Santa Teresa d’Avila

Biografia

Teresa Cepeda y Ahumada nacque ad Avila, nella Vecchia Castiglia, il 28 marzo del 1515. Il padre, don Alonso Sanchez, era un ebreo convertito che, dopo varie peripezie e l’aver mutato il cognome in Cepeda, era approdato ad Avila, città famosa per la sua tolleranza religiosa. Teresa fu la prima femmina, dopo due maschi, del suo secondo matrimonio con Beatriz de Ahumeda, una cattolica molto pia sposatasi a soli tredici anni. Dal matrimonio con Beatrice, don Alonso, “esattore delle tasse”, ebbe nove figli; da quello precedente ne aveva avuti due. Teresa crebbe quindi in una famiglia numerosa in proprio e ulteriormente allargata poiché abitava in una casa dove vivevano un mucchio di parenti. Uno alla volta i maschi partirono per il nuovo mondo scoperto da Cristoforo Colombo, al di là dell’Oceano, spinti da un impulso che stava a metà strada tra il desiderio di carriera e di conquista e la coscienza d’avere una missione cristiana da compiere. Le tre femmine, delle quali la più impetuosa era certamente Teresa, restarono a casa. A sei anni la piccola era già capace – in quel tempo! – di leggere da sola, e il libro che la affascinava era il Flos sanctorum che raccoglieva assieme la vita di Cristo e quella “eroica” di alcuni santi (martiri, eremiti e sante vergini). Durante le lunghe sere lo si leggeva insieme in famiglia, ma poi Teresa si prendeva il volume per suo conto e ne ragionava col fratello Rodrigo di otto anni. Erano insieme affascinati dalla parola: “sempre, sempre, sempre” che andavano ripetendo riferendola all’eternità di felicità in Dio. Un mattino del 1522, desiderosi di incontrare Dio, assai presto, i due piccoli fuggirono di casa: volevano andare in una imprecisata “terra dei mori” a cercare il martirio e la santità (la Spagna era stata liberata dal dominio arabo solo da poco), in modo da farsi uccidere per la fede, come i martiri, e così poter entrare in quella “vita eterna” che tanto li affascinava. Allo zio che riuscì a rintracciarli (quando ormai quasi li piangevano morti, pensandoli caduti in uno dei numerosi pozzi aperti nelle campagne), e poi anche alla mamma che li rimproverava inquieta, Teresa, con la voce e gli occhi pieni di desiderio e di sfida, insisteva: “io voglio andare a vedere Dio”. Altro fascino su di loro era la vita eremitica. Così pensarono che se non potevano diventare martiri, potevano almeno vivere come eremiti. Cominciarono a costruire assieme, nel giardino di casa, una specie di celletta in muratura, ma “accatastavamo piccoli sassi che finivano per cadere quasi subito”. C’era in fondo un vago desiderio di amare Dio, anche se prevaleva quello del godimento eterno. Ed ecco che man mano che Teresa entrava nello splendore della sua adolescenza e poi della giovinezza, scopriva, sì, d’amare Dio come si ama la bellezza, la felicità, l’eternità, ma scopriva anche di amare la vita, il suo corpo, il fascino degli affetti e delle avventure umane. Cominciava ad amare assieme, per così dire, il cielo e la terra e non sapeva bene come le due cose si potessero conciliare. Come a sei anni aveva letto ripetutamente il Flos sanctorum, così nella prima adolescenza lesse di nascosto quei romanzi di cavalleria che allora riempivano la Spagna, con i quali la madre malaticcia si distraeva nelle lunghe ore di degenza. Vi consumò “tante ore del giorno e della notte”, bene attenta a che il papà non la scoprisse, e se ne imbevve talmente che, sempre col fratello Rodrigo, ne scrisse uno a due mani: un romanzo cavalleresco che di nascosto i fratelli e i cugini si passavano di mano in mano. Intanto fioriva la squisita femminilità di questa fanciulla che per tutta la vita riuscì sempre ad affascinare chiunque le si accostasse. I passatempi e le occasioni posero però in pericolo le primitive aspirazioni di Teresa bambina. Ella cominciò a vivere la tappa dell’adolescenza con i palpiti e i turbamenti di ogni ragazza, iniziando a coltivare esageratamente la sua persona: “Cominciai a vestirmi con ricercatezza e a desiderare di comparire. Avevo somma cura delle mani e dei capelli. Usavo profumi e ogni altra possibile vanità: tutte cose che, essendo io molto raffinata, non mi bastavano mai” (Vita 2,3). Contemporaneamente, nel gruppo dei cugini e dei parenti, divenne lei la confidente di tutte le piccole avventure amorose, e il centro dove s’intrecciavano le fila di tutte le affezioni. Lo faceva con ingenuità e innata signorilità, ma era nell’età più pericolosa e ciò che osservava e ascoltava le si imprimeva dentro profondamente. Da un lato restò inestirpabile in lei la persuasione dei valori eterni, definitivi, ai quali occorreva consacrare interamente la vita, dall’altro si sviluppò in lei il fascino di tutto ciò che nel mondo era bello, desiderabile, cavalleresco, raffinato, amabile. Teresa affermò che la sostenne “il timore di Dio, benché – notò con sincerità – più forte fosse il sentimento dell’onore” (V. 2,3), e “perduto questo santo timore, non mi rimase che il sentimento dell’onore” (V. 2,5). Tuttavia, non fui mai portata a commettere gravi colpe, le cose disoneste mi ripugnavano per natura” (V. 2,6). Sua madre morì quando lei aveva 14 anni. La Santa parlerà di lei come di una bella donna che viveva da reclusa, quieta, intelligente e “gravemente inferma”, indebolita com’era dalle gravidanze continue. Fin dall’infanzia Teresa si sentì intimamente legata alla Madonna che si elesse per madre alla morte della mamma, assicurando che d’allora “non vi fu cosa in cui mi sia raccomandata a questa Vergine sovrana senza che ne venissi subito esaudita: essa infine mi fece tutta sua” (Vita; 1, 7). Il rosario fu l’ossequio d’amore che non smise mai nella sua vita, mentre fu “nemica” dichiarata delle devozioni troppo ricercate. Nutrì un culto speciale per S. Giuseppe che definì maestro di orazione, invitando tutti ad essergli devoti “perché la devozione a lui è un grande mezzo di comunione col Cristo” (Vita; 6). Don Alonso, preoccupato dinanzi a fatti che gli facevano sospettare qualcosa d’inconveniente, troncò il tutto risolutamente, ponendo Teresa, all’età di 15 anni, nell’Internato di S. Maria delle Grazie per completare la sua educazione. Lì, grazie all’aiuto di una suora, Maria di Bricegno, Teresa iniziò un processo che la portò, dopo alcuni anni di riflessione, alla scelta della vita religiosa (V. 2, 10). In lei prese corpo d’idea di farsi monaca, anche se non voleva prendere il velo; il pensiero del chiostro la affascinava col suo radicalismo ma a volte ne provava “fortissima avversione”. D’altra parte anche il matrimonio le sembrava limitare la sua passione per il tutto. Secondo le sue parole, si sentiva divisa in due: “Pregavo Iddio perché si degnasse di non chiamarmi, ma avevo paura del matrimonio”. Quel tipo di vita monastica tra le Agostiniane non le si confaceva e, dibattuta tra prendere o meno il velo,Teresa si ammalò e tornò a casa. Passarono lunghi anni durante i quali aiutò il padre a crescere i fratelli. All’età di vent’anni decise di rischiare tutto: sfidò il padre che non voleva neppure sentir parlare di vocazione monastica e, all’alba del 2 novembre 1535, fuggì di casa e si presentò al monastero carmelitano dell’Incarnazione. Il dolore della separazione fu, tuttavia, così grande da sentirsi – come narrò lei stessa – “slogare le ossa”. Entrò come conversa; per dote aveva solo la promessa che il fratello Rodrigo fece, in forma di testamento, di lasciarle in caso di morte tutto l’oro che avesse trovato come conquistadores nel Nuovo Mondo. Ma, poi, il padre si rabbonì e la dote arrivò. Trascorse circa vent’anni di vita conventuale con regola molto mitigata, che le consentì di intrattenere quei contatti mondani cui la sua natura gioviale ed elegante volentieri la spingeva, vivendo una vita incoerente e disintegrata. Teresa ammise di essere entrata in convento per paura dell’inferno nel quale l’avrebbe precipitata la debolezza del suo carattere se fosse rimasta nel mondo. Confusa e scoraggiata, si ammalò di nuovo e fece ritorno a casa per le cure necessarie. I medici non ci capirono nulla della sua misteriosa malattia. Si ricorse perfino a un’empirica che con i suoi rimedi non fece che aggravare l’inferma. Durante una sosta presso la casa di uno zio ella trovò l’Abbecedario spirituale, un libro che insegnava la preghiera mentale e cominciò a sperimentarla. La sua malattia durò tre anni, entrò in coma, restò paralizzata a letto, anzi, apparve morta e già se ne prepararono i funerali. Dopo quattro giorni di catalessi, ritornò alla vita, ma in uno stato da far pietà: tutta rattrappita per violentissimi dolori di nervi, ravvolta in se stessa come fosse un gomitolo. Dato che i medici della terra erano impotenti a guarirla, ricorse a quelli del cielo. E San Giuseppe fece il miracolo (anche se acuti dolori l’accompagneranno per il resto dei suoi giorni). Poco dopo tornava giubilante, benché ancora debolissima, al monastero dell’Incarnazione, con i più grandi desideri di consacrare al Signore la vita tanto misericordiosamente riavuta. Ma il demonio non dormiva. Il sottile desiderio di accaparrare l’attenzione e l’affetto nel parlatorio del suo monastero dell’Incarnazione, fu la trappola in cui cadde Teresa, e da cui non poté liberarsi con le sole sue forze. Ricominciarono, attraverso la grata, le conversazioni frivole e mondane della sua adolescenza. Parlava anche di Dio, ma non solo di Dio. Aveva paura di abbandonare tutto, non riusciva ancora a credere completamente che l’amore di Dio solo potesse colmarle il cuore. A nulla le servirono le sue giustificazioni davanti a se stessa e al padre che ne era preoccupato. Il suo cuore ne era tanto coinvolto, che non riusciva a giudicare rettamente. Neppure le servì la determinazione di non lasciare più l’orazione – come purtroppo aveva fatto, giudicandosi indegna di rivolgersi a Dio. Il parlatorio e la sua cella erano i due poli in cui si facevano forti i due “amori”, che stava sperimentando come antagonisti. Nella cella regnava il clima d’orazione e d’amor di Dio; nel parlatorio, in mezzo alla dissipazione, vinceva la forte affezione verso un cavaliere di Avila. “Menavo una vita infelicissima, perché l’orazione mi faceva meglio vedere le mie colpe. Dio mi chiamava da una parte, e io seguivo il mondo dall’altra. Le cose di Dio mi davano piacere, e non sapevo svincolarmi da quelle del mondo. Insomma, pareva che volessi conciliare questi due nemici, tanto fra loro contrari: la vita dello spirito con i gusti e i passatempi dei sensi. L’ora di orazione mi era diventata un tormento, perché, facendola io consistere nel raccogliermi nel mio interno, ed avendo lo spirito non più padrone, ma schiavo, non potevo rientrare in me stessa senza portare con me tutto il cumulo delle mie miserie. Passai così molti anni, e mi meraviglio di aver potuto tanto durarla, senza mai romperla o con Dio o con il mondo” (V. 7,17). “non godevo di Dio, ma non gioivo del mondo, quando mi trovavo tra i piaceri mondani mi tormentavo pensando a Dio, quando pensavo a Dio mi mancavano i piaceri mondani”. Il tormento durava a lungo, Teresa dubitava, non sapeva più pregare, cambiava continuamente confessore perché non si trovava a suo agio. Attorno ai quarant’anni o poco prima, ebbe un’altra “conversione”, nella quale fu confermata dalla lettura delle Confessioni di S. Agostino. Orante davanti ad un Crocifisso, ricevette una chiamata più personale ed attiva, guidata da Dio attraverso esperienze mistiche. Era necessario che la brillante Donna Teresa de Ahumada y Cepeda, come la chiamavano ancora nel monastero, diventasse la bruciante tutta innamorata Teresa di Gesù. E fu proprio ciò che capitò un giorno di primavera del 1554. Un episodio particolare diede una svolta alla sua vita. Tornando da uno di quei colloqui spirituali che ormai la turbavano e la impoverivano, si trovò a passare davanti a un’immagine di Cristo tutto coperto di piaghe, che occasionalmente era stato portato in convento per una certa celebrazione. “Appena lo guardai… il dolore che provai, la pena dell’ingratitudine con la quale rispondevo al suo amore fu così grande che mi parve che il cuore mi si spezzasse. Mi gettai ai suoi piedi tutta in lacrime e lo supplicai di darmi la grazia di non offenderlo più” (9,1). Fu come una nuova nascita; Teresa ne parlerà come dell’inizio di una “nuova vita”. Era accaduta una conversione profonda, difficile da descrivere. Capì che Cristo era assieme il nostro Dio e il nostro prossimo, l’eterno che era entrato nel tempo, l’amico con cui si poteva vivere, parlare, stare come e più di quanto si facesse con ogni altro amico. Non solo, ma Cristo era il centro in cui tutto poteva e doveva essere nuovamente raccolto. Da allora si dedicò con passione assoluta alla preghiera interiore, percepita secondo un metodo particolare: fare compagnia a Cristo nei misteri della sua vita terrena, attraverso il massimo realismo possibile, quello delle immagini, ma soprattutto quello dell’Eucaristia. L’orazione altro non era che “una conversazione intima d’amicizia frequentemente promossa e sostenuta nel silenzio e nella solitudine con Colui da cui sa di essere amata”. Questo Gesù, sempre più esigente e geloso, le fece capire di non più tollerare che il cuore di Teresa restasse ancora troppo coinvolto con certe amicizie umane, che per quanto fossero irreprensibili, occupavano troppo il suo amore, impedendole di mettersi completamente a disposizione di Colui che non aveva esitato a dare la sua vita per lei. “D’ora in poi – le disse un giorno Gesù – non voglio che tu parli più con gli uomini”. E Teresa obbedì non nel senso di entrare in uno spiritualistico mutismo (ché anzi la sua vita si riempirà come non mai di contatti umani, di dialoghi, di affari perfino), piuttosto nel senso di un nuovo, profondo senso di prendere la vita. Tutto dunque poteva essere nuovamente “detto”, e tutto poteva essere nuovamente “amato”, ma “in Lui”. Per lei il Cristo divenne tutto: al centro della sua spiritualità era la sacra umanità del Signore Gesù, pensato, cercato, desiderato, servito con tale fede, ardore e delicatezza da far pensare che la persona di Cristo fosse per lei una realtà viva e vera con la quale continuamente s’incontrava e trattava. “Quanto più un’anima va innanzi, tanto più inseparabile diviene la sua compagnia col buon Gesù” (Castello Interiore; 6, 8, 1). “Ho sempre riconosciuto, e tuttora riconosco, che non possiamo piacere a Dio né Dio accorda le sue grazie, se non per il tramite dell’umanità Sacratissima di Cristo, nel quale ha detto di compiacersi”. Da tale amore per il Cristo sbocciò in Teresa l’ardore per la salvezza delle anime. Lo zelo apostolico che la consumò fu una componente essenziale della sua santità, un aspetto del suo senso della Chiesa di cui si sentiva membro vivo che doveva operare, patire, pregare perché tutto il Corpo mistico ne beneficiasse. “Che mi importa di stare in Purgatorio fino al giorno del giudizio, se per le mie preghiere potesse salvarsi un’anima sola? Che dire poi trattandosi di molte e dell’onore di Dio” (Cammino di Perfezione; 3, 6). S. Teresa stette molto sul pratico. Mise in guardia contro la centralità di sé nell’orazione. La via per l’unione con Dio non dipendeva da ciò che si sentiva pregando, ma “dal come si rispondeva a Dio nella vita di ogni giorno”. Affermò che per una vita di preghiera in monastero, e ovunque, erano necessari: «L’amore l’uno per gli altri, il distacco da tutte le cose create e la vera umiltà – l’ultima è la più importante di queste tre e comprende tutto il resto» (Cammino di perfezione 4, 4). Queste tre virtù si riferivano alla nostre relazioni fondamentali: con gli altri, con il mondo attorno a noi e con Dio. Scrisse spesso del bisogno di purificare il nostro amore, perché potesse portare del bene a coloro a cui era rivolto assistendoli nella crescita. Distacco significava porsi nella giusta relazione con gli altri e con le cose coinvolgendoli in un processo di purificazione. E così Teresa passò da uno stato di crisi e malattia spirituale permanente allo stato di misticismo visionario, vere e proprie cristofanie. Fu una inondazione di visioni, di esperienze, di rapimenti, di estasi come se si fosse appunto lacerato un velo che la separava un po’ da Cristo. Nel sospetto che si trattasse di visioni “diaboliche” le vennero anche consigliati degli scongiuri perché sparissero, “Ogni cristiano, che ne ha la possibilità, deve cercarsi una guida istruita e la più istruita sarà la migliore. Tale aiuto è più ancora necessario alle persone d’orazione e più sono avanzate meno possono farne senza. Io ho sempre amato gli uomini eminenti per dottrina. Alcuni, lo comprendo, non avranno conoscenza sperimentale delle vie spirituali, ma non vi sono contrari, non le ignorano e, con l’aiuto della Sacra Scrittura, che studiano costantemente, sanno sempre riconoscere i segni del buon Spirito. Lo spirito delle tenebre teme in modo particolare la scienza umile e virtuosa, sa che da essa sarà sempre scoperto e che i suoi artifici si risolveranno a suo danno… Signore, io ignorante e inutile, ti benedico per questi ministri fedeli, che ci danno luce (Vita, c. XIII). Tutto continuò fino alla visione del “dardo fiammeggiante” che l’Angelo le conficcò nel cuore procurandole un dolore che la fece gemere, e una dolcezza che non c’era da desiderarne la fine. “…In questa visione piacque al Signore che io vedessi un angelo così: non era grande, ma piccolo e molto bello, con il volto così acceso da sembrare uno degli angeli molto elevati in gerarchia che pare brucino tutti in ardore divino… Gli vedevo nelle mani un lungo dardo d’oro, che sulla punta di ferro mi sembrava avesse un po’ di fuoco. Pareva che me lo configgesse a più riprese nel cuore, così profondamente che mi giungeva fino alle viscere, e quando lo estraeva sembrava portarselo via, lasciandomi tutta infiammata di grande amore di Dio. Il dolore della ferita era così vivo che mi faceva emettere quei gemiti di cui ho parlato, ma era così grande la dolcezza che mi infondeva questo enorme dolore, che non c’era da desiderarne la fine, né l’anima poteva appagarsi d’altro che di Dio. Non è un dolore fisico, ma spirituale, anche se il corpo non tralascia di parteciparvi un po’, anzi molto…” In questo periodo avvennero anche le nozze mistiche: durante una visione Gesù le porse uno dei chiodi della croce dicendole che da quel momento in poi sarebbe stata sua sposa. Trasverberata dal fuoco divino, la carmelitana tiepida cessò di vivere per sé, e in lei cominciò a vivere Dio. D’allora si sentì addosso lo sguardo di Lui accorato e quasi implorante d’amore. “Mi sembrava – scrisse Teresa – che Gesù mi camminasse sempre a fianco… Sentivo chiaramente che mi stava sempre al lato destro, testimone di ciò che facevo e mai potevo dimenticare, se appena mi raccoglievo un pochino o non ero molto distratta, che Lui era accanto a me”. Da quel momento, la sua vita più non le appartenne, non fu più sua, ma Gesù in lei. Un tale amore la portò progressivamente a non ricercare altro che l’onore e l’interesse di Lui. Attorno al 1560 Teresa aveva ormai quarantacinque anni e una nuova pagina della sua vita stava per essere voltata: fu spinta dal suo Sposo divino a riformare l’Ordine delle Carmelitane. Era necessario pregare e far pregare per la Chiesa che stava attraversando un periodo di grandi prove e Teresa volle operare, in una azione veramente carmelitana di abnegazione e di amore, qualcosa che si opponesse a quella Riforma Protestante che feriva il cuore della Chiesa. L’Ordine Carmelitano seguiva allora osservanze mitigate, così ella concepì e condusse a termine, attraverso infinite peripezie e contrasti e sofferenze, quella Riforma del proprio Ordine che da lei prese il nome e diede origine ai Carmelitani Scalzi. “Quante anime che si perdono”. Che fare per arrestare questo disastro? “Avrei dato mille volte la vita pur di salvare anche una sola di queste anime… Ma, essendo donna e imperfetta, mi vedevo impossibilitata a realizzare ciò che avrei voluto per la gloria di Dio. Il mio grande desiderio era, ed è tuttora, che, dato che Egli ha tanti nemici e così pochi amici, questi almeno gli fossero devoti. Mi decisi dunque di fare quel poco che dipendeva da me: seguire i consigli evangelici con tutta la perfezione possibile e indurre a questo impegno le religiose di questo monastero”. Viveva in un monastero dove erano radunate quasi duecento monache; i problemi pratici, economici, disciplinari non mancavano. Dirà che quel gran numero di suore non la disturbavano nel suo rapporto con Dio “più che se fosse stata sola”. Tuttavia ascoltò qualcuno che le fece balenare dinanzi il proposito di un piccolo, povero convento, con poche suore (dodici come il collegio degli apostoli), che nel profondo silenzio e in vera povertà fosse come “un angolino di cielo”. Una vedova, sua amica, le procurò i fondi necessari e il 24 agosto 1562 fondò in Avila, con l’autorizzazione di Pius IV, il suo primo monastero, dedicato a S. Giuseppe, senza rendite e “secondo la regola primitiva”: di stretta clausura e povertà, ove le monache cominciarono a vivere, in spirito di amore e di abnegazione, una vita il più possibile vicina a quella degli antichi monaci del Monte Carmelo e secondo quelle norme che in seguito Teresa di Gesù doveva codificare nelle sue sagge Costituzioni. E là visse convinta d’aver toccato il porto della sua vita, felice soprattutto di quella sintesi finalmente accaduta tra l’eterno e il tempo, tra l’amore di un Dio sommamente amato e l’amore altrettanto pieno e caldo per quelle creature che Lui stesso le aveva affidate. Attaccata alle minime leggi e cerimonie della Chiesa, amava la Messa e l’Ufficio divino che, con l’orazione mentale, volle al centro della vita della sua riforma. “Questa casa – scriveva finalmente – è un cielo, se ce ne può essere uno sulla terra”.Teresa era tutta felice di vivere con quelle “anime così sante la cui brama era solo quella di servire e lodare il Signore… (Egli) ci provvedeva del necessario senza che lo chiedessimo e quando ce lo lasciava mancare – ciò che avveniva assai di rado – la gioia era ancora più grande”. Furono le prime parole del libro delle Fondazioni: nei primi capitoli Teresa raccolse i “Fioretti” carmelitani, assai simili a quelli dell’esperienza francescana. Tutto sembrava concluso, e invece tutto stava per cominciare; per ora Teresa “moriva di non morire”, viveva cioè, come diceva lei stessa, sobbalzando di gioia ogni volta che l’orologio scandiva le ore, pensando che l’incontro definitivo con Cristo si era ancora un po’ avvicinato. Ma ormai apparteneva totalmente a Cristo ed era disponibile a tutto. A volte veramente ebbe l’intuizione che qualcosa non fosse ancora compiuto. Scrisse: “Mi veniva spesso da pensare che Dio, nel ricolmare quelle anime (parla delle sue compagne) di tante ricchezze, doveva avere una qualche grande finalità”. Sentì altre volte crescere in sé il desiderio di comunicare ad altri quel bene che esperimentava “parendomi molte volte di essere come una persona in possesso di un grande tesoro e desiderosa di farne parte a tutti” (Fond. 1,6). Ad un tratto le venne rivelato il volto tragico e dolente della Chiesa del suo tempo. Proprio mentre ella fondava il suo primo nuovo monastero carmelitano, in Francia si scatenavano le guerre di religione. Uno scenario mai immaginato si apriva davanti alla coscienza di Teresa: cristiani che combattevano e uccidevano altri cristiani, le chiese incendiate e devastate, monasteri aggrediti e svuotati, l’Eucaristia profanata, il Papa e i Vescovi divenuti bersaglio di odio e disprezzo. Teresa era troppo intelligente per non capire subito che quei “grandi mali della Chiesa” – come li chiamava – erano il triste risultato di una realtà antecedente che lei stessa definì “le grandi necessità”. La decadenza della vita religiosa, ad esempio, non le era del tutto ignota. Troppi cristiani erano stati infedeli alla loro vocazione. Oltre a questo giungevano a Teresa tristi notizie anche dalle “Indie”, cioè dalle nuove terre scoperte da Colombo. Rodrigo – il compagno delle sue infantili avventure e dei suoi mistici desideri di allora – era morto combattendo sul Rio de la Plata. Anche il fratello Antonio (quello che ella in un primo tempo aveva convinto a farsi religioso come lei) era morto combattendo. Ma ciò che più la rattristava erano le anime che si perdevano, divenuti preda di caccia da parte di certi conquistatori spagnoli disumani e feroci. “Rimasi così afflitta -racconterà Teresa – che mi ritirai tutta in lacrime”. Scrisse un giorno al fratello Lorenzo che si trovava ancora oltremare: “Quante sventure sia qui da noi che là da voi! Molte persone mi parlano e molte volte non so proprio cosa dire se non che siamo peggio delle bestie”. Di tutto quello che udiva, lei faceva argomento di preghiera, di dialogo con Cristo, di decisione. Nella sua santità e umiltà attribuiva a sé la responsabilità di tante disgrazie. Dirà al Signore: “Forse sono proprio io quella che Ti ha incollerito con i miei peccati, al punto di far piombare sulla terra tanti mali”. Confesserà, infatti, nella Autobiografia: “Mi pareva di essere così perversa, da credere che tutti i mali e le eresie del mondo fossero effetto dei miei peccati” (30,8). Il suo lavoro organizzativo a favore di una concezione evangelica e apostolica, di preghiera e povertà, fu contrastato dagli ambienti ecclesiastici. Teresa fu più volte denunciata all’Inquisizione, e alcuni dei suoi libri si salvarono a stento dall’essere bruciati. Tra i suoi oppositori: il nunzio Filippo Sega, il Generale dell’Ordine dei Carmelitani “mitigati”. Ma Teresa era intelligente e usò tutte le armi in suo possesso, arrivando a simulare d’essere meno abile di quanto fosse, piuttosto scaltra che intelligente, donnetta e non donna di polso. E lo fece tanto bene da confondere l’Inquisizione, da conquistare i nemici, compreso il suddetto nunzio che arrivò ad appoggiare presso il re la richiesta di riforma degli Scalzi. Così, sebbene la fondazione incontrasse molte difficoltà, ebbe, alla fine, l’approvazione del Provinciale di Castiglia, fra Angelo di Salazar. Nel 1568 Fra Rossi, Priore Generale dell’Ordine, durante la sua visita in Spagna per controllare la realizzazione delle riforme del Concilio di Trento, si accorse della portata spirituale di Teresa e le diede l’autorizzazione di «aprire tanti monasteri quanti i capelli che aveva in testa». Vide che il desiderio di un nuovo stile di monastero non intendeva essere un rifiuto del Carmelo, ma il voler vivere in profondità l’ideale carmelitano in modo originale e creativo. In quanto donna, le fu impedito un attivismo cui spontaneamente si sarebbe dedicata: l’apostolato, la predicazione non erano mansioni femminili. Ma Teresa non desistette: la straordinaria forza con cui la verità in lei si affermava non glielo permise. “Conosco che non mi manca nè l’amore nè il desiderio di far tutto perchè le anime delle mie sorelle progrediscano nel servizio di Dio. E questo mio amore, congiunto all’esperienza che deriva dall’età e dalla conoscenza di alcuni monasteri, mi potrà forse aiutare per riuscire in queste piccole cose meglio degli stessi dotti, i quali, avendo tutt’altre occupazioni ed essendo uomini forti, non fanno certo conto di certe minuzie che non sembrano importanti”, quali le mille insidie che si incontrano nella via contemplativa, per cui occorre conoscere a fondo se stessi. Ella non conobbe incertezze, non ebbe debolezze, non temette avversità, persecuzioni …Una donna che poteva dire, nel pieno della sua poderosa attività: «Non mi ricordo d’essermi mai lagnata. In questo senso, io non sono affatto donna. Ho il cuore duro ». “…E così venni alla determinazione di fare il poco che dipendeva da me.” Questa determinazione ch’ella incarnò e testimoniò, fece sì che il “poco” si trasformasse in “molto”, grazie a quella “santa presunzione” cui esortò le consorelle che, lungi dal negare l’umiltà, aiutava a crescere nel suo esercizio. “Guardatevi dalle eccessive riservatezze che si vedono in certe persone e che esse credono umiltà. Se il re si degnasse concedervi qualche favore, sarebbe umiltà il rifiuto? Quando il Padrone assoluto del cielo e della terra si degna onorare l’anima mia e la visita, per riempirmi delle sue grazie e gioire con me, non volerlo, non rispondergli, non fargli compagnia, non accettare i suoi doni, fuggire la sua presenza e lasciarlo solo sarebbe mostrarmi umile? Bella umiltà davvero! Vedete in Gesù Cristo un padre, un fratello, un maestro, uno sposo e trattate con lui secondo queste diverse qualità ed egli stesso vi farà capire quale gli piace di più e quale quindi voi dovete scegliere. Non siate così sciocchi da farne a meno” (Il cammino della perfezione). «Nostro Signore chiede e ama anime coraggiose, per quanto umili. Nella vita spirituale occorre intraprendere grandi cose». In questo spirito di autentica umiltà e sottomissione al volere di Dio capì di non doversi dedicare solo alla guida di quel primo conventino ed intraprese operazioni assai difficili e spesso pericolose, come l’acquisto e la ristrutturazione di case per la fondazione di nuovi conventi, maschili e femminili, nei quali l’ascetismo non fosse una parola priva di significato. Si mise a viaggiare, ella che amava la vita comoda, sopportando fatiche e disagi, nonostante la sua salute malferma e i continui disturbi. Ferita a una gamba, si rivolgeva a Dio con schiettezza di donna risoluta: «Signore, dopo tante noie, ci voleva anche questo guaio!». Dio le rispose: «Teresa, io tratto così i miei amici». E lei, di rimando: «Ah, Dio mio, ora capisco perché ne avete così pochi!». Scrisse al Re Filippo II e ai personaggi più autorevoli della Spagna. Si occupò di tutto e, da brava madre, pensò anche alla parte economica delle sue fondazioni. «Teresa senza la grazia di Dio, – diceva, – è una povera donna. Con la grazia di Dio, una forza. Con la grazia di Dio e molti denari, una potenza ». E Santa Teresa fu veramente una potenza, che trascinò gran numero di anime elette nel vortice della sua passione mistica e ascetica. Fu definita «l’onore della Spagna e della Chiesa». Quando si trattava dell’onore e del servizio di Dio non vi era nulla che la trattenesse. “O morire o soffrire”, era il suo dilemma interiore lanciato con audacia verso il cielo. Così divenne fondatrice di ben diciassette monasteri, impostati su uno stesso modulo: un modulo di vita rigorosamente evangelica, nei quali si praticava strettamente la povertà, la semplicità, il distacco, nella solitudine e nella preghiera, in condizione fraterna e dove il Signore poteva essere amato al posto di coloro che non lo amavano. La Carmelitana non si riparava dietro le grate per godervi egoisticamente la presenza del suo Gesù. Era impossibile, Lui stesso non lo avrebbe permesso. La Carmelitana intendeva lì, tra quattro mura, fare della sua vita un sacrificio di lode, d’amore, di gioia, partecipando totalmente al mistero di Cristo e della Chiesa. Le fondazioni dei monasteri di Carmelitane Scalze si susseguirono numerose fino al 1582 (le vicende furono da lei descritte abbondantemente nel libro delle Fondazioni); nel 1568 la Riforma Teresiana si estese ai Padri, dopo l’incontro della Santa con S. Giovanni della Croce, altro grande santo Carmelitano, suo contemporaneo, suo confessore e testimone delle estasi che spesso le si presentavano. Così fu fondato a Duruelo il primo convento di Carmelitani Scalzi. Nel 1572 ebbe la conferma che doveva rivoluzionare anche il convento in cui abitava, anch’esso ormai non sempre aderente alla Regola primitiva, ma la sua opera creò grandi contrasti che la portarono, in una sorta di prigionia, nel convento di Toledo dove la raggiunse però la notizia che il Papa Gregorio XIII aveva approvato la Riforma e riconosciuto l’autonomia dei Carmelitani Scalzi. Teresa scrisse: «Ora Scalzi e Calzati siamo tutti in pace e niente ci impedisce di servire il Signore». Nell’ultima delle sue «Relazioni spirituali», scritta un anno prima di morire, Teresa descrisse con grande pacatezza quel modo in cui in lei si era infine attuato l’incontro d’amore tra l’anima e Dio, i quali “si godono in altissimo silenzio”. I rapimenti, le estasi eclatanti erano svaniti e, a chi le chiese notizie al riguardo, ridendo, rispose di avere trovato un modo migliore per pregare, ma di essere grata di averle provate perché le avevano insegnato il distacco da ogni cosa, compreso l’affetto e l’ammirazione degli altri di cui aveva avuto sempre un disperato bisogno. Non erano svanite le sofferenze ma sembrava che la sfiorassero appena, grazie al distacco che in lei si era generato. L’anima “è come padrona di un castello e non perde la sua pace”. La sicurezza e la gioia le trovò all’interno di se stessa: era l’insegnamento a ripiegarsi in sé che sarà uno dei cardini della sua dottrina. “Ricordate ciò che ha detto sant’Agostino? Dopo aver cercato Dio in molti luoghi, lo trovò finalmente in se stesso. Ora, per un’anima che desidera conoscere il Padre celeste, pensate sia necessario arrivare fino al cielo o alzare la voce per farsi sentire? Anche se l’anima sussurra, Dio le è vicino e l’ascolta sempre. E per trovarlo non ha bisogno di ali, perché è sufficiente che si ritiri in solitudine e lo contempli in se stessa”. Nel matrimonio spirituale vennero a celebrarsi le nozze dell’anima con Dio e insieme con il mondo, in quanto: “questo è il fine dell’orazione, figliuole mie, a questo tende il matrimonio spirituale: a produrre opere ed opere!” Il 20 settembre 1582, dopo un ennesimo viaggio per seguire personalmente le sue fondazioni, arrivò ad Peñaranda (Alba de Tormes), disfatta, colpita da emorragia. Soffriva di cattiva digestione, reumatismi, aveva il cuore debole e un cancro alla gola. «Dio – scrisse un giorno Teresa – non vizia le anime»: più le ama e più fa loro percorrere tutta la strada percorsa da Gesù Cristo, fino alla Croce. Così, per un disegno misterioso di Dio, negli ultimi giorni della vita, le accadde ciò che, fino a qualche tempo prima, le sarebbe sembrato impossibile. Questo viaggio, affrontato con pena e per pura obbedienza perché ormai si sentiva “molto vecchia e stanca”, com’ella stessa si definì, fu tutto un seguito di umiliazioni e di delusioni. In un monastero, per una questione di eredità, si vide male accolta e quasi cacciata; in un altro, la Priora che le era sempre stata affezionata le si mostrò così ostile (per un richiamo ricevuto) che la Santa afflitta non riuscì a prendere sonno e la mattina se ne partì febbricitante, senza aver il coraggio di chiedere nulla per il viaggio. Durante il lungo cammino si sentì male e chiese qualcosa da mangiare; la suora che l’accompagnava non riusciva a trovar nulla e le portò, piangendo dal dispiacere, qualche fico secco rimasto nella bisaccia. «Non piangere, figlia mia – le disse Teresa -, questo è quello che Dio ci chiede adesso». “Mi consolava – raccontò la compagna – dicendomi che non mi dovevo affliggere perché quei fichi erano veramente molto buoni e che tanti poveri non avevano neppure quel piccolo dono”. I mezzi di trasporto a quell’epoca erano carri rozzi e sgangherati, ma lei era riuscita a cambiare quell’ambiente, tutt’altro che monastico, in un vero monastero ambulante, dove con il campanellino (che ancora si conserva) si davano i segni della preghiera, della ricreazione, del silenzio. Finalmente giunsero ad Alba de Tormes e Teresa chiese di potersi subito coricare: «Mio Dio – disse -, come mi sento stanca, sono più di vent’anni che non mi corico così presto». Stava nel suo letto come una povera vecchietta e tutti la udivano ripetere: «O Dio, non disprezzare il mio cuore contrito e umiliato». Si sentiva afflitta al ricordo dei suoi peccati e chiedeva perdono d’aver servito Dio così male. Alle sue suore diceva di restare fedeli alla loro vocazione e alla Regola e di non guardare il cattivo esempio che lei aveva dato. Le guardava tutte attorno al suo letto e diceva: «Sia benedetto Dio che mi ha condotto in mezzo a voi», come se esse fossero il suo rifugio e la sua protezione. Ripeteva spesso, come per spiegarlo al Signore: «In fondo sono figlia della Chiesa», e aggiungeva: «Ti ringrazio, Signore Dio mio e Sposo della mia anima, perché hai fatto di me una figlia della tua Santa Chiesa Cattolica». Le chiesero se voleva essere seppellita ad Avila, in quel monastero che tanto amava. Si mostrò stupita oltremodo: «Gesù! – disse – È una cosa da chiedere questa? Ho forse io qualcosa di mio? Qui non mi faranno la carità di un po’ di terra?». Alle cinque della sera del 4 ottobre chiese il Santissimo Sacramento e stava ormai così male che non riusciva più a muoversi nel suo letto, quando si accorse che giungevano con l’Eucaristia e vide entrare per la porta della cella quel Signore che tanto amava. Ella, benché fosse così prostrata e avesse addosso una pesantezza mortale che le impediva anche solo di rigirarsi, si sollevò senza l’aiuto di nessuno, tanto che pareva si volesse gettare dal letto e bisognò tenerla. Diceva: «O Signore mio, e mio Sposo, è giunta l’ora che ho tanto desiderato. È tempo ormai che ci vediamo. È tempo che io venga, è giunta l’ora». Verso le nove di sera – poco prima di morire – il volto le si illuminò in un modo impressionante, divenne radioso; la mano che stringeva il Crocefisso si serrò con tanta forza che non riuscirono più a toglierglielo. Morì muovendo le labbra e sorridendo come se parlasse a qualcuno che era finalmente giunto. Era il 4 ottobre 1582 (a causa della riforma gregoriana del calendario, la sua festa liturgica venne spostata al 15 ottobre). Aveva sessantasette anni e mezzo. “Per chi serve Dio mi pare che morire debba essere facilissimo…”, aveva scritto nella sua Vita (38,5). Le suore di tutti i monasteri raccontarono poi i prodigi che accaddero dappertutto, mentre la loro Madre moriva. Quelle di Alba de Tormes raccontarono il prodigio più delicato: c’era un alberello rinsecchito davanti alla finestra della cella in cui Teresa moriva, un arbusto che non aveva mai dato fiori né frutti; ed ecco che, dopo quella notte, all’alba era tutto coperto di fiori bianchi come di neve. Ed era ottobre. Teresa venne beatificata nel 1614 e canonizzata il 12 marzo 1622 da Papa Gregorio XV. Fu proclamata nel 1627 compatrona della Spagna (insieme a S. Giacomo). Madre delle Carmelitane Scalze e dei Carmelitani Scalzi; “mater spiritualium” (titolo sotto la sua statua nella basilica vaticana); patrona degli scrittori cattolici (1965) e dichiarata da Paolo VI il 27 settembre 1970 «Dottore della Chiesa»: prima donna, insieme a S. Caterina da Siena, ad ottenere tale titolo per la sua profonda dottrina spirituale, attinta in gran parte a sant’Agostino e a san Gregorio Magno. Teresa ebbe un particolare culto a S. Maria della Scala [Roma], dove si conserva la reliquia del piede destro. Fin dal 1602 la si commemorava solennemente in questa chiesa ogni 5 ottobre. La cerimonia si svolgeva alla presenza del Collegio Cardinalizio, a cui spesso si univa anche il Pontefice. La reliquia, dono dei Carmelitani Scalzi della Congregazione di Spagna, fu consegnata il 10 maggio 1617 in un prezioso reliquiario d’argento; oggi è riposta in uno di bronzo dorato. L’intensità della vita spirituale, la grande opera realizzata, la gravità delle malattie e delle sofferenze d’ogni genere, non impedirono a S. Teresa di scrivere quelle stupende opere in cui ci consegna la sua esperienza mistica e la sua dottrina, libri che sono considerati veri gioielli della letteratura spagnola e cristiana. La mistica teresiana è marcata da un senso profondo per le realtà della vita spirituale e dal rapporto personale ed amichevole (e sponsale) con Cristo. L’orazione è l’argomento dominante, indispensabile per una seria, progressiva, esaltante esperienza di Dio Attraverso l’Autobiografia, le Relazioni, il Cammino di Perfezione, il Castello Interiore, le Fondazioni, gli Avvisi, i Pensieri, Spirituali esclamazioni dell’anima a Dio, le Poesie, le Lettere, S. Teresa di Gesù svolge ancora, nel Carmelo e nel mondo, l’ardente attività della sua anima apostolica ed è sempre, a tutti, Maestra e Madre di vita spirituale. La dottrina di Teresa proviene in maniera speciale dalla sua esperienza mistica. Si tratta di un carisma di scienza e di sapienza col quale, sotto l’azione speciale dello Spirito Santo, riuscì a intravedere e a descrivere l’opera misteriosa di Dio nel battezzato che si abbandona completamente al suo dinamismo santificatore. Parte da una considerazione molto elementare: ciascuno di noi, fin dal battesimo, porta in sé, nel profondo del proprio cuore, il Creatore del mondo. Che ci pensiamo o no, che noi ci rifiutiamo o che l’amiamo, è Lui che ci dona la Vita e la Luce, è Lui che ci fa il dono di respirare e di cantare. Fare orazione è esporre la propria anima ai raggi di questo Sole per lasciarci da Lui riscaldare e illuminare. Praticare tali autorevoli insegnamenti porta ad una trasformazione della propria vita. Santa Teresa sa bene che i carismi coi quali Dio accompagna talvolta la sua azione nell’anima sono Suo dono, ma ne riconosce anche i pericoli e così, nei suoi scritti, afferma che non vanno né chiesti né desiderati (Castello Int. 9, 14-15). “La somma perfezione non sta nelle dolcezze interiori, nei grandi rapimenti, nelle visioni e nello spirito di profezia, bensì nella perfetta conformità del nostro volere a quello di Dio, in modo da volere anche noi – e fermamente – quanto conosciamo che Egli vuole, accettando con allegrezza tanto il dolce che l’amaro, quando in questo è il Suo volere” (Fondazioni; 5, 10). Cronologicamente – tenendo presenti solo le opere maggiori – il suo primo libro è quello della “Vita”, cioè l’autobiografia, da lei intitolata Libro delle misericordie di Dio (Libro de su vida o Libro de las misericordias de dios). (la prima redazione è del 1562). Nell’Autobiografia, in 40 capitoli, Teresa descrive la sua vita, presa nel suo aspetto esteriore ed interiore, con riferimenti continui alle grazie e favori concessi da Dio. I primi sette capitoli contengono il racconto della sua vita, fino al momento in cui Dio interviene, facendole capire come sia importante non lasciare mai l’orazione. Nel cap. 8° presenta la sua esperienza di risposta a Dio, esortando a fare altrettanto: “Non capisco perché molti non osino applicarsi all’orazione mentale, né di che abbiano paura…. Se per quelli che non servono Dio, per non dire che l’offendono, l’orazione è apportatrice di tanti beni, ed è anzi così necessaria che nessuno può immaginare un maggior danno del tralasciarla, perché dovrà trascurarla chi lo serve e gli vuol essere fedele? E’ una cosa che non capisco, a meno che non sia per voler sopportare con maggior pena i dolori della vita e chiudere a Dio la porta per la quale suole inondarci di consolazione. Mi fanno compassione questi che servono Dio a loro spese. Non così chi pratica l’orazione. Le spese di costui le paga tutte il Signore: per un po’ di violenza, gli dà tanta gioia da divenirgli leggero qualsiasi travaglio”. Dopo qualche capitolo, nel quale cerca di convincere chi legge a darsi all’orazione, nel cap. 11° comincia a parlare dei quattro gradi di orazione, che illustra col paragone di colui che vuole innaffiare un giardino. Li descrive secondo l’esperienza di quei tempi: il primo modo è quello di cavare l’acqua dal pozzo, con molta fatica, il secondo è quello di servirsi di una gran ruota che si deve far girare con qualche fatica di meno, il terzo è quello di derivarla da un fiume o da un ruscello, cosa molto più leggera e proficua, anche per il terreno che ne resta meglio imbevuto, il quarto è quello di una buona pioggia che viene dal cielo. Fino al cap. 21° spiega questi quattro gradi di orazione. Dal cap. 22° in poi, riprendendo il racconto della sua vita, con le grazie che il Signore le ha accordato, consiglia e suggerisce il modo di comportarsi, sia alle anime che ai direttori spirituali. “Chi ha come amico Cristo Gesù e segue un capitano così magnanimo come lui, può certo sopportare ogni cosa; Gesù infatti aiuta e dà forza, non viene mai meno ed ama sinceramente. Infatti ho sempre riconosciuto e tuttora vedo chiaramente che non possiamo piacere a Dio e da lui ricevere grandi grazie, se non per le mani della sacratissima Umanità di Cristo, nella quale egli ha detto di compiacersi. Ne ho fatto molte volte l’esperienza, e me l’ha detto il Signore stesso. Ho visto nettamente che dobbiamo passare per questa porta, se desideriamo che la somma Maestà ci mostri i suoi grandi segreti. E’ da lui, Signore nostro, che ci vengono tutti i beni. Egli ci istruirà. Meditando la sua vita, non si troverà modello più perfetto. Che cosa possiamo desiderare di più, quando abbiamo al fianco un così buon amico che non ci abbandona mai nelle tribolazioni e nelle sventure, come fanno gli amici del mondo? Beato colui che lo ama per davvero e lo ha sempre con sé! Ho considerato e ho appreso che alcuni santi molto contemplativi, come Francesco, Antonio da Padova, Bernardo, Caterina da Siena, non hanno seguito altro cammino. Bisogna percorrere questa strada con grande libertà, abbandonandoci nelle mani di Dio. Ogni volta poi, che pensiamo a Cristo, ricordiamoci dell’amore che lo ha spinto a concederci tante grazie e dell’accesa carità che Dio ci ha mostrato dandoci in lui un pegno della tenerezza con cui ci segue: amore infatti domanda amore. Perciò sforziamoci di considerare questa verità e di eccitarci ad amare. Se il Signore ci facesse la grazia, una volta, di imprimerci nel cuore questo amore, tutto ci diverrebbe facile e faremmo molto, in breve e senza fatica”.

Il libro della vita», cap. 22, 6-7, 14)

Nel 1566 scrisse il “Cammino di perfezione”, più volte poi ritoccato e corretto da lei stessa. Si tratta di 42 capitoli di esortazioni e guida per la vita religiosa carmelitana nei monasteri da lei fondati. Molti capitoli (16) sono riservati ad una meditazione sul Padre Nostro. È un libro pieno di elevazioni a Dio, di preghiere di lode e di ringraziamento e di suppliche alle sorelle, per esortarle ad agire come l’esperienza la spinge a scrivere. Dopo avere descritto ciò che l’ha ispirata a fondare quei nuovi monasteri, si ferma su tre cose importanti da osservare “per godere quella pace interna ed esterna che il Signore ci ha tanto raccomandato. La prima è l’amore che dobbiamo portarci vicendevolmente; la seconda il distacco dalle creature; la terza la vera umiltà, la quale, benché posta per ultimo, è prima ed abbraccia le altre”. Nel trattare questi tre argomenti si ferma a parlare dell’amore perfetto, della mortificazione, del distacco dalle cose, dagli affetti e da sé stessi, e dell’umiltà nella sua applicazione pratica. Il suo discorso non può non toccare il motivo principale che spinge a vivere in monastero, che è quello dell’amore di Dio. Da qui la necessità di un rapporto con Dio attraverso l’orazione. Conciando a parlare dell’utilità dell’orazione vocale ben fatta, nasce il commento al Padre Nostro, che porta avanti fino alla fine del libro. “Ammirate l’inconcepibile accecamento del mondo. Non si inquieta per migliaia di disgraziati, che, totalmente estranei alla vita di orazione, vivono in dissolutezze orribili e, se per disgrazia, deplorevole senza dubbio, ma rarissima, gli artifici del tentatore seducono un’anima dedita alla preghiera, se ne trae motivo di ispirare agli altri grandi paure, per allontanarle dalla pratica delle sante virtù. Non è questo essere vittime del più grave degli errori: credere che per evitare il male sia necessario evitare di far il bene? Superate tutte queste paure, sforzatevi di conservare sempre pura la vostra coscienza, irrobustitevi nell’umiltà, schiacciate col vostro piede tutte le cose terrene, siate irremovibili nella fede della santa Chiesa, nostra madre, e dopo tutto questo non dubitate di non essere sul buon cammino”.

(Il cammino della perfezione, c. XXII).

“Orazione vocale è, per esempio, recitare il Padre nostro o l’Ave Maria o qualche altra preghiera, ma se non l’accompagnate alla preghiera mentale, è come una musica stonata, tanto che alle volte non vi usciranno con ordine neppure le parole… Quando pregate vocalmente cercate la compagnia del Maestro che ci ha insegnato la preghiera del Padre nostro; fate il possibile di stargli dappresso… Non vi chiedo di concentrarvi tutte su di lui, ma guardarlo”

(Cammino di perfezione, XXV 3; XXVI, 1-3).

Nel 1577 ebbe l’ordine di scrivere il “Castello interiore” o Libro delle sette stanze (Libro de las siete moradas o Castillo interior), chiamato anche “LE MANSIONI“, una delle opere più alte della mistica spagnola: vi descrive l’ascesa dell’anima a Dio attraverso le sette stanze di un castello. All’esterno sono le tenebre più fitte, mentre all’interno l’itinerario dell’anima è inondato di luce sempre più sfolgorante. Nella settima stanza si compie il matrimonio spirituale e l’anima diventa una cosa sola con Dio.

Comprende 27 capitoli così divisi:

Prima mansione: (due capitoli). Descrive la bellezza dell’anima in grazia di Dio e la deformità di una in peccato. L’importanza di conoscere se stessi, ma con lo sguardo sempre rivolto a Cristo.
Seconda: (un capitolo). Esorta alla perseveranza e descrive come il demonio tenti chi prende questa strada.
Terza: (due capitoli). Descrive la poca sicurezza che si ha in questa vita. Le prove del Signore. L’aridità nella preghiera. L’umiltà virtù fondamentale. Vincere ogni paura.
Quarta: (tre capitoli). Tratta dell’orazione dividendola in tre fasi: 1) contenti spirituali che sono procurati da noi stessi; 2) l’orazione di raccoglimento in cui entra Dio ad operare; 3) i gusti spirituali o orazione di raccoglimento in cui è solo il Signore che li concede (non bisogna cercarli). Paragone dell’acqua in due bacini, uno naturale e l’altro costruito da noi. Illumina coloro che vanno soggetti a molte distrazioni nella preghiera. “L’essenziale, per continuare il cammino, non è già nel molto pensare, ma nel molto amare”.
Quinta: (quattro capitoli). Descrive come l’anima si unisce a Dio durante la preghiera. Prima fase di questa unione (pre-fidanzamento = conoscenza). Desiderio di consumarsi, morire a se stesso (baco da seta). Parla anche dell’unione con Dio attraverso l’amore del prossimo.
Sesta: (undici capitoli). Con la descrizione delle pene interiori (per i peccati) e dei favori “molto grandi e preziosi” (rapimenti, estasi, volo dello spirito), che Dio concede a chi arriva a questo punto, espone i segni per conoscere se vi sia o non vi sia illusione (fidanzamento). Parla della necessità di avere “sempre presente l’Umanità di Nostro Signore, la sua vita, la sua Sacratissima Passione, la sua Madre gloriosa e i suoi Santi”. Suggerisce infine di tenere segrete queste grazie e di non desiderarle.
Settima: (quattro capitoli). Dio-Trinità. Fuoco. Pace. Silenzio. Descrive le grazie sublimi di cui Dio favorisce le anime, che arrivano in questa settima ed ultima mansione, che viene descritta come matrimonio spirituale, differente dalla semplice unione o fidanzamento spirituale (paragone della luce). Conclude esortando “che Marta e Maria devono andare d’accordo”, anche con queste grazie straordinarie che Dio concede. Cioè la contemplazione porta a più intense opere di carità.

Notevole il libro “Fondazioni”(Libro de las Fundaciones, 1582) in cui Teresa narra, in 31 capitoli, con arguzia e partecipazione le vicende delle fondazioni dei suoi monasteri, l’origine dei vari “colombai della Vergine”, come chiamava le sue case.: è il libro più gradevole e stilisticamente controllato. Non mancano suggerimenti e avvisi sull’orazione e sulle rivelazioni, per coloro che devono impegnarsi in opere esteriori, o comunque per le Superiore dei Monasteri.

I Pensieri sull’amore di Dio.

Sono 7 capitoli sopra alcune parole dei Cantici di Salomone.
Inizia sul come devono essere lette le Sacre Scritture (“Non capisco e godo immensamente di non capirlo: L’anima deve ammirare più le cose che non si comprendono che quelle che i nostri piccoli intelletti possono comprendere”).
Descrive quindi come la vera pace, desiderata dalla sposa dei cantici, non è quella che dà il mondo, la carne o il demonio. La pace viene dall’unione di Dio con l’anima. Ne descrive i gusti e le soavità, che l’anima prova per la mediazione dello Spirito Santo, che la porta alla così detta orazione di quiete o di unione, che produce anche la sospensione delle potenze (moto e operazione, intelletto, volontà, memoria…).
Nascono così nell’anima dei forti desideri di sopportare tutto per amore di Dio e del prossimo. Desideri di far conoscere ed amare l’Amato, costi quel che costi (la Samaritana corre a dare l’annuncio).

 

Le Relazioni spirituali.
Brevi descrizioni (67) sulle grazie speciali, richieste dai confessori.

 

Esclamazioni dell’anima a Dio.
In 17 capitoletti.

[6] 1 – Delizia mia, Signore del creato e Dio mio, fino a quando dovrò aspettare per vedervi di presenza? Che rimedio offrite a chi quaggiù ne ha così poco per avere un po’ di sollievo fuor di Voi? Oh, vita lunga! vita amara! vita che non si vive! Oh, desolata solitudine che non ha rimedio! Quando, dunque, Signore? Quando? quando?… Che farò io; mio Bene, che farò? Desidererò forse di non più desiderarvi? Ah, mio Dio e creator mio! Voi ferite e non date il rimedio; piagate e le piaghe non si vedono; uccidete per lasciare più vivi! In una parola, Signore, fate quello che vi piace, dimostrandovi onnipotente. E insieme volete, o mio Dio, che un verme così spregevole provi in sé stesso tanti contrari sentimenti!… Sia così, Signore, perché Voi lo volete. Io non voglio altro che amarvi.
2 – Ahi, ahi, Creator mio! Il mio immenso dolore mi fa uscire in lamenti e mi obbliga a riconoscere che sarà senza rimedio fino a quando non piacerà a Voi di porvi fine. Dal suo stretto carcere l’anima mia desidera la libertà ma sempre a patto di non allontanarsi in nulla da quello che Voi volete. – O fate, Gloria mia, che il suo spasimo aumenti, o apportatele un rimedio radicale. O morte, morte, come ti si può temere se in te è la vita! Eppure, chi non temerà dopo aver trascorso parte dei suoi giorni senza amare il suo Dio? E poiché questo è il caso mio, che cosa chiedo e desidero? Forse il castigo meritatomi con i miei peccati? – Non permettetelo, mio Bene, per il molto che vi è costato redimermi!
3 – Anima mia, lascia che si compia la volontà del tuo Dio, perché così ti conviene. Sérvilo e spera nella sua bontà, e quando avrai fatto penitenza dei tuoi peccati e ne avrai meritato un po’ perdono, Egli darà rimedio al tuo dolore. – Non voler godere senza prima patire. Ma neppur questo sono capace di fare se non mi sostenete Voi con la vostra mano potente e con la vostra grandezza, o mio vero re e Signore. Col vostro aiuto mi sarà facile ogni cosa.

[7] 1 – Speranza mia, Padre mio, mio Creatore, mio vero Signore e Fratello, quando penso a quello che Voi dite, cioè, che le vostre delizie sono nell’abitare con i figliuoli degli uomini, la mia anima s’inonda di gioia. Signore del cielo e della terra, ov’è il peccatore che dopo tali parole possa ancora disperare? Forse, Signore, che non avete altri con cui deliziarvi per venir da un verme così ributtante come son io? Quando vostro Figlio fu battezzato, si udí che Voi vi compiacevate in Lui. Gli siamo forse uguali Signore? Oh, immensa misericordia! Oh, favore infinitamente superiore ai nostri meriti! E noi, mortali, ce ne scorderemo? – Signore, voi che conoscete ogni cosa, pensate alla nostra debolezza e non dimenticatevi della nostra immensa miseria!
2 – Considera, anima mia, con che gioia ed amore il Padre riconosce suo Figlio e il Figlio suo Padre; contempla l’ardore con cui lo Spirito Santo si unisce ad Essi, e come nessuno dei Tre possa separarsi da tanto amore e conoscenza, formando essi una cosa sola: si conoscono, si amano e si compiacciono a vicenda. Ora, che bisogno v’è del mio amore? Perché lo volete, o mio Dio? Che ci guadagnate con esso? – Oh, siate per sempre benedetto, mio Dio! Tutte le creature vi lodino, e con lodi senza fine, come senza fine siete Voi!
3 – Rallegrati, anima mia, per esserci chi ama il tuo Dio come merita; rallegrati per esserci chi conosce la sua bontà e potenza, e ringrazialo per aver Egli inviato sulla terra il suo unico Figliuolo che così bene lo conosce, con la protezione del Quale puoi avvicinarti al tuo Dio e pregarlo. Se Egli trova in te le sue delizie, non permettere che le cose della terra t’impediscano di trovare il Lui le tue e di rallegrarti delle sue grandezze. Giacché tanto merita di essere amato e lodato, pregalo che ti dia di contribuire almeno un poco nel far celebrare il suo nome, onde tu possa dire con verità: La mia anima loda ed esalta il Signore.

Inoltre tanti scritti vari che comprendono le Costituzioni per le monache, i suggerimenti sul modo di visitare i monasteri, alcune relazioni particolari, le poesie e un nutrito numero di LETTERE (454) raccolte in gran parte nell’Epistolario, in cui ella parla della sua vita quotidiana, in sintonia con la Regola del Carmelo.

Ad eccezione delle poesie, quasi tutte le opere di Teresa furono scritte su richiesta dei confessori e direttori spirituali, o per l’insegnamento alle monache.