Tra Gesuiti e Carmelitani, tra Sicilia e Spagna
di padre Giuseppe Adamo
Il nobile spagnolo Giovanni De Vega (1507-1558) aveva accompagnato l’Imperatore Carlo V nella guerra contro Tunisi. Nel ritorno verso la Spagna, lo seguì in Sicilia e in Italia e poi, creato ambasciatore presso il Papa, si trasferì dalla Spagna a Roma, con la moglie, donna Eleonora Osorio, e i figli Fernando, Alvaro, Suero ed Isabella.
A Roma incontrò il connazionale Sant’Ignazio di Lojola.
A detta dello stesso Santo, tra tutte le signore della società romana non ne aveva trovato una sola che avesse aderito alle sue vedute apostoliche con tanto ardore e con tanto buon senso di donna Eleonora.
L’amicizia tra Sant’Ignazio e la famiglia De Vega assumeva così, pian piano, un’importanza sempre crescente.
Donna Eleonora e la figlia furono le prime e più devote ammiratrici di Sant’Ignazio che fu il loro confessore. Quando don Giovanni De Vega fu inviato come Viceré in Sicilia dovette lasciare Roma.
Sull’Isola incombeva il pericolo dell’armata turca insieme al flagello delle scorrerie dei pirati e il Viceré risolvette di spostare la corte da Palermo a Messina. Proprio a Messina nacque il primo dei 24 collegi siciliani.
I nuovi religiosi abbracciavano la povertà individuale, ma rifiutavano di vivere di questua e di elemosine. Si rendevano autonomi nei mezzi di sussistenza con rendite di beni immobili, per essere liberi di dedicarsi allo studio e all’azione apostolica, alla scuola, alla predicazione, alla direzione spirituale, alle missioni popolari e all’evangelizzazione dei popoli.
I collegi dei gesuiti, perciò, erano obbligatoriamente fondati e dotati di consistenti rendite, derivanti da proprietà terriere per avere assoluta autonomia finanziaria.
Il modello ecclesiastico era completamente innovativo.
Con le dotazioni crearono moderne aziende agro-pastorali integrate, alla cui base stava la produzione, l’occupazione e il profitto. Proprio per questo si richiedevano grandi estensioni di terra, superando la frammentazione non redditizia della misera e scarsa proprietà contadina.
Far fruttificare bene i fondi, richiedeva investimenti di grossi capitali e reinvestimento del profitto. Questo programma, perciò, richiedeva una scuola di specializzazione del lavoro manuale, responsabilizzazione e organizzazione dell’attività sotto la direzione di personale preparato, utilizzo di nuovi ritrovati agricoli, selezione delle sementi, commercializzazione diretta dei prodotti e adeguamento alle richieste del mercato.
Così la ricchezza distribuita diventava motivo occupazionale e la proprietà rivestiva una funzione sociale.
Era un modello di sviluppo nuovo, offerto esemplarmente al baronaggio e agli ecclesiastici, ma che essi non vollero o non seppero attuare nelle loro proprietà feudali. I gesuiti, aprirono scuole pubbliche organizzate nel metodo e nei programmi, con un regolamento scolastico, distribuzione delle materie e orario delle lezioni, mattina e pomeriggio.
Avveniva, così, il superamento della cultura privatistica, chiusa nei monasteri e nei conventi e, perciò, funzionale solo alla formazione di pochi, soprattutto del clero. Queste scuole, invece, erano aperte alla formazione dei laici per i figli degli aristocratici e della classe dirigente soprattutto, ma anche e gratuitamente, ai ragazzi poveri ma più intelligenti.
Le due dame De Vega, stanziatesi definitivamente in Sicilia mandavano continuamente aiuti alla casa professa di Roma, che era povera. Le prime volte, queste cose, resero Sant’Ignazio piuttosto contrariato.
La cosa più interessante, però, è l’affascinante relazione epistolare con Sant’Ignazio1. Almeno 22 lettere ci raccontano la personalità e gli interessi di queste due nobili dame, madre e figlia, in dialogo affettuoso e filiale con il Generale dei gesuiti. Sant’Ignazio canta le lodi di questa famiglia che ebbe un influsso decisivo nell’espansione della Compagnia in Sicilia:
«Conoscevo, infatti, il grande amore che fu dato da Dio a Vostra Signoria e a tutta la Vostra Illustre Famiglia, a vantaggio di tante opere buone, e lo speciale affetto che manisfestaste alla nostra Compagnia, come per una cosa intieramente vostra».
La morte di donna Eleonora fu, come era stata la sua vita, piena di fede, di pietà, di bontà, di umiltà, di disprezzo del mondo, di sollecitudine verso i poveri e l’unica figlia femmina, Isabella, seguì le opere della madre.
Con l’incoraggiamento di Sant’Ignazio, Isabella sposò (1552), a Messina, don Pietro De Luna, conte di Bivona e di Caltabellotta (AG) Ella chiese ardentemente che i gesuiti si occupassero della gente del vasto dominio della contea di Bivona: una popolazione di cui la “Cronaca” della Compagnia di Gesù, in alcune pagine interessantissime per la storia della civiltà, descrive i costumi pagani e straordinariamente selvaggi. Chiese 12 gesuiti per il collegio edificato e dotato a sue spese:«noi ci consideriamo della Compagnia, allo stesso modo di quelli che vivono in essa», scriveva. Sant’Ignazio amava troppo Isabella, e mandò 12 giovani gesuiti. In quel torno di tempo, i fratelli di Isabella: Alvaro e Suero si preoccupavano di erigere i collegi di Catania e di Siracusa.
Abbiamo detto che Sant’Ignazio canta le lodi della famiglia De Vega, ma ne canta le lodi anche il carmelitano padre M. Jeronimo Graciàn che incontrò Suero De Vega a Palencia.
«Per caso incontrai Suero De Vega, figlio di Giovanni De Vega, che fu Presidente del Consiglio di Castiglia (1558), uomo importante, di molta devozione spirituale. Lui e sua moglie, donna Elvira De Mendoza, figlia del conte Osorno (leggi: Osorio), digiunavano due volte la settimana, tenevano un’ora di orazione mentale, facevano la comunione ogni otto giorni e facevano molte elemosine. Questo cavaliere incoraggiò e poi favorì molto il convento».2
Su Suero De Vega, appellato a Palencia: “il padre dei poveri”, il carmelitano Graciàn riporta un magnifico episodio che forse in pochi conoscono.
«Suero De Vega aveva un gran desiderio di vedere in volto Madre Teresa, perché dal tempo della fondazione del convento di Palencia, dopo avere fatto tanto e volendole un gran bene, ella mai aveva alzato il velo. Mentre eravamo per strada venne da me dicendomi che gli sarebbe piaciuto molto vedere il volto della Madre. Gli dissi di venire con me e starmi a fianco che, appena arrivanti alla carrozza, avrebbe potuto vederla.
Lo fece, ma cercando di vederla meglio si fece notare. La madre capì che qualcuno avrebbe potuto vederla e abbassò il velo. Io le dissi: “Perché fa così, è il signor Suero De Vega, alzi il velo e gli parli!”. Mi rispose: “Mi da una grande gioia, Dio la ricompensi, padre mio!”.
In quel momento ordinò di fermare la carrozza e Suero De vega scese e si avvicinò allo sportello dove la Madre, con amore e buona grazia lo abbracciò. Il gentiluomo si mise a piangere per la commozione e la gioia, come pure i suoi figli, di tre o quattro anni, felici quando la Madre veniva a Palencia e andavano a mettersi sotto lo scapolare e raccontavano alla mamma, donna Elvira, il profumo che emanava quella signora monaca, tanto che non volevano andarsene via3. In verità quelle creature innocenti percepivano quell’odore che il suo corpo emanò poi quando ella morì e il loro padre Suero De Vega s’inteneriva per la devozione e la consolazione che provava.
Questo cavaliere era un gran servo di Dio – ne parlo perché è già morto – e nella città di Palencia era chiamato a ragione: “padre dei poveri”.
Una volta, oltre le dieci di notte, faceva molto buio e diluviava molto forte, mentre cenavamo insieme, ho visto con i miei occhi inviare un po’ di cibo ad una povera donna molto malata. I suoi servi gli dissero che non aveva chiesto da mangiare.
Provò tanto dolore e tanta compassione come se la povera fosse stata sua madre. Tralasciò la sua cena, mandò a sellare un cavallo e andò a dar da mangiare a quella povera donna. Mi sovvenne ciò che faceva Tobia che tralasciava la cena e di notte andava a seppellire i morti.
E poiché la Madre conosceva questo e molte altre cose su di lui, perché lo guidava nell’orazione e nello spirito, non c’è da meravigliarsi che abbia sollevato il suo velo, trattandolo con tanta tenerezza e affabilità».4
Muore Isabella De Vega di parto. La figlia Luisa De Luna De Vega, nata nel 1553, sposò don Francesco Moncada conte di Caltanissetta e principe di Paternò costruì il grandioso collegio di Caltanissetta. Il nipote Antonio Moncada D’Aragona, sposò donna Giovanna La Cerda nipote di di donna Luisa La Cerda quella che aveva avuto in casa, neI 1562, per quasi sei mesi, Santa Teresa d’Avila. In discorso di matrimonio dopo avere avuto 6 figli i due nobili coniugi, chiesta la dispensa al papa, li marito si fece gesuita e la moglie carmelitana scalza col nome di suor Teresa dello Spirito Santo. Don Antonio e il figlio Luigi, viceré e poi cardinale, per lei costruirono a Palermo il famoso monastero dell’Assunta in via Maqueda.
Le Carmelitane scalze
a Palermo
foto: Palermo, Chiesa e monastero delle
Carmelitane scalze “Maria SS. Assunta”, sec. XVII
Tra le Chiese ed i Monasteri costruiti a Palermo nel ‘600 possiamo annoverare la splendida Chiesa dell’Assunta delle Carmelitane Scalze, fatta costruire da Don Antonio Moncada, Duca di Montalto, marito di Donna Giovanna della Cerda, a seguito della dolorosa perdita del primogenito Francesco.
1625 Papa Urbano VIII autorizza la fondazione del Monastero dell’Assunta;
1626 Donna Giovanna della Cerda, pronuncia i voti di carmelitana scalza nel monastero di San Giuseppe di Napoli assumendo il nome di suor Teresa dello Spirito Santo, il marito accede alla Compagnia di Gesù.
1628 Viene completata la costruzione della Chiesa e del Monastero, Donna Giovanna divenuta Suor Teresa torna a Palermo, accolta dal Cardinale Giannettino Doria, dal Vicerè e dai Nobili; viene introdotta nel Monastero ed il Cardinale Doria ne dichiara la clausura;
1710 Inizia la decorazione della Chiesa, che ha come punto di riferimento la glorificazione di Santa Teresa d’Avila,
1861 Soppressione degli Ordini Monastici e passaggio dell’immobile allo Stato;
1904 Il Monastero viene ceduto dallo Stato al Comune di Palermo ed adibito a scuola.
Note
1 Rahner Hugo, “Ignazio di Loyola e le donne del suo tempo”, Ed. Paoline, Milano, 1968, pgg. 625 – 688.
2 Jeronimo Graciàn, Peregrinaciòn de Anastasio, Ediciòn preparada por juan Luis Astigarraga, Roma, Teresianum, 2001, pg.247.
3 Un figlio si fece carmelitano col nome di Fr. Giovanni della Madre di Dio. Fu priore del convento di Palencia e per umiltà ruinunziò al vescovado. Cfr.: Fr. Giuseppe di S. Teresa, “Riforma dè Scalzi…”, traduz. Italiana, Parma, MDCCLXXVII, tomo 3°, pg. 161.
4 ”Gracian J, Escolias a la Vida de SantaTeresa de Jesùs compuesta por el P- Ribera. (Ed. preparada por Juan Luis Astigarraga), – Eph. Carm 32 Pag 416 – 417.
“Tenía Suero de Vega grandísimo deseo de conocer a la Madre viéndola el rostro, porque en todo cuanto estuvo en la fundación de Palencia, con hacer tantos bienes y querer tanto a la Madre, nunca le había descubierto el velo. Y como íbamos camino, llegóse a mí diciéndome gustaría mucho de ver a la Madre y conocerla; y di jele que nos llegásemos hacia el coche y él se encubriese conmigo yendo a mi lado y así la podría ver. Hizose así, pero descuidándose por verla mejor se descubrió, de manera que la Madre entendió que algún seglar la veía, y luego se echó el velo. Y o le dije: «¿ Para qué se cubre ?, que no es sino el señor Suero de Vega. ¿ Por qué hace esos melindres ? Alcese el velo y háblele». Respondióme: «Dios se lo pague, mi Padre, que harto contento me ha dado». Y entonces mandó que parasen el coche, y Suero de Vega se apeó y llegó a la ventana de él, donde la Madre con amor y buena gracia le abrazó, derramando el buen caballero tantas lágrimas de ternura con tanto gozo y sentimiento como sus hijos — que eran niños de tres o cuatro años— debían de tener de contento cuando todas las veces que la Madre venía a Palencia y ellos podían se le metían debajo del escapulario, diciendo a su madre doña Elvira que qué olores traía aquella señora monja, que cuando se ponían allí dentro olía tanto que no quisieran salir de allí. A la verdad, aquellas criaturas inocentes percibían aquel olor que después de muerta dio su cuerpo, y su padre Suero de Vega la ternura de devoción y consuelo que digo. Fue este caballero tan siervo de Dios —y porque ya es difunto lo digo— que en su ciudad de Palencia era llamado, y con razón, «padre de pobres». Vi por mis ojos que estando una vez cenando yo con él siendo más de las diez de la noche y haciendo muy oscuro y lloviendo muy recio, había enviado un poco de manjar blanco a una pobre que estaba muy enferma. Dijéronle sus criados que no lo había querido comer. A él le dio tanta pena y ternura como si fuera la pobre su propia madre, y mandó luego ensillar un caballo y fue a hacer comer a la pobre dejando su cena. Acordóseme de lo que hacía Tobías cuando iba a enterrar los muertos levantándose de la cena. Y como la Madre sabía esto y otras muchas cosas de él porque él trataba con ella su oración y espíritu, no es de maravillar que le alzase el velo y tratase con tanta ternura y afabilidad.
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