Salinger e il viandante

“Plasmiamo parole” pronunciandole, ma è vero anche il contrario: le parole ci danno forma. La parola è nostra figlia, ma è anche nostra madre, ha detto Papa Francesco durante la catechesi di mercoledì scorso; le parole ci generano e ri-generano, non smettendo mai di darci vita ed energia, di creare “forme” nuove. Mai sottovalutare le salmodie ripetute nell’ombra di una chiesa, mentre le dita sfiorano i grani di un rosario e il respiro si accorda al ritmo di una frase ripetuta — il Papa insiste molto su questo — perché pregare è sempre un gesto molto più potente di quello che sembra, è un gesto capace di cambiare la storia, oltre che noi stessi e il nostro sguardo sulle cose. Se ne è accorto anche Salinger, l’autore del celeberrimo Il giovane Holden (ma il titolo originale è il ben più poetico The Catcher in the Rye); ne parla in uno dei suoi romanzi più belli e meno conosciuti, Franny e Zooey, del 1961; Zooey è un giovane attore, brillante ma già un po’ cinico, Franny è sua sorella, che sta frequentando l’università. Franny è stata invitata a pranzo dal suo fidanzato, ma non riesce a liberarsi da una strana inquietudine. Ha letto i Racconti di un pellegrino russo e si accorge di desiderare quello che desidera il protagonista del libro: conoscere Dio, farne esperienza, trasformare la vita quotidiana (che a volte sembra così scialba e vuota) in una occasione di preghiera incessante. Come ci insegna la grande letteratura, il contatto con le parole non lascia indenni, può avere effetti collaterali imprevedibili. Un’esperienza condivisa anche da chi vive il teatro, quello vero, un atto che riguarda la “totalità terribile” — come la chiamava Giovanni Testori — la tragedia e la gloria dell’esistere umano. È successo anche a Vittorio Gassman, colpito dalle storie annotate da Nemytov al punto da trarne una “confessione in poesia”, A Dio (Fermoposta) «Eri come La lettera smarrita di Poe,/ nello spazio impensato perché/scontato./Eri e Sei — forse ora ho capito —/fra le parole che ho tanto usato e osato (…) purché Tu appaia, le fruste parole/ si fanno Parola, e col mio io/sepolto finalmente parlerai». Perché la vera modalità espressiva dell’uomo è il dialogo, non il monologo, amava dire il cardinale Tauran, dato che «esistere è sempre essere in due» e «la verità è l’incontro che faremo quando vedremo Dio faccia a faccia. Allora potremo capire che la vita non è qualcosa che se ne va, ma Qualcuno che viene».
di Silvia Guidi

Fonte: Osservatoreromano.va

Commenti

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.