La Preghiera Continua

Preghiera ed esercizio della presenza di Dio al Carmelo di Anastasio Ballestrero ocd*

«Meditando giorno e notte la legge del Signore e vegliando nelle preghiere.»

Questo vegliare nelle preghiere apre un capitolo della preghiera, nella nostra vita carmelitana, che merita una particolare attenzione. Non è l’ascolto della Parola di Dio, non è l’orazione mentale che esaurisce il perenne pregare dell’anima carmelitana.
Una perennità che non prende soltanto il tempo – il che sarebbe già una gran cosa – ma una perennità che prende l’anima, che prende la vita.
La perennità della preghiera, al Carmelo, è una perennità interiore, una perennità che si realizza nella continuità del cuore, della mente, dello spirito, della persona del Carmelitano, della Carmelitana, e questo spiega, secondo me, perché la Regola non ci comanda soltanto l’orazione ma le orazioni.
Se noi osserviamo come l’Ordine ha interpretato questo punto della Regola, dobbiamo intanto partire da una constatazione: questi eremiti del Monte Carmelo che hanno chiesto a sant’Alberto la Regola erano così affascinati dalla terra del Signore, e spiritualmente si legavano e si collegavano con le prime esperienze monastiche della prima Chiesa di Dio: i Padri del deserto.
Questi oranti, questi contemplativi che noi, oggi, possiamo chiamare anche anomali, perché non erano coordinati e raccordati con tutti i nostri centralismi e con tutte le nostre strutture. Erano delle persone affascinate dal Vangelo, affascinate da Cristo e, alla sua sequela, se ne andavano nella solitudine per contemplare, per pregare, per ascoltare.

Jean Bazaine, Vetrate del Battistero, 1954, Audincourt, Chiesa del Sacro Cuore

Preghiera aspirativa

È un fatto che nell’esperienza spirituale dei Padri del deserto – come del resto, poi, in tutta la tradizione monastica – la preghiera non aveva tanto i momenti solenni della Comunità come tale, ma aveva i momenti intensi e profondi dell’eremita, il quale pensava a tutto nella sua vita, ma, nel pensare a tutto, colmava di preghiera tutto ciò che faceva.
E lo faceva con delle preghiere istintive, con delle preghiere subitanee, con delle preghiere ardenti, ed era un pregare articolato a gridi dell’anima, a vibrazioni del cuore, piuttosto che a costruzioni di pensieri collegati tra di loro.
Era un andare verso Dio d’impeto, era un andare verso Dio di slancio, ed era uno di quegli atti che, poi, anche i Padri del deserto posteriori hanno chiamato anagogici, cioè quelle impennate dello spirito tendenti verso Dio come saette. Di qui il termine, «giaculatoria» da jaculum. Espressioni che vanno verso Dio veloci, dirette, rapide, violente e feriscono il Cuore di Dio suscitando da Dio le risposte della Grazia e della Carità.
Questo pregare istintivo, questo pregare d’impeto era una consuetudine e non c’è dubbio che i nostri primi Padri che vivevano in solitudine usavano questo modo di pregare che io chiamerei modo aspirativo della preghiera, modo subitaneo. Non erano soltanto le giaculatorie che in un certo tempo hanno preso tanta importanza, ma in periodi piuttosto di decadenza spirituale, come nell’800, in cui si era arrivati a fabbricare le giaculatorie a tavolino, a farle indulgenziare e a ripeterle tanto per far qualcosa.
La parola «giaculatoria» è stata un po’ profanata da un uso indebito. Ma nei Padri antichi, questo andare d’impeto verso Dio era la cosa più bella, era la cosa più preziosa per loro.
E allora, questa preghiera aspirativa, secondo me, è allusa là in quell’orationibus, in quelle preghiere indeterminate ma molteplici, ma permanenti, ma continue. La vita resa vibrante e palpitante attraverso lo slancio interiore che si esprime tante volte anche esteriormente.
Una traccia di questo modo di pregare, che oggi si sta scoprendo anche con un certo interesse un po’ di moda spirituale, è la preghiera dei monaci russi, la preghiera esicastica, come si dice, ch’è di questo tipo, di questo slancio: «Signore Gesù, Figlio di Dio, abbi pietà di me peccatore». Il pellegrino russo prega così.
«Signore Gesù, Figlio di Dio, abbi pietà di me peccatore»: è uno slancio, è un invito, un desiderio, una confessione: è tutto ciò che volete. Il pellegrino russo dice che bisogna dirlo sempre, giorno e notte. Non voglio dire questo per riferirmi alla preghiera orientale, ma voglio dire che in queste orazioni molteplici che la Regola comanda al Carmelitano, c’è questa esigenza aspirativa della preghiera, questa esigenza esclamativa.

Preghiera esclamativa

Fernand Léger, Simboli della passione (particolare della vetrata), 1950-52, Audincourt, Chiesa del Sacro Cuore

Del resto noi non possiamo non constatare un fatto: che la Nostra Santa Madre, nel suo pregare, è una delle creature più esclamative che siano esistite. Non c’è una pagina dei suoi scritti che non contenga qualche esclamazione, qualche impeto, qualche grido, qualche espressione di ammirazione, di lode, di riconoscenza, di desiderio, di speranza, di amore, di fervore, di dedizione.
La Santa Madre è inesauribile in questo esclamare. In certi momenti esclama e le sue esclamazioni, scritte soprattutto dopo la Comunione, sono un classico. Le ricordate, no? Nelle Opere ci sono. In esse c’è tutto un palpitare di amore, c’è tutto un vibrare di fede, c’è tutto un dilagare di desideri attraverso la forma esclamativa.
La forma esclamativa alle volte è scritta, come nelle esclamazioni della Santa Madre e come tutte quelle esclamazioni che i suoi scritti raccolgono. Ma è proprio l’atteggiamento dell’anima: quest’anima ch’è provocata da tutto ad andare verso Dio.
Questo tipo di preghiera aspirativa è presente anche nel Nostro Santo Padre ma – e la cosa è molto significativa – da un altro punto di vista. Il Santo Padre è portato ad esclamare, a lodare Dio, a benedirlo, ad ammirarlo attraverso la contemplazione delle creature. Non vede le creature nella loro materialità, ma le vede come immagine di Dio, come sue orme, come segni della sua Presenza, come manifestazioni della sua Potenza.
E questo lo esalta, questo lo commuove, questo lo rende ammiratore, ed è un contemplativo della natura il Santo Padre, veramente paradossale per l’immagine che di solito se ne fa. È perduto in Dio, ma attraverso la contemplazione di Dio nelle cose. Dice: «Nulla, nulla, nulla», perché le cose devono essere soltanto una trasparenza di Dio. Ed è l’esperienza che fa.
Le sue stesse preghiere poetiche sono un esempio monumentale di questa eslamatività della sua preghiera. Della sua contemplazione, del suo attendere a Dio. Non c’è niente che lo distrae: tutto lo porta là.
Lo porta là il pensiero di un passero solitario, la contemplazione di un tronco che brucia, lo stormire delle fronde nella foresta, tutto lo porta là. E la sua anima vibra, la sua anima adora, la sua anima ammira, la sua anima benedice Dio.
E quando scrive la Preghiera dell’anima innamorata, ch’è una delle esclamazioni più prodigiose che l’uomo abbia potuto produrre, che cosa fa? Raccoglie nel suo impeto esclamativo tutte le cose.
E quando invoca ed ammonisce le anime: «O anime, voi che siete chiamate a queste altezze, perché vi perdete?» è ancora un esclamativo, è ancora una preghiera aspirativa che gli scaturisce dal cuore e diventa annunzio, diventa testimonianza, diventa esperienza profonda.
Nella letteratura deteriore i punti esclamativi significano solo una decadenza letteraria, ma i santi mistici quanti punti esclamativi usavano! Ma erano nella sostanza del loro pensiero e della loro esperienza un vertice, anche, del linguaggio umano.

Fernand Léger, Sacro cuore (particolare della vetrata), 1950-52, Audincourt, Chiesa del Sacro Cuore

Quando leggiamo la Santa Madre nei suoi manoscritti rimaniamo sorpresi dal fatto che quel turbinare di esclamazioni coi discorsi più sapienti e più profondi che fa non sono sorretti da nessuna punteggiatura: ci si perde dentro. Va avanti così, non conosce né maiuscole né minuscole, scrive come le capita, ma il fiume dei suoi sentimenti trabocca e, in certi momenti, si accavalla come un cavallone del mare per lodare Dio e benedirlo e ringraziarlo.
Questa forma di preghiera è propria anche di Elisabetta della Trinità. Non fu per caso una Carmelitana.
La piccola Teresa merita un discorso un po’ a parte perché i suoi punti esclamativi sono come i suoi puntini: sono un po’ troppi!… Era la decadenza della scuola… Comunque l’impeto dei suoi desideri, l’entusiasmo, la commozione profonda caratterizzata anche il suo scrivere.
Questa capacità di rendere preghiera la vita, di trasfigurare in contemplazione le vicende più quotidiane e più consuete dell’esistenza: è una preghiera di casa, al Carmelo e la dobbiamo custodire e curare con molta attenzione, anche se viviamo in un tempo nel quale il cerebralismo sembra assediare la preghiera per renderla solo una concatenazione di sillogismi. Coi sillogismi non si prega.
Prendiamo ad esempio san Tommaso d’Aquino, un grande orante: quando noi leggiamo l’Ufficio del Corpo del Signore – è suo – è tutta un’esclamazione. Quelle antifone sono tutti gridi di fede, di amore, di tenerezza per il Corpo e il Sangue del Signore. Quando pregava era un esclamativo anche lui, ma quando scriveva la Summa, beh, lasciamo andare…
Questo celebralismo della pietà del nostro tempo avrà i suoi vantaggi, non dico no, ma non è di casa nostra. È il cuore che conta, è l’impeto della vita, è la capacità di creare una continuità di ricerca di Dio, di incontro con Dio, che non è giusto che trovi impedimenti nelle così dette distrazioni della vita.
La vita non è una distrazione: siamo noi che rendiamo distrazioni le cose, ma Dio le ha create non per distrarci, le ha create per legarci a sé, per parlarci continuamente con una varietà infinita di voce e per dirci in ogni momento: io ti cerco, io ti aspetto, sono io il tuo Signore tuo Dio. La gelosia di Dio si esprime anche nella presenza multiforme delle creature che il Signore non ci mette a fianco perché tentino la nostra fedeltà, ma perché l’accendano di una pienezza nuova e di una vivacità inesauribile.

* Testo tratto da: Anastasio Ballestrero, Vivere in ossequio di Gesù Cristo, ed. OCD, Roma 2003, pp.45-54.

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