […] È questo il fuoco divoratore di cui parla san Giovanni della Croce, quando dice: “Ciascuno sembra essere l’altro e tutt’e due non sono che uno” (CB 12,7), per essere lode di gloria del Padre» (UR 7).

Baldassare Franceschini, il Volterrano (1611 – 1690), Visione di san Giovanni della Croce, Londra, British Museum

Figlia più che discepola

Certamente in Elisabetta le letture da lei compiute possono essere considerate “preludio e preparazione” all’azione dello Spirito Santo. Forse era “una forte sintonia col pensiero di altri maestri che inducevano facilmente la sua vivace recettività ad appropriarselo e a comunicarlo agli altri come proprio. Di sicuro assimilava facilmente quanto corrispondeva al suo spirito ed ella esperimentava nel profondo del suo essere (cf. S 291 ). Nessuna forzatura, tuttavia, nessuna artificiosità nelle citazioni. In fondo Elisabetta si sente a casa sua dappertutto e quindi con somma libertà e semplicità può chiamare suo tutto quello che incontra. Pensiamo ad esempio alle numerosissime volte in cui il pronome e l’aggettivo possessivo di prima persona ricorrono nella Elevazione alla SS. Trinità. In tal senso va letto pure il «mio beato Padre san Giovanni della Croce». (H. U. von BALTHASAR, Sorelle nello Spirito, Milano 1974)
In questo appropriarsi del santo Dottore, Elisabetta esercita una elezione, privilegiando il Cantico Spirituale. Non ha torto: in fondo si tratta del capolavoro di san Giovanni, la perfetta sintesi tra poesia e prosa, ispirazione e commento, mistica e teologia. Ma, più ancora, ella accosta il testo secondo le indicazioni suggerite dall’Autore. Esponendo il metodo seguito san Giovanni dichiara che, essendo le strofe del Cantico composte in amore di abbondante intelligenza mistica, non si potranno spiegare con esattezza, ma verrà dato solo qualche lume generale. E commenta: «Credo che ciò sia meglio poiché è preferibile spiegare i detti di amore nella loro ampiezza affinché ciascuno ne approfitti a modo suo e a misura del suo spirito, piuttosto che restringerli a un senso a cui non si accomoda ogni palato» (CB pr. 2).
E di questa sovrana libertà dello spirito approfitta anche Elisabetta più da “figlia” che da “discepola”, secondo la distinzione che ne fa C. Peguy: «Quando l’allievo non fa che ripetere non la stessa risonanza ma un miserabile ricalco del pensiero del maestro; quando l’allievo non è che un allievo, fosse anche il più grande degli allievi, non conterà mai nulla. Un allievo non comincia a contare che quando introduce egli stesso una risonanza nuova. Non che non si debba avere un maestro, ma uno deve discendere dall’altro per le vie naturali della figliolanza e non per le vie scolastiche del discepolato». Perfettamente analogo questo giudizio a quello che lo stesso san Giovanni dà di Madre Anna di Gesù che gli aveva chiesto il commento del Cantico: «Se è vero che a V. R. manca la pratica della teologia scolastica, mediante la quale si intedono le verità divine, non le manca quella della mistica, che si conosce per amore, nella quale le cose non solo si conoscono, ma insieme si gustano» (CB pr. 3).
Occorre precisare meglio: in Elisabetta “libertà” non significa “restrizione di senso”.
Ella percorre l’intero cammino descritto dal Cantico: dalla ricerca dell’Amato (CB 1,7; L 113) fino al momento in cui l’ anima, ormai nel grembo della Trinità, spira lei stessa lo Spirito santo (CB 39,3; L 153). E tuttavia con alcune risonanze nuove. Anzitutto una maggiore accentuazione esistenziale. Quando Elisabetta parla dell’anima, è di se stessa che intende parlare. Le espressioni di san Giovanni sono utilizzate per descrivere la vicenda che Dio sta svolgendo dentro di lei. In secondo luogo una diversa sensibilità nella percezione della presenza di Dio. Quello che per san Giovanni, e per il suo tempo, era divenuto il Dio nascosto ed irato da cercare perché «il tempo è incerto, rigoroso il giudizio, la perdita molto facile e la salvezza difficoltosa» (CB 1,1), per Elisabetta è la pacificante certezza di essere lei stessa “casa di Dio”, e perciò di poter muoversi da subito con la tranquillità e la sicurezza di chi cammina tra pareti domestiche.

Baldassare Franceschini, il Volterrano (1611 – 1690), Visione di san Giovanni della Croce, Londra, British Museum

Tutto questo non significa l’annullamento della sofferenza e del dolore, ma costituiscono l’occasione per verificare l’ampiezza e la profondità di questa “casa”. Lo Spirito Santo che l’anima stessa può spirare al termine del suo cammino è lo Stesso che il Padre celeste ha in qualche modo ricevuto dal Figlio che “spirava” sulla croce. È dunque lo Spirito del Signore crocifisso. Elisabetta poté dunque esperimentare l’ampiezza della “casa di Dio” solo quando fu resa pienamente conforme all’immagine crocifissa del Figlio.
E. Mounier affermava: «Bisogna soffrire perché la verità non si cristallizzi in dottrina, ma nasca dalla carne». Questo è proprio quanto è accaduto alla “carne” di Sr. Elisabetta di fronte alla “dottrina” del suo beato Padre san Giovanni della Croce.

*Pubblicato in Quaderni Carmelitani 6, 1989, pp.207-217

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